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Filosofia, Antropologia, e Letteratura....

A CLAUDE LÉVI-STRAUSS (CENTO ANNI IL 28 NOVEMBRE 2008). E AL SUO LAVORO "TRISTI TROPICI" - UN’OPERA UNICA, ASSOLUTA. Una nota di Antonio Gnoli - a cura di pfls

Sotto quel caos di emozioni e di avventure, regna un ordine nascosto, un sapere che fa appello alle semplici regole dello strutturalismo.
venerdì 23 maggio 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] Lévi-Strauss trascorse diversi anni nelle foreste del Mato Grosso. Vi giunse nel 1935 e ripartì nel 1939. Su quell’esperienza lasciò per anni calare il silenzio. Non una parola che ricordasse le difficoltà, i rischi, i timori, che gli incontri con civiltà indigene, remote e incontaminate gli avevano procurato. Poi, quindici anni più tardi, decise di raccontare quello che aveva visto e vissuto. E ne venne fuori Tristi Tropici, un’opera unica. Assoluta, come possono esserlo quei libri (...)

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> A CLAUDE LÉVI-STRAUSS (CENTO ANNI IL 28 NOVEMBRE 2008). --- Un pomeriggio col professore (di Bernardo Valli) e Un’intervento di Marino Niola.

venerdì 21 novembre 2008

Il grande antropologo compie cent’anni il 28 novembre

Lévi-Strauss, una rivoluzionaria idea di uomo

-  Il padre dello strutturalismo non è diventato famoso per aver descritto popoli primitivi, ma per le implicazioni generali del suo pensiero che incidono profondamente sul rapporto natura-cultura aprendo strade del tutto nuove
-  Il suo è un attacco frontale alla concezione antropocentrica dell’universo
-  Ad essere scardinata è la storia della metafisica e dei suoi concetti

-  di Marino Niola (la Repubblica 21.11.2008)

Il 28 novembre si festeggia il centesimo compleanno di Claude Lévi-Strauss. L’ultimo dei maîtres à penser. L’uomo che ha fatto dell’antropologia quel che Freud fece della psicoanalisi, cioè uno dei grandi saperi del Novecento. Non solo una disciplina specialistica, per pochi esploratori di mondi esotici, ma un nuovo modo di vedere l’uomo.

Nessun antropologo ha esercitato un’influenza altrettanto vasta al di fuori del proprio campo. Con questo moralista classico in presa diretta sullo stato d’urgenza planetaria l’antropologia va fuori di sé per diventare scommessa filosofica in grado di revocare in questione l’opposizione tra natura e cultura, e la definizione stessa dell’umano. A differenza di altri grandi antropologi come Franz Boas, Bronislaw Malinowski, Margaret Mead e Gregory Bateson, il padre dello strutturalismo non è divenuto celebre per aver descritto popoli primitivi ma piuttosto per le implicazioni generali del suo pensiero. E proprio in questo ampio respiro stanno il fascino e la sfida dell’impresa teorica levistraussiana.

L’antropologo francese non è stato il primo né il solo a sottolineare il carattere strutturale dei fenomeni sociali, ma la sua originalità sta nel prendere questo carattere sul serio e trarne imperturbabilmente le conseguenze. È naturale che una ricerca di questo tipo abbia suscitato discussioni e polemiche non fosse altro che per il fatto di condurre ad una messa in discussione di certe categorie tipiche dell’umanesimo occidentale, non ultimi i concetti di «uomo» e di «umanità». E d’altra parte in un celebre passo del Pensiero selvaggio Lévi-Strauss ha affermato che «il fine ultimo delle scienze umane non consiste nel costituire l’uomo ma nel dissolverlo».

La conoscenza dell’alterità, che rappresenta il compito dell’etnologia, è solo la prima tappa di un itinerario di ricerca delle invarianti che consentono di riassorbire «talune umanità particolari in una umanità generale». E dunque di «reintegrare la cultura nella natura e, in sostanza, la vita nell’insieme delle sue condizioni fisico-chimiche». Il vero oggetto della polemica levistraussiana è con tutta evidenza quell’umanismo che fonda i diritti dell’uomo sul carattere unico e privilegiato di una specie vivente, quella umana, anziché vedere in tale carattere un caso particolare dei diritti di tutte le specie. Più che di una professione di antiumanesimo si tratta di un attacco frontale portato alla sua declinazione antropocentrica, alla metafisica umanistica del soggetto. A questo insopportabile enfant gaté delle scienze umane, il grande antropologo oppone una concezione dell’uomo «che pone l’altro prima dell’io, e una concezione dell’umanità che, prima degli uomini, pone la vita». In questo senso è stato osservato che Lévi-Strauss ha contribuito a decostruire «la convinzione giudaico-cristiana e cartesiana secondo la quale la creatura umana è la sola ad essere stata creata ad immagine e somiglianza di Dio».

