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Per la critica dell’economia politica.....

IL CAPITALISMO, LA GLOBALIZZAZIONE, E I "GRUNDRISSE" DI MARX. Intervista ad Eric Hobsbawm di Marcello Musto e una nota di Bruno Gravagnuolo - a cura di pfls

domenica 1 giugno 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] Marx non potrà tornare ad essere di ispirazione politica alla sinistra fin quando non si comprenderà che i suoi scritti non vanno considerati programmi politici, autorevoli o meno, né descrizioni dell’attuale situazione del capitalismo mondiale, ma piuttosto guide per comprendere la natura dello sviluppo capitalistico. Né possiamo o dobbiamo dimenticare che Marx non arrivò ad esporre in maniera completa e sistematica le sue idee malgrado i tentativi di Engels ed altri di ricavare dai (...)

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> Marx o Gengis Kahn. Ovvero «Riflessioni sul ruolo della Russia e dell’Urss come portatore non sano del virus del dispotismo asiatico in Europa» di Arminio Savioli (di B. Gravagnuolo - Gengis khan colpisce ancora).

domenica 20 febbraio 2011

Gengis khan colpisce ancora

Perché il «Dispotismo Orientale» è una delle chiavi della modernità? La risposta in un pamphlet di Arminio Savioli

di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 19.02.2011)

Non era il comunismo, il fantasma che si aggirava per l’Europa nel 1848, l’anno in cui Marx ed Engels lo avvistarono nel celebre Manifesto del Partito Comunista. Il fantasma era un altro: quello del Dispotismo. Almeno a guardare la cartina geografica del tempo. Austria imperiale al centro, Turchia e Russia ad est, per non dire dell’immobile Cina e del Giappone modernizzante in Asia. E per non dire degli Usa, la giovane america del nord. Democratica (e schiavista) e nella quale Tocqueville già scorgeva il germe del «dispotismo democratico» o «tirannia della maggioranza. Perché tornare a parlare di dispotismo oggi, con riferimento retrospettivo alle illusioni radicali di Marx ed Engels e anche ai timori del conservatore Tocqueville grande ammiratore al suo tempo del Nuovo mondo?

Presto detto. Prima di tutto perché il tema è attualissimo, se si pensa alle rivolte antidispotiche dei paesi arabi, al fenomeno del dispotismo «marx-capitalistico» cinese, al neoautoritarismo dispotico di Putin, con corredo di boiari buoni e boiari cattivi e incarcerati. E altresì se si pensa al dispotismo populistico, erede light e democratico dei tanti dispotismi fascisti, neotocquevilliano e mediatico, come quello berlusconiano (e con tratto sultanale, oltre che patrimonialistico).

Nondimeno, c’è un motivo in più. L’uscita di qualche mese fa di un libro curioso, dal titolo bizzarro e dalla storia ancor più curiosa. È una sorta di manoscritto trovato a Saragozza, ma scritto senza artificio retorico dal suo rinvenitore stesso, che lo aveva lasciato ammuffire trent’anni orsono, salvo una revisione di dieci anni più tardi, senza esito di pubblicazione. L’autore è Arminio Savioli, ex inviato esteri di questo giornale, specialista dei paesi arabi, di Asia, Africa, America Latina. Gappista, soldato della divisione Cremona nel 1944, intervistatore di Castro in esclusiva (che lo minacciò scherzosamente di ficcargli una palla di piombo in testa, per avergli Arminio fatto dire troppo sul suo comunismo incipiente nel 1960).

E il titolo? Eccolo: Marx o Gengis Kahn. Ovvero «Riflessioni sul ruolo della Russia e dell’Urss come portatore non sano del virus del dispotismo asiatico in Europa» ( Arlem editore, Via Gino Capponi 57, 00179, Roma, pp.119, Euro 12). Un libro scritto molto prima della caduta del Muro, e abbandonato alla critica roditrice dei topi (per dirla con Marx) ma che i topi(come con Marx!) hanno risparmiato. Perché il libro, pur non rivisto e aggiornato si ferma a prima della comparsa di Gorbaciov è attualissimo. E la tesi che inalbera è: il totalitarismo sovietico non è colpa di Marx ma di Gengis Khan, ovvero del «dispotismo asiatico», quello che attraverso l’orda d’oro e i mongoli plasmò la Russia dei Romanov, la Turchia, la Cina, tanti paesi arabi eredi dei turchi e anche tutti i satelliti dell’Urss. Insomma, scriveva Savioli a fine anni ’70 e primi ’80, non c’è mai stata nessuna «spinta propulsiva» dell’Ottobre 1917. Ma semmai una spinta autoconservativa dell’Impero zarista, eternato in nuove forme dai bolscevichi e da Stalin, al più nel segno di una emancipazione barbarica dell’arretratezza, e in grado di parlare al mondo coloniale e post coloniale (che a sua volta ha riprodotto un’emancipazione dispotica magari all’ombra del modello sovietico variamente riprodotto).

Mai dunque, per Savioli (come per Gramsci) l’Oriente col suo dispotismo gelatinoso, comunitario e «anti-società civile», poteva parlare all’Occidente, reso plurale e poliarchico dalla sua millenaria storia di conflitti. Mai di lì poteva nascere un socialismo quale che fosse, ma solo un quantum di emancipazione delle nazionalità extraeuropee, con molte illusioni e tragedie, inclusi i massacri staliniani e la satellizzazione di un pezzo d’Europa.

La tesi non è nuovissima ma poco frequentata. Basata su un libro del 1957: Il Dispotismo Orientale di Karl August Wittfogel, comunista di sinistra tedesco, esponente della scuola di Francoforte, transfuga negli Usa, viaggiatore in Cina e divenuto anticomunista. Che cos’è in Wittfogel il «dispotismo», concetto che viaggia da Aristotele a Montesqueu, a Hegel e Marx fino ad Arendt e a Wittfogel? È una forma di governo e insieme una forma di produzione, tipica di popolazioni stanziali delle pianure «idrauliche».Talché come nell’antico Egitto, tecniche, scrittura, vie fluviali e canali, strumenti di produzione e terra sono di proprietà del despota, che li amministra con i suoi funzionari. Tutto, per dirla con Hegel appartiene all’«Uno» (divino e terrestre). Tutto è della comunità che si riassume nell’Uno dispotico, salvo il piccolo possesso individuale.

Dunque sistema di produzione comunitario, con la terra e acque lavorate in comune e a rigore senza schiavi né possessori privati di schiavi. Insomma grandi stati irrigui e sconfinati dove tutta la proprietà è del Principio Sovrano, a sua volta proiezione e involucro della comunità comunitaria e senza individui. C’è da meravigliarsi che Stalin, che ben conosceva il tema, proibisse ogni discussione a riguardo?

Prima di Wittfogel anche Marx e Engels avevano pensato a lungo a tutto ciò, e tra il 1879 e il 1882si posero il quesito, sollecitati dai socialdemocratici russi: dal disfacimento dell’Impero dispotico russo si può salvare e usare, come mattone positivo e socialista, la comunità primitiva russa? Cioè, il «Mir» col suo comunitarismo, consentiva di saltare la fase capitalistica? Marx rispose: sì, immettendo tecnica e progresso nel Mir e facendo al contempo il socialismo in Europa. Ebbe ragione... il vecchio Marx «non marxista». E Lenin lo prese sul serio, anche se si appoggiò agli operai e alla spietata minoranza bolscevica. Ma il prezzo fu quello di ricadere nel collettivismo dispotico. E nel dispotismo orientale. Con Stalin al posto di Gengis Khan.


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