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Europa. Italia, 25 aprile 2008....

LA FILOSOFIA DELLA "COPIA" (CASO GALIMBERTI) COME "COPIA" DELLA POLITICA DELLA PAROLA "COPIATA" (BERLUSCONISMO). Una nota (del 2004) sulla catastrofe politica e culturale italiana - di Federico La Sala

"Signore A: QUALCUNO HA VOTATO SECONDO COSCIENZA...; Signor B: DOVEVATE PERQUISIRLI... AVEVO DETTO DI NON PORTARLA IN AULA"!!!
lunedì 9 giugno 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] Da tempo, purtroppo, siamo già fuori dall’orizzonte democratico! Il gioco è truccato! Cerchiamo di fermare il ’gioco’ e di ristabilire le regole della nostra Costituzione, della nostra Legge e della nostra Giustizia.
Ristabiliamo e rifondiamo le regole della democrazia. E siccome la cosa non riguarda solo l’Italia, ma tutto l’Occidente (e non solo), cerchiamo di non andare al macello e distruggerci a vicenda, ma di andare avanti .... e di venir fuori da questa devastante e (...)

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> LA FILOSOFIA DELLA "COPIA" (CASO GALIMBERTI) COME "COPIA" DELLA POLITICA DELLA PAROLA "COPIATA" (BERLUSCONISMO). ---- Natoli: «Io e gli altri copiati da Galimberti». «Se citi Galimberti, fai attenzione, rischi di citare qualcun’altro». Per essere una battuta lascia il segno, e non molto spazio all’immaginazione. Se poi a pronunciarla è il filosofo Salvatore Natoli, collega e compagno di studi di Umberto Galimberti, la questione si fa seria. Insomma, altro che caso isolato, altro che errore, Galimberti le virgolette le scorderebbe spesso e volentieri (di Marco Innocente Furina) ... Per ircordare: Erasmo, Spinoza, Bruno: il pensiero moderno nato dalla critica testuale delle sacre scritture (di Luciano Canfora).

giovedì 24 aprile 2008

Natoli: «Io e gli altri copiati da Galimberti»

IL FILOSOFO, dopo le accuse di plagio rivolte dalla storica Sissa al celebre psicoanalista, spiega che quella della «riproduzione» di brani altrui non è una novità: «Lo faceva già ai tempi del Sole 24 ore...»

di Marco Innocente Furina *

«Se citi Galimberti, fai attenzione, rischi di citare qualcun’altro». Per essere una battuta lascia il segno, e non molto spazio all’immaginazione. Se poi a pronunciarla è il filosofo Salvatore Natoli, collega e compagno di studi di Umberto Galimberti, la questione si fa seria. Insomma, altro che caso isolato, altro che errore, Galimberti le virgolette le scorderebbe spesso e volentieri. Troppo volentieri.

Il caso questa volta lo solleva Avvenire, dopo che dalle pagine de Il Giornale Roberto Farneti il 17 aprile scorso, aveva dimostrato che alcuni brani de L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani edito da Feltrinelli, l’ultimo libro di Umberto Galimberti, sono «pericolosamente» somiglianti a passi de Il piacere e il male, testo del 1999, sempre edito da Feltrinelli, della storica Giulia Sissa. Il giornale dei vescovi in un articolo a firma di Edoardo Castagna, apparso martedì scorso, accusa Galimberti di esser stato «precoce» nel «vizietto» del copia incolla. Il libro all’indice è Gli equivoci dell’anima del 1987, in cui Galimberti «riassume» parecchie riflessioni di Natoli già apparse su riviste specializzate. Natoli conferma.

«Quando mi accorsi dei plagi dei miei articoli - spiega il filosofo - la mia reazione immediata fu di tristezza e dispiacere, non di aggressività». Il docente di filosofia teoretica all’università Bicocca di Milano preferì lasciar correre: «C’erano anche ragioni personali: eravamo stati compagni di studi, era un fatto che mi feriva. Mi sentii tradito, più che offeso. Nella professoressa Sissa ha prevalso un altro sentimento, forse operando nel mondo anglosassone (Giulia Sissa è ricercatrice all’Ucla di Los Angeles, ndr), è abituata a maggior rigore. Ma a indurmi a non reagire è stato anche un altro motivo. Sono convinto che dispute del genere devono essere risolte all’interno della comunità scientifica. Noi studiosi dobbiamo essere autoimmuni da fenomeni di questo genere. Altrimenti il rischio è che i non addetti ai lavori, vedendo due accademici litigare, pensino che siano soltanto gelosie e ripicche e finiscano col convincersi che abbiano torto entrambi. Come accade per le polemiche politiche».