Se si chiede ad un Indiano americano cosa sia un mito, ci sono molte probabilità che risponda: «una storia dei tempi in cui gli uomini e gli animali non erano ancora distinti». Questa definizione appare a Lévi-Strauss di grande profondità perché «malgrado le nuvole d’inchiostro sollevate dalla tradizione ebraico-cristiana per mascherarla, nessuna situazione pare più tragica, più offensiva per il cuore e per l’intelligenza, di quella di una umanità che coesiste con altre specie viventi su una terra di cui queste ultime condividono l’usufrutto e con le quali non può comunicare». Affiora qui il pessimismo dell’autore di Tristi Tropici che all’idea prometeica dell’uomo che assoggetta la natura, sostituisce una visione tragica del soggetto e di una natura entrambi mutilati, perché separati dall’altra parte di sé.

Un decentramento del soggetto che riflette l’idea di un rapporto non strumentale con la natura in cui, per dirla con Adorno, questa non è mero oggetto, Gegenstand, ma piuttosto partner, Gegenspieler. Già nei primi anni Cinquanta, con una sensibilità ecologista in largo anticipo sui movimenti ambientalisti attuali, l’antropologo francese denunciava il pericolo di un umanesimo narcisisticamente antropocentrico, e per ciò stesso etnocentrico, che dimentica i diritti del vivente in nome di un’idea astratta della vita, che fa dell’uomo il signore unico del pianeta e della sua riproduzione il fine ultimo della natura. In questo senso Michel Maffessoli ha ritenuto di poter accostare la denuncia levistraussiana del saccheggio del mondo alla critica heideggeriana della devastazione della terra da parte della metafisica.

Per Derrida la nascita stessa dell’antropologia è stata possibile a condizione di questo decentramento del soggetto che ha inizio «nel momento in cui la cultura europea - e di conseguenza la storia della metafisica e dei suoi concetti - è stata scardinata, scacciata dal suo posto, costretta quindi a non considerarsi più come cultura di riferimento». La critica dell’etnocentrismo, che è stata, e resta, la condizione stessa dei saperi antropologici è, per l’autore de La scrittura e la differenza, contemporanea, addirittura simultanea alla distruzione della storia della metafisica.

In un celebre testo dedicato a Jean-Jacques Rousseau, Lévi-Strauss istituisce una relazione tra l’identificazione agli altri, e addirittura «al più "altro" fra tutti gli altri, l’animale», e il rifiuto di tutto ciò che può rendere accettabile l’io. Il rifiuto insomma di quella trascendenza di ripiego che resta, a suo avviso, profondamente insediata nell’umanesimo. In molte occasioni il padre dello strutturalismo rimprovera infatti ai filosofi, in particolare agli esistenzialisti, di aver operato un rovesciamento prospettico, dando prova di un’autentica perversione epistemologica, pur di costruire un rifugio per l’io «nel quale quel misero tesoro che è l’identità personale tenda a essere protetto e dato che le due cose insieme sono impossibili essi preferiscono un soggetto senza razionalità a una razionalità senza soggetto». In questa idea di una razionalità senza soggetto affiora proprio quel «kantismo senza soggetto trascendentale» attribuito a Lévi-Strauss da Paul Ricoeur a proposito dell’analisi dei miti con la quale il grande antropologo ha offerto la formulazione più radicale delle sue tesi sull’accordo esistente tra cultura e natura, fra spirito e mondo.

E a quei filosofi che lo accusano di avere abolito il significato dei miti e di averne ridotto lo studio a sintassi di un discorso che non dice niente, Lévi-Strauss, nelle ultime pagine de L’uomo nudo, riserva una risposta a dir poco tranchante. Le mitologie, egli afferma, non nascondono nessuna verità metafisica né ideologica ma in compenso ci insegnano, per un verso, molte cose sulle società che le tramandano e per l’altro verso ci offrono l’accesso a certe modalità operative dello spirito così stabili nel tempo e ricorrenti nello spazio da poterle considerare basilari. E conclude con una suprema sprezzatura: «lungi dall’averne abolito il senso, la mia analisi dei miti di un pugno di tribù americane ne ha tratto più significato di quanto se ne trovi nelle banalità e nei luoghi comuni a cui si riducono, da circa duemilacinquecento anni, le riflessioni dei filosofi sulla mitologia, a eccezione di quelle di Plutarco».

