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PER LA NONVIOLENZA E LA PACE ....

UNA COSCIENZA ATTIVA E PRECISA DEL PERCHE’ IL FASCISMO ERA SBAGLIATO. Le riflessioni di Aldo Capitini: "Posso assicurare i giovani di oggi che il mio rifiuto fu dopo aver sentito le premesse del fascismo proprio nell’animo adolescente, e dopo averle consumate; sicche’ i fascisti mi apparvero dei ritardatari" - a cura di pfls

lunedì 28 aprile 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] Guardando il fascismo, vedevo che lo avevano sostenuto in modo decisivo due
forze: la monarchia che aveva portato con se’ (piu’ o meno) l’esercito e la burocrazia; l’alta cultura (quella parte vittima del patriottismo
scolastico) che aveva portato con se’ molto della scuola. C’era una terza
forza: la Chiesa di Roma. Se essa avesse voluto, avrebbe fatto cadere, dispiegando una ferma non collaborazione, il fascismo in una settimana.
Invece aveva dato aiuti continui. Si venne alla (...)

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> DOV’E’ FINITA LA NONVIOLENZA? La nonviolenza ha perso oppure, nel lungo periodo storico, attraverso nuovi interpreti potrebbe insegnare ancora prospettive di convivenza civile agli uomini della società post-moderna e ipertecnologica? (di Luca Rolandi)

lunedì 23 gennaio 2012

Dove è finita la nonviolenza?

di Luca Rolandi (La Stampa/Vatican Insider, 22 gennaio 2012)

La nonviolenza ha perso oppure, nel lungo periodo storico, attraverso nuovi interpreti potrebbe insegnare ancora prospettive di convivenza civile agli uomini della società post-moderna e ipertecnologica? A cinquant’anni dalla nascita del movimento italiano a che punto è la sensibilità su un concetto di vita che appassionò migliaia di giovani tra gli anni Sessanta e Settanta e che oggi segna il passo. Se il 24 settembre 1961 su iniziativa di Aldo Capitini, il padre della nonviolenza in Italia, si marciava per la prima volta da Perugia ad Assisi in nome della pace, quattro mesi più tardi nel gennaio 1962, con un documento ufficiale, dalla sua Perugia, il filosofo liberalsocialista indicava nel movimento nonviolento per la pace il luogo dove “aderiscono pacifisti integrali, che rifiutano in ogni caso la guerra, la distruzione degli avversari, l’impedimento del dialogo e della libertà di informazione e di critica. Il movimento - concludeva l’appello manifesto - prende iniziative per la difesa e lo sviluppo della pace e promuove la formazione di centri in ogni luogo”.

All’inizio degli anni Sessanta vi erano in Italia quattro realtà: il centro costituito da Capitini, una sezione del WRI (World Resisters’ International) e il Movimento Internazionale della Riconciliazione (Mir), sezione italiana della International Fellowship of Reconciliation e infine il Centro studi di Partinico fondato e animato da Danilo Dolci. I movimenti giovanili guardavano con interesse, sempre crescente la radicalità della proposta capitiniana. Il Partito radicale aderiva ufficialmente al WRI, la Lega degli Obiettori di Coscienza e quella sul Disarmo Unilaterale, erano il ponte verso il dialogo con la sinistra e i movimenti giovanili. Il pensatore perugino aveva cercato di trasferire le idee gandhiane in funzione nazionale con una serie di adesioni nel mondo della cultura, della politica e della religione; da Norberto Bobbio a Giovanni Arpino, da don Lorenzo Milani a padre Ernesto Balducci. La lotta per l’affermazione dell’obiezione di coscienza il traguardo possibile verso una società diversa e “aperta” secondo la visione di Capitini.

In questi giorni, i “reduci” di quello che ancora oggi è l’arcipelago nonviolento si riuniscono a Verona per rilanciare un movimento afasico che ha attirato sempre meno adesioni tra le nuove generazioni.

