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RIVOLUZIONE COPERNICANA. "Vicisti, Galileae" (Keplero, 1611).

UNESCO: IL 2009 ANNO INTERNAZIONALE DELL’ASTRONOMIA. Che farà l’Italia? Galileo di nuovo al confino!?! - a cura di Federico La Sala

Basta visitare il sito www.astronomy2009.org per vedere quante iniziative si preparano, dagli Stati Uniti al Giappone, dalla Gran Bretagna all’India.
sabato 14 giugno 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] L’Osservatorio di Arcetri, la villa «Il Gioiello» e la Torre del Gallo sorgono in una località collinare chiamata Pian dei Giullari, nome quanto mai adatto a una presa in giro. Però c’è poco da scherzare. I fatti dimostrano che di Galileo, fondatore di quel metodo scientifico che è la Carta costituzionale della Ragione, poco importa ai nostri politici. E passi: fin qui siamo ancora nell’ambito delle nobili rimembranze (ma per celebrare un Carducci o un Fogazzaro i soldi sarebbero (...)

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> UNESCO: IL 2009 ANNO INTERNAZIONALE DELL’ASTRONOMIA. --- La Chiesa comprese Galileo ma non fu meno colpevole. Il pentimento di oggi lascia intatte le responsabilità di ieri. Una risposta a Cabibbo (di Emanuele Severino).

mercoledì 27 maggio 2009

Una risposta a Nicola Cabibbo, convinto che nel Seicento ai teologi mancassero gli strumenti per valutare le tesi dello scienziato

-  La Chiesa comprese Galileo ma non fu meno colpevole
-  Il pentimento di oggi lascia intatte le responsabilità di ieri

di Emanuele Severino (Corriere della Sera, 27.05.2009)

Nel suo articolo «Perché i teologi non capirono Galileo» («Corriere», 6 maggio) Nicola Cabibbo sottolinea opportunamente l’insistenza di Gali­lei per ottenere il titolo di Filosofo e Matemati­co primario del Gran duca, nella Firenze dei Me­dici. «Non solo Matematico», scrive Cabibbo, «ma anche e anzitutto Filosofo». E altrettanto opportunamente richiama l’opposizione di Gali­lei alla filosofia aristotelica (che sta alla base del­la teologia cattolica) in nome di quella pitagori­ca e atomistica. Ma che cosa intende Galilei con la parola ’Filosofo’? La questione è decisiva. So­lo a partire da essa si può accertare se la Chiesa del primo Seicento non abbia saputo «valutare correttamente», come sostiene Cabibbo, «l’im­patto filosofico della nuova scienza».

Il pitagorismo e l’atomismo democriteo diffe­riscono certamente dall’aristotelismo, ma con quest’ultimo hanno in comune l’essenziale. Ta­le tratto essenziale queste filosofie l’hanno in comune con lo stesso pensiero di Galilei. Insie­me ad altri, altrettanto essenziali, esso accomu­na l’intera tradizione filosofica dell’Occidente. Galilei lo indica con potenza e nel modo più esplicito.

Ad esempio verso la fine della «prima giornata» del Dialogo dei massimi sistemi. Si incomincia a introdurre, in questo testo, «una distinzione filosofica» tra l’«intensità» (os­sia la qualità, il grado di perfezione) e l’«esten­sione » della conoscenza. Quanto all’«estensio­ne », l’intelletto umano conosce ben poco, ma quanto all’«intensità» delle «proposizioni» es­so «ne intende alcune così perfettamente, e ne ha così assoluta certezza» da eguagliare la stes­sa conoscenza che Dio possiede di esse. Sono le «proposizioni» delle «scienze matematiche pu­re, cioè la geometria e l’aritmetica, delle quali l’intelletto divino ne sa bene infinite proposizio­ni di più, perché le sa tutte, ma di quelle poche intese dall’intelletto umano credo che la cogni­zione agguagli la divina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la necessità, so­pra la quale non par che possa esser sicurezza maggiore». In queste righe sta parlando la gran­de filosofia - e, propriamente, la grande tradi­zione del pensiero filosofico.

L’intelletto divino conosce tutte le infinite proposizioni matematiche; quello umano ne co­nosce «poche» («è come nullo»); ma quelle po­che le conosce come sono conosciute dall’intel­letto divino. I due intelletti sono uguali quanto alla «certezza obiettiva», quella cioè che non ha come contenuto qualcosa di illusorio o di pro­babile, ma la realtà stessa così come essa è. E perché l’intelletto umano riesce ad «agguaglia­re » quello divino quanto alla «certezza obietti­va »? Perché - e qui la forza filosofica del testo raggiunge il proprio culmine -, rispetto alle «proposizioni» matematiche l’intelletto umano «arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa esser sicurezza maggio­re ».