Molti hanno rimproverato allo strutturalismo un atteggiamento antistorico, ma in realtà Lévi-Strauss ha sempre tenuto a distinguere nettamente la storia, alla quale attribuisce un’importanza straordinaria, dalla filosofia della storia à la Sartre, una pseudo-storia che, in ogni sua versione, laica o confessionale, evoluzionista o storicista, costituisce un tentativo di sopprimere i problemi posti dalla diversità delle culture pur fingendo di riconoscerli in pieno. Tale filosofia della storia - che appare a Lévi-Strauss della medesima natura del mito - deriva dalla fede biblica in un compimento futuro e finisce con la secolarizzazione del suo modello escatologico che si muta in teoria del progresso. Il vizio costitutivo di tale filosofia, che rivolge verso il futuro il concetto classico di istorein e trasforma il racconto del passato in previsione del futuro, un futuro oggetto di un’attesa fideistica. In questo senso Lévi-Strauss non si limita a respingere l’accusa di antistoricismo ma, quel che più conta, rivendica all’antropologia un modo tutto proprio di interrogare i materiali storici, con quell’attenzione ai fatti minuti della vita quotidiana che fa degli etnologi gli «straccivendoli» della storia, quelli che rimestano nelle sue pattumiere.

E una vera e propria eterologia quella messa in opera da Claude Lévi-Strauss, in grado di farci cogliere quanto di noi stessi c’è nell’altro e quanto di altro si trova in fondo a noi stessi. Quel fondo che ci fa tutti parenti perché tutti differenti e che qualcuno continua a chiamare umanità.


Cosa vuol dire ragionare in termini di millenni

Un pomeriggio col professore

di Bernardo Valli (la Repubblica, 21.11.2008)

Prima di raggiungere l’appartamento del Sedicesimo Arrondissement, a due passi dalla Senna e dalla Maison de la Radio, sfogliai Tristi Tropici, e ne rilessi alcuni passaggi. Non avevo detto a Claude Lévi-Strauss il motivo dell’incontro. Né lui si era dimostrato curioso. Era un puntuale collaboratore di Repubblica (era stato Pietro Citati a convincere lui e il medievalista Georges Duby a scrivere per le nostre pagine culturali), e con la redazione parigina, che faceva da tramite, aveva ormai un rapporto se non assiduo garbato. È dunque approfittando di questo modesto legame che quel giorno di dicembre andai a casa di Lévi-Strauss armato di numerose e ambiziose intenzioni.

Avrei voluto anzitutto che mi parlasse del romanzo che aveva cominciato a scrivere a Parigi, di ritorno dal Brasile nei mesi precedenti alla guerra del ?39. Romanzo che avrebbe probabilmente avuto come titolo Tristi Tropici, lo stesso adottato quindici anni dopo per il saggio, in cui la magia della scrittura fa dimenticare facilmente che non si tratta di una fiction. Nelle prime pagine del romanzo abbandonato figurava la descrizione del tramonto («... ces cataclysmes surnaturels...») osservato dal ponte della nave diretta nell’America del Sud, descrizione poi recuperata, insieme al titolo, nel saggio pubblicato nel ?55. Lévi-Strauss trovò che le prime pagine del romanzo erano «un pessimo Conrad» e abbandonò per sempre l’idea di lanciarsi nella narrativa pura. La trama immaginata e gettata nel cestino era la vicenda di un viaggiatore che in Oceania usa un grammofono per ingannare gli indigeni e farsi passare per un dio.

Mi sarebbe piaciuto descrivere il «mancato Conrad» diventato uno dei grandi intellettuali del secolo. La prima domanda che mi proponevo di rivolgergli era dunque già pronta: «A trent’anni lei voleva usare i suoi viaggi tra gli indiani kaingang, caduveo e boroboro, come Conrad usò i suoi viaggi di mare nei romanzi? In questo caso, se avesse avuto successo come romanziere, il suo destino sarebbe radicalmente cambiato?». Mi affascinava appunto l’idea del mancato romanziere che per ripiego si dedica interamente all’etnologia, sia pur scrivendo, per nostra fortuna, anche di musica, di pittura, oltre che di letteratura. Qualche volta di poesia. Un Lévi-Strauss che ha rinunciato a inventare trame esotiche, ritenendo di non avere un talento adeguato, e che ha invece raccontato scientificamente civiltà «selvagge», traendone una morale irrinunciabile. Morale secondo la quale una società educata non può essere scusata per il solo crimine veramente inespiabile dell’uomo: peccato che consiste «nel credersi durevolmente o temporaneamente superiore e nel trattare degli uomini come oggetti: in nome della razza, della cultura, della conquista, della missione o semplicemente dell’espediente».