Intanto per gettare acqua sul fuoco è intervenuto anche l’editore Feltrinelli, che in un comunicato ha definito i passi incriminati una «riproduzione» della recensione a suo tempo fatta da Galimberti del lavoro della Sissa. Una tesi sostanzialmente ribadita anche dal filosofo che, da parte sua, in un’intervista a Il Giornale, ha riconosciuto i debiti nei confronti della ricercatrice, ma ha difeso la sua buona fede: «Quelle pagine sono una rielaborazione di una recensione del 23 aprile del 1999 che io scrissi parlando de Il piacere e il male di Giulia Sissa. Nella recensione io riassumevo ciò che diceva la professoressa Sissa... Io lavoro così, leggo il libro e poi scrivo. Non faccio mai virgolettati, racconto. È stato questo il mio errore». Una spiegazione che non ha convinto la studiosa italiana («Nel libro di Galimberti ci sono note riprese dal mio Il piacere e il male che non esistevano nella recensione del 23 aprile 1999 e che, quindi, devono essere cercate e trovate nel mio libro. Più che delle scuse, è un cercare delle scuse, un arrampicarsi sugli specchi») e che non convince del tutto neppure Natoli. «Galimberti non è nuovo a episodi di questo genere. Ricordo che fin da tempi in cui scriveva per il Sole 24 ore c’erano lettori che mi contattavano per segnalarmi dei plagi dei miei scritti. E anche successivamente, in alcuni articoli su Repubblica, è avvenuta la stessa cosa. Avrei dovuto creare delle cartelle, ma ho lasciato stare».

Per Natoli il caso venuto alla luce in questi giorni dunque non è che la punta dell’iceberg di un certo modus operandi. «Una volta ho citato una frase di Galimberti, o almeno credevo fosse sua; invece era di Foucault, un brano tratto da La nascita della clinica».

Parole pesanti quelle di Natoli, che troverebbero conferma anche in un altro episodio denunciato dalla stessa Sissa. L’antichista ha raccontato al Corsera di aver ricevuto una mail da una studiosa fiorentina, Alida Cresti, che segnalava una sentenza del Tribunale di Roma che in data 30/5/2006 condannava Galimberti per aver pubblicato su Repubblica un articolo a sua firma, in realtà copiato da una saggio della stessa Cresti. Sul perché nessuno abbia mai detto niente, Natoli ha un’idea precisa: «Galimberti ha avuto grande successo televisivo, è un personaggio conosciuto e la comunità scientifica ha una forte soggezione del successo mediatico». Le comparsate in tv - Galimberti è stato spesso ospite del Maurizio Costanzo Show - e la collaborazione coi grandi giornali conterebbero più della affidabilità accademica. Un deriva inquietante, se fosse vera. Contro cui Natoli ha un’unica soluzione: «Si deve tornare a un’etica della scrittura, a una responsabilità del pensiero». Etica e responsabilità, due concetti centrali nella riflessione di Galimberti...


Una tappa fondamentale della nostra storia: dai divieti del Concilio tridentino alle aperture di Pio XII

Così i filologi conquistarono la libertà.

Erasmo, Spinoza, Bruno: il pensiero moderno nato dalla critica testuale delle sacre scritture

di Luciano Canfora (Corriere della Sera 24.4.08)

È una storia affascinante quella della libertà di pensiero attraverso il faticoso e contrastato dispiegarsi della libertà di critica sui testi che l’autorità e la tradizione hanno preservato. Il campo in cui primamente in età moderna tale libertà provò a dispiegarsi fu quello delle «scritture» dette appunto «sacre»: un aggettivo che di per sé scoraggia la critica. E l’antagonista tenace, quando non minacciosamente repressivo, di tale libertà fu la Chiesa, furono le Chiese. Dal lungo processo di definizione di quel che poteva accettarsi come «canonico» a fronte del rigoglio di narrazioni biografiche sulla persona dell’iniziatore della setta (Gesù) alla «stretta» tridentina che sancì l’assoluta prevalenza della Vulgata di Girolamo: «stretta» tridentina che, si potrebbe dire, cede imbarazzata il passo all’irresistibilità della critica testuale, dopo circa quattro secoli, con l’enciclica di Pio XII, Divino afflante spiritu, del 30 settembre 1943, quando Pacelli, pur tra mille cautele e contorsioni, alfine dichiarò legittimo l’esercizio della critica testuale sul corpus antico e neotestamentario.

Il cammino fu molto accidentato e il riconoscimento di aver sbagliato non fu mai esplicito. Le parole pronunciate dal dotto e facondo pontefice il 30 settembre 1943 furono: «Oggi dunque, poiché quest’arte (cioè la critica testuale, nda) è giunta a tanta perfezione, è onorifico, benché non sempre facile, ufficio degli scritturisti procurare con ogni mezzo che quanto prima da parte cattolica si preparino edizioni dei Libri sacri, sì nei testi originali, e sì nelle antiche versioni, regolate secondo le dette norme». E subito precisava: «(edizioni) tali cioè che con una somma riverenza al sacro testo congiungano una rigorosa osservanza di tutte le leggi della critica». Precisazione sintomatica, oltre che imbarazzante. Per coglierne l’assurdità, basta immaginarla applicata ad altri testi che abbiano anch’essi dato origine, via via nel tempo, a «scuole», seguaci, esegeti, ortodossi e non. Si pensi per esempio al corpus platonico e al suo più che millenario sviluppo, e ben si comprenderà l’effetto insensatamente contraddittorio dell’invito a coniugare «riverenza al sacro testo » e «rigorosa osservanza di tutte le leggi della critica». O si dovrà pensare che un testo affidabile di Platone possano darlo soltanto dei platonici puri e graniticamente fedeli al «verbo» del maestro (ammesso comunque che tale verbo esista già preconfezionato, prima del necessario, lunghissimo, imprevedibile, lavorio critico).