La necessità! La filosofia nasce portando alla luce il senso della necessità - la necessità di un sapere che non possa essere smentito da al­cuna potenza umana o divina - di un sapere, dunque, che eguaglia, quanto alla sua ’intensi­tà’, lo stesso sapere di un Dio. Si dice, di Dio, che è l’Ente di cui non si può pensare uno mag­giore; ma innanzitutto è la necessità a mostrarsi come la ’sicurezza’ (l’incontrovertibilità) della quale non si può pensare una maggiore e che quindi è essa a garantire la stessa sicurezza in­torno all’esistenza di un Dio.

In quelle righe di Galilei sta parlando la gran­de filosofia perché l’affermazione che alle pro­posizioni matematiche compete la necessità, «sopra la quale non par che possa esser sicurez­za maggiore», tale affermazione, dico, non è un’affermazione matematica, ma filosofica. Al­la filosofia, non alla scienza, compete da sem­pre il compito di comprendere il senso della ne­cessità e della non-necessità e di stabilire a qua­li conoscenze competa l’una o l’altra di queste due fondamentali categorie.

Eschilo, uno degli alti sovrani della filosofia, esprime l’intera tradi­zione filosofica dicendo che «la tecnica è trop­po più debole della necessità»: più debole, cioè più insicura della necessità sopra la quale non può esservi sicurezza maggiore. Oggi, attraver­so una grandiosa apocalisse del pensiero filoso­fico, si deve dire che la necessità è troppo più debole della tecnica. E nemmeno questa è un’af­fermazione di carattere scientifico-tecnologico. Relativamente alla convinzione che la necessità costituisca la «sicurezza maggiore», Galilei sta comunque dalla parte di Eschilo, Platone, Ari­stotele, Agostino, Tommaso. Per lungo tempo, fino ad Einstein compreso, la scienza starà da questa parte. Poi, anche la scienza, e anche la stessa «geometria» e «aritmetica», giungeran­no a considerare le proprie «proposizioni» non come delle necessità, ma come ipotetiche, pro­babili, falsificabili.

E la Chiesa? La Chiesa che condanna Galilei? Bisogna proprio dire che non fu all’altezza del suo grande interlocutore e che non seppe «valu­tare correttamente l’impatto filosofico della nuova scienza», secondo quanto sostiene Cabib­bo? La risposta va articolata. Da un lato, il senso che per Galilei compete alla necessità è quello stesso che la Chiesa tien fermo. Tra la Chiesa e il suo avversario esiste, su questo punto fonda­mentale, una profonda solidarietà. Sia l’una sia l’altro credono che nell’uomo sia presente un sa­pere necessario. Dall’altro lato, la Chiesa del XVII secolo ritiene che la necessità competa alla filosofia di Tommaso d’Aquino e quindi, da ulti­mo, alla sapienza filosofica greca, soprattutto a quella aristotelica, mentre per Galilei la necessi­tà compete, nella conoscenza della natura, sol­tanto alla matematica.

Ma proprio per questo nella Chiesa di quel tempo ci fu chi seppe «valutare correttamente l’impatto filosofico della nuova scienza», ed eb­be anzi una comprensione di essa essenzial­mente più avanzata di quella del suo pur gran­dissimo interlocutore. Mi riferisco al cardinale Roberto Bellarmino. Egli ebbe a possedere della scienza, matematica compresa, lo stesso concet­to che la scienza ha oggi di sé stessa: di non es­sere un sapere necessario, ma soltanto ipoteti­co, probabile, falsificabile. E appunto per que­sto egli esorta Galileo a esporre le proprie dottri­ne non come un sapere necessario che costrin­ge ’assolutamente’ a modificare la lettera delle Scritture (cioè l’affermazione del movimento del sole), ma come ipotesi che, come tali, posso­no convivere con quella lettera. E aggiunge che se ci fosse «vera dimostrazione» della teoria co­pernicano- galileana - se questa teoria apparis­se cioè come una necessità - «allora bisogne­ria andar con molta considerazione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e più tosto di­re che non l’intendiamo, che dire che sia falso quello che si dimostra». Quel che si dimostra come necessario non può essere falso - anche se, insieme, egli dichiara di avere «grandissimo dubbio» che quella «vera dimostrazione» ci possa essere. Il dubbio da cui dev’essere afferra­to chi ormai, a differenza di Galilei, si è reso conto che la scienza non può parlare ’assoluta­mente’.

La Chiesa che oggi si pente di aver con­dannato Galilei è cioè meno avanzata di quella che lo ha condannato. Questo, si capisce, guar­dando al puro contenuto concettuale della con­troversia, non al contesto storico-sociale in cui essa si è svolta.


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