Il primo relatore del congresso Goffredo Fofi, saggista e critico, ricercatore delle ragioni delle minoranze precisa: “La nonviolenza non può oggi che venir portata avanti da minoranze di "persuasi", il cui esempio (la disobbedienza civile) dovrebbe riuscire a mobilitare altri e numerosi. Proprio perché il mondo è sempre più violento, e sempre più sembra destinato a diventarlo, la nonviolenza e la disobbedienza civile (e aggiungo: le forme dell’autorganizzazione di base e dal basso, il mutuo soccorso tra i più colpiti dalle crisi e dall’esclusione sociale) mi sembrano siano temi e iniziative di grandissima attualità, e me ne aspetto - insieme all’aumento della barbarie... - e me ne auguro una rinascita e una nuova stagione”.

“Anche se non vengono molti segni di vitalità dai gruppi nonviolenti storici e consolidati - aggiunge il direttore de “Lo Straniero” - “che sembrano piuttosto fermi e che non sono in grado di affrontare la novità dei tempi portando avanti e attualizzando le posizioni tradizionali, sono convinto che una ripresa della nonviolenza sia inevitabile, una necessità di cui molti stanno già rendendosi conto, se c saprà portare avanti forme nuove o rinnovate di disobbedienza civile. Su questo punto avverto un grave ritardo delle chiese cristiane in fatto di teoria e pratica della nonviolenza”.

“In cinquant’anni sono cresciute molto le ricerche sul metodo nonviolento per la risoluzione dei conflitti” - afferma il professor Nanni Salio, fisico di scienziati contro la guerra e soprattutto animatore del movimento nonviolento a livello internazionale - “la letteratura è vasta e di altro profilo il contributo di intellettuali e teorici come Giuliano Pontara, Johan Galtung e soprattutto Gene Sharp dal quale hanno tratto ispirazione molte delle componenti delle mobilitazioni della primavera araba in particolare in Tunisia ed Egitto.

Paradossalmente l’arretramento è avvenuto sul piano politico - sottolinea Salio - “Oggi scarseggiano gli interlocutori e il movimento non ha più l’eco degli anni Settanta e Ottanta. Anche se ci sono una serie di movimenti Occupy Wall Street e gli Indignados che in un certo senso sono esempi di lotta almeno pragmaticamente nonviolenta”. “Inoltre” - termina Salio - “ Anche se il movimento nonviolento è rimasto una nicchia sul piano numerico anche per una scarsa qualità organizzativa, vi sono anche esempi di pratiche realizzate di difesa nonviolenta, poco note, come la rete dei corpi civili di pace costituita da gruppi in Italia e all’estero, che agiscono con risorse limitatissime in situazione di conflitto armato intervenendo con metodologie di lotta nonviolenta per esempio in Palestina, Kosovo e in Sri Lanka”.

Enrico Peyretti, insegnante, giornalista e studioso della nonviolenza afferma “Esiste un problema di immagine negativa del termine nonviolenza, che induce l’opinione pubblica a considerarla come una dimensione di arrendevolezza. L’accusa nei confronti dei nonviolenti è di essere poco realisti e di compiacersi troppo della propria utopia. Si tratta di una critica ingenerosa nulla di più lontano dalla teoria e pratica promossa e attuata da Gandhi e dai suoi seguaci.

La nonviolenza non è rassegnazione o vacazione al martirio, al contrario tentativo di risoluzione dei conflitti umani in modo disarmato. Essa è entrata nella dimensione anche religiosa in modo molto più ampio e concreto rispetto al passato, anche se i fondamentalismi minano questa prospettiva. Dal punto di vista politico ho l’impressione che la nonviolenza segni il passo. In un certo senso i nonviolenti si separano dalle proteste di ogni genere disposte a tutto (dai movimenti antiglobalizzazione alle violenze di Roma alla manifestazione degli indignati dell’ottobre scorso). Se ci fosse più ascolto della sostanza della ricerca nonviolenta credo che non si rifiuterebbe e porterebbe nuova linfa ai coloro che si sforzano di pensare percorsi sociali e politici globali”.