Ovviamente c’è un sofisma cui affidarsi per cercare di tamponare la contraddizione. Che cioè solo quei testi (sacri, com’è noto: quelli inclusi nel canone cattolico) contengono «la verità», in ogni loro parte; il che dovrebbe comportare che perfetta ricostruzione del testo e perfetta aderenza al verbo rivelato, a rigore, coincidano. Infatti è assioma che la verità si esprime in un unico modo. Ma è evidente la petitio principii. Solo dopo aver ricostruito il testo si dovrebbe approdare (eventualmente) a scoprire quale verità esso contenga, e, successivamente, alla conclusione che esso - ed esso soltanto - contiene la verità. Invece qui c’è, sottintesa, la pretesa aprioristica che lì (e non altrove) ci sia la verità. Una «verità» data e precostituita e testualmente compiuta già prima della ricostruzione del testo. Oltre alla petitio principii ci sono poi difficoltà di ordine storico. Quei testi infatti: a) sono stati spiegati in modi vari dalle differenti confessioni e sette staccatesi via via dal ceppo «cattolico» (il che di per sé dimostra che essi potenzialmente contengono diverse verità e non di rado in contrasto tra loro); b) sono stati accompagnati, nel corso della tradizione, da numerosi altri testi consimili ma non coincidenti con quelli proclamati poi «canonici ». Alcuni, e non altri, a un certo punto furono espulsi dal «canone». Il che - oltre a rappresentare un’ulteriore petitio principii - per giunta accadde in un’epoca in cui già non esisteva più univocità testuale nemmeno dei libri inclusi nel «canone ». In tali condizioni, a maggior ragione, il richiamarsi a una prestabilita, unica, «verità» testuale racchiusa in quei libri appare immetodico.

Ma forse è superfluo insistere su questo punto così vulnerabile. Esso è inevitabilmente presente fintanto che quei testi vengono gravati di un peso e di un significato superiore rispetto a quello di tutti gli altri. Una pretesa di superiorità che automaticamente impaccia la libertà di critica (testuale).

Quando si ricostruisce questa vicenda, si comprende che essa coincide con la storia stessa della filologia, cioè della libertà di pensiero. Un grande intellettuale italiano della prima metà del Novecento, Giorgio Pasquali, fu autore di un libro memorabile, che andrebbe ciclicamente ristampato (non importa se «invecchiato», come potrebbe deplorare qualche fumatore di oppio bibliografico): la Storia della tradizione e critica del testo (la prima edizione è del 1934, la più recente è del 1988). Qui, il capolavoro nel capolavoro è il capitolo iniziale, dove Pasquali narra, con semplicità densa a ogni frase di dottrina non ostentata, come il metodo filologico volto a recuperare quanto possibile l’autenticità dei testi - una pratica in cui verità e libertà si sostengono a vicenda - si sia venuto formando, almeno da Erasmo in avanti, nel costante sforzo di ricostruire la formazione - e quindi la lettera - del Nuovo Testamento. Una lotta nella quale i cattolici brandivano i deliberati tridentini, particolarmente oscurantistici su questo punto, ma che vide anche le Chiese protestanti perseguitare i loro adepti che, studiando criticamente il testo greco del Vangelo, ne mettevano di necessità in crisi la comoda e arbitraria fissità e unità. Gli eretici degli eretici furono dunque allora i fondatori della filologia e, al tempo stesso, il seme della nostra libertà: il «campo di battaglia» furono quei testi imbalsamati come «sacri» e lo strumento della lotta fu, allora come sempre, la filologia.

Il diritto alla verità dopo i veti della Chiesa

Il saggio che pubblichiamo in questa pagina è il secondo capitolo del nuovo libro di Luciano Canfora, Filologia e libertà, appena edito da Mondadori (pagine 149, e 13). Come dice il sottotitolo, la filologia è «la più eversiva delle discipline», attraverso cui passano «l’indipendenza di pensiero e il diritto alla verità». Canfora, docente di Filologia greca e latina all’università di Bari, passa in rassegna i grandi momenti della critica testuale, dalle proibizioni del Concilio di Trento, alle concessioni di Pio XII, e racconta delle battaglie ingaggiate da giganti del pensiero, come Erasmo da Rotterdam, Baruch Spinoza, Giordano Bruno, per applicare la libertà di ricerca anche ai testi sacri.


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