La mia ambizione si è sgonfiata in pochi secondi quando mi sono trovato davanti Lévi-Strauss, più che novantenne, ironico, forse divertito, del mio iniziale, prolungato silenzio, durante il quale valutavo l’opportunità di affrontare un tema tanto remoto e intimo. In definitiva gonfiato dalla mia immaginazione. Lasciai dunque cadere, saggiamente, il tema del mancato Conrad, e scivolai nel contrario: cioè nella stretta, banale attualità. Gli chiesi cosa pensasse della moneta unica europea che in quei giorni entrava o stava entrando in servizio.

Rise. «Cosa c’entra un antropologo? Non sarebbe stato meglio rivolgersi a uno storico? Io mi occupo di selvaggi», si schernì. Per difendermi ricordai un vecchio testo di Merleau-Ponty, il filosofo amico di Lévi-Strauss, scritto in occasione della nomina di quest’ultimo al Collège de France. In quel testo si parlava di un’opera fondamentale per l’antropologia sociale: Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, di Marcel Mauss. Il tema ricorre ovviamente nelle opere di Lévi-Strauss. Perché non recuperare l’argomento e allacciarlo alla vita d’oggi?

Alla mia candida, ingenua reazione il padrone di casa venne in mio soccorso. Mi disse: «Allo scoppio della guerra, nel ?14, avevo sei anni e andai in banca a offrire le monetine che possedevo per la difesa della patria. I franchi erano allora d’oro». Per lui la svolta nel rapporto col denaro è avvenuta quando si è passati dalle monete metalliche a quelle di carta. Quella è stata la vera rottura. Quanto a una moneta indipendente dai governi nazionali, era a suo avviso una fortuna. Può darsi che tutto finisca in un disastro, ma non sarà un disastro peggiore di quello provocato puntualmente dai politici sul piano monetario.

«Vede - aggiunse - il mestiere di etnologo mi ha insegnato progressivamente a pensare non in termini di decenni, e neppure di secoli, ma di millenni, anzi di decine di millenni, dunque quando parlo di questo secolo penso che tra due o tremila anni non se ne saprà più nulla. Immagini tra venti o trentamila. Pensiamo a tante cose come importanti ma se le collochiamo nel tempo scompaiono. Ciò non toglie che mi interessino».

Gli chiesi allora cosa era stato fatto, ad esempio, di tanto importante decine di migliaia di anni fa da esserlo ancora oggi. Disse: «Certamente l’invenzione del vasellame, della ciotola per prima, e del tessuto che usiamo ancora. Sono cose più importanti di quelle che si scoprono adesso e di cui non sappiamo se resteranno tali, cioè importanti, nei millenni a venire». Neppure la bomba atomica con la quale l’uomo ha costruito qualcosa che può distruggere l’umanità? «Non sono sicuro che sia vero. Anche se si fanno esplodere tante atomiche insieme non sono certo che si distruggerebbe l’umanità intera». Non resteranno neppure le scoperte nella genetica? «Si, penso che resteranno. Ma via via che si faranno delle scoperte ci si accorgerà che è molto più complicato di quel che si immaginava. Il mondo, la vita sono assai più misteriosi oggi di quanto lo fossero uno o due secoli fa. Perché allora si pensava che fossero semplici».

E la cosiddetta globalizzazione, che rimpicciolisce il mondo, sul piano economico e su quello dell’informazione, diventata simultanea sull’intero pianeta? «Non è una cosa che mi rallegra - mi disse Lévi-Strauss-. Penso che le differenze siano più interessanti. Quando era tutto molto diverso, il cinese poteva aspettarsi molte cose da noi, e noi da lui. Adesso che siamo quasi uguali possiamo aspettarci molto poco uno dall’altro. Immagino che tante differenze riaffioreranno. Presto». Il mondo rimpicciolito dalla velocità delle comunicazioni, dei trasporti, ha ucciso, per lui, anche il viaggio esotico, come esisteva un tempo. Era già minacciato al tempo di Tristi Tropici.


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