Sul rapporto religione e nonviolenza, lavora il professor Alberto De Sanctis, dell’Università di Genova che nel suo recente “La fede ribelle” scrive “si è spesso trascurata la rilevanza di una critica religiosa del potere - anche di matrice cattolica - che ha svolto invece una funzione sociale e politica importante. Proprio muovendo da presupposti religiosi, questa critica ha saputo contrastare il potere, ogniqualvolta abbia rivestito i panni del totalitarismo e dell’autoritarismo. Anche se oggi da un lato assistiamo ad un disordinato ribellismo e dall’altro si avverte la mancanza una profezia delle fede che sia lievito nella società”.

"La scelta tra violenza e nonviolenza concerne pertanto l’umanità che si intende promuovere. Si desidera un’umanità in cui il dissenso induce alla soppressione - anche fisica - di chi la pensa diversamente? Oppure un’umanità in cui la dimensione del conflitto e finanche l’aggressività possano svolgere una funzione costruttiva, perché capaci di situarsi all’interno di una relazione, che perdura, oltre lo scontro e il conflitto? D’altro canto, ciò si ripercuote in un modo di costruire la politica come frutto di relazione, che decreterebbe il definitivo superamento di un modo di pensare la politica come scissione con l’etica, come divorzio con quella stessa morale, che i singoli sono chiamati ad osservare nella propria vita privata. Tale elemento mi pare quanto mai attuale in un periodo in cui il distacco tra la politica intesa come privilegio di casta e la vita e la sofferenza quotidiana di milioni di persone si fa palese".

Chi pensa positivo, ma non potrebbe che essere altrimenti, è Mao Valpiana, il presidente del Movimento Nonviolento in Italia e direttore della rivista “Azione Nonviolenta” “Sono stati fatti progressi e il bilancio è positivo, anche se restano molte insufficienze. Oggi la nonviolenza è una spina nel fianco con il quale il potere deve fare i conti, per decenni, in Italia, è stata totalmente ignorata e in alcuni casi addirittura ridicolizzata.

Negli anni Settanta era stata anche osteggiata. Ma già nel dopoguerra Aldo Capitini, che non ebbe la possibilità di dare il suo contributo alla Costituente, diceva che, dopo la ubriacatura dei totalitarismi bisognava rieducare le nuove generazioni a parlare ed ascoltare. Da allora molto è cambiato. La nonviolenza si manifesta e vive non solo negli obiettivi da raggiungere ma anche nel metodo che si sceglie di fare le proprie battaglie. E questo è motivo di confronto e anche dissenso nei confronti di moltimovimenti sociali che oggi operano nella società.

C’è un legame profondo tra il riconoscimento giuridico dell’obiezione di coscienza, le migliaia di giovani che hanno scelto il servizio civile come alternativa culturale al modello militare, le campagne degli anni Ottanta sulla riduzione delle spese militari e i movimenti sociali per i diritti di oggi. Sono gli interlocutori politici a latitare: dopo i radicali negli anni Settanta, i Verdi degli anni Ottanta e la svolta nonviolenta dei comunisti di Bertinotti, oggi si fatica a dialogare fuori dai movimenti” “Al congresso di fine gennaio - dice Valpiana - abbiamo deciso di rilanciare la campagna sul disarmo come elemento comune d’impegno dal punto di vista economico con la riconversione in investimenti per l’ambiente, il sociale globale e la sicurezza, per depotenziare le forti tensioni e rilanciare i temi della cooperazione, l’accoglienza e il dialogo interculturale.

Sulle prospettive prevale il realismo scettico di Fofi: “La nonviolenza segna il passo laddove considera più importante una pratica di perfezionamento individuale o di gruppo che l’incisività sociale e politica delle sue tante possibili dimostrazioni. In particolare la pratica della disobbedienza civile, che Gandhi considerava connaturata alla nonviolenza, e sua espressione pratica, va considerata come strumento di mobilitazione di singoli e di gruppi in grado di trascinare più persone ad influire radicalmente sul cambiamento della società. Si parla troppo poco, in generale, di disobbedienza civile, anche se oggi rivestirebbe un ruolo fondamentale in ogni società e di cui - altrove, per esempio a New York o in Spagna - si sono avute di recente grandi dimostrazioni”.


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