Galileo
Ambiguità e compromessi di un grande scienziato
Due libri spiegano, tra atti e delibere del 1600, il caso dello studioso e il suo rapporto con la Chiesa
Ci sono le lettere teologiche che mostrano lo spirito e la delicatezza della vicenda
Gli scritti indicano come certe letture siano state rese possibili dal suo atteggiamento
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 05.01.2010)
Nell’autunno del 1609 Galileo rivolse al cielo il cannocchiale, e iniziò una serie di osservazioni che sfociarono il 7 gennaio 1610 nella scoperta dei satelliti di Giove, e il successivo 13 marzo nella pubblicazione del Sidereus Nuncius. Per celebrare questi avvenimenti, che accaddero esattamente quattrocento anni fa e cambiarono la storia della scienza, il 2009 è stato proclamato Anno Mondiale dell’Astronomia. E, come si può immaginare, l’occasione è stata propizia per una rivisitazione del pensiero e delle vicende del nostro più famoso scienziato: in particolare, per tornare a meditare sul difficile rapporto fra scienza e fede, di cui il processo a Galileo costituisce sicuramente l’episodio più emblematico e significativo.
Se, dopo quattro secoli, le relazioni fra i magisteri scientifico e religioso fossero ormai normalizzate, il dibattito sarebbe puramente accademico. Ma che così non sia, è dimostrato dalla maggiore e più ufficiale manifestazione tenutasi lo scorso anno: il convegno "Il caso Galileo. Una rilettura storica, filosofica, teologica", inaugurato dal Presidente della Repubblica il 26 maggio in Santa Croce a Firenze, dove Galileo è sepolto, proseguito dal 27 al 29 al Palazzo dei Congressi, e conclusosi il 30 alla villa Il Gioiello di Arcetri, dove Galileo passò gli ultimi otto anni della sua vita agli arresti domiciliari.
Fin qui, tutto bene. Ma molte strane anomalie saltano all’occhio, non appena si viene a sapere, anzitutto, che a organizzare il convegno è stato l’Istituto Stensen, diretto dai padri gesuiti: lo stesso ordine a cui apparteneva il cardinal Bellarmino, Grande Inquisitore di Bruno e Galileo.
Poi, che fra gli enti promotori c’erano, da un lato, l’Accademia dei Lincei, il Consiglio Nazionale delle Ricerche, il Museo di Storia della Scienza di Firenze, la Scuola Normale di Pisa e le Università di Firenze, Padova e Pisa, ma dall’altra il Pontificio Consiglio per la Cultura, la Pontificia Accademia delle Scienze e la Specola Vaticana. E infine, addirittura, che la conferenza stampa di presentazione del 29 gennaio era stata tenuta nella Sala Stampa Vaticana, da monsignor Gianfranco Ravasi, padre José Funes e il professor Nicola Cabibbo, che dirigono gli ultimi tre enti. Quanto al Papa, non andò all’inaugurazione, ma era stato ufficialmente invitato dal rettore di Firenze, Augusto Marinelli, a partecipare durante l’anno alle celebrazioni galileiane.
Per capire come sia stato possibile un tale "compromesso storico", che ha visto bellarminamente uniti nei festeggiamenti