Eckart, un mistico nel vuoto di Dio
di Giorgio Montefoschi (Corriere della Sera, 14 dicembre 2012)
Meister Eckhart - scrive Marco Vannini, il suo massimo studioso, nell’introduzione al «Commento alla Sapienza» contenuto nel volume in cui sono raccolti i Commenti all’antico Testamento (Bompiani, pp. 1548, € 35) - non ha mai pensato alla mistica, né tanto meno di essere un mistico, laddove per misticismo si intende un’esperienza intuitiva, segreta, del divino.
Il padre domenicano nato attorno al 1260 in Turingia, priore nel convento di Erfurt, professore di teologia a Parigi, processato per eresia nel 1326, morto presumibilmente nel 1328, pensava che l’unico cammino possibile dell’uomo verso la verità che è Dio fosse il cammino della ragione. La ragione: l’intelletto è l’universale che è nell’uomo; il Logos generato da Dio che è nel mondo e all’interno di ogni uomo: di un pagano come di un cristiano, di un musulmano come di un ebreo.
Per poterlo conoscere, l’uomo giusto deve distaccarsi dal determinato, da quello che vede con i suoi occhi, pensa con il suo pensiero, ama con la sua volontà e insegue con il suo desiderio. Deve distaccarsi dal tempo e dal proprio io e pervenire a quel «fondo dell’anima» dove è assoluto silenzio e nulla, ma dove finalmente zampilla ciò che abbiamo di più profondo. «A stento valutiamo le cose terrestri, a fatica scopriamo quelle davanti agli occhi? Ma chi può rintracciare le cose del cielo?», recita la Sapienza in uno dei suoi versetti più sublimi. Le «cose del cielo», risponde Eckhart, ci appaiono quando un silenzio le avvolge; quando l’anima riposa dal tumulto delle passioni e dalle occupazioni mondane, tutte le cose per essa tacciono ed essa tace per tutte. «Lì», dice Agostino, il più citato da Eckhart, «è il luogo della quiete che non conosce turbamento», ed è lì che l’uomo deve porre la sua dimora. Dice Giobbe: «In visione notturna, quando cade il sopore sugli uomini e si addormentano sul giaciglio, allora apre i loro occhi e li ammaestra».
Se vuole le «cose del cielo», e sentire la piena unione con Dio che vive nel nostro cuore, l’uomo deve annullarsi al di là di ogni possibile concezione umana dell’annullamento. Non si tratta soltanto di non invocare Dio con immagini terrene e del tempo; anche la sola invocazione muta, il solo desiderio di essere in comunione con Dio ci fa piombare nella determinazione e nelle cose finite. Dio, invece, è indeterminabile, non numerabile, Uno. Epperò è nel nostro cuore: è in noi. Quindi, come Lui genera e crea la Parola che prende forma nel mondo, anche noi generiamo e creiamo, continuamente - una idea immensa - purché ogni sapere umano sia rimosso. È un punto fondamentale.
Se si domanda perché Dio abbia creato tutto, cioè l’universo - dice Eckhart - bisogna rispondere: «Perché fosse». Dio fece tutte le cose perché fossero, cioè perché avessero l’essere all’esterno, nella realtà naturale, sebbene fossero in lui (come le idee di Platone) dall’eternità. Dunque, il fine è l’essere. E la generazione - ne consegue - è amore. Quindi noi proseguiamo l’amore.
Non esiste pensatore occidentale più implacabile di Meister Eckart. Se leggiamo i suoi testi (i Commenti all’Antico Testamento e anche i meravigliosi Sermoni tedeschi) abbiamo la sensazione di attraversare un vuoto immenso. Le pagine più estreme di Giovanni della Croce o di Teresa d’Avila ci sembrano timbrate da un suono confidenziale, al suo confronto. Eppure Dio è con noi, ci ripete continuamente Eckhart; molto più vicino di quanto immaginiamo, essendo nel nostro cuore. Ma esso, per quanto cerchi di spossessarsi, batte; e, fino all’ultimo, riconosce la sua persona, donatagli da Dio.
«Nella divinità - scrive Eckhart - nasce sempre il Figlio» e anche nel Cristo in quanto uomo non c’è alcun altro essere oltre a quello divino. E il Figlio in carne e ossa, il Figlio del Getsemani, è quello che, pure annullandoci, continuiamo ad avere davanti ai nostri occhi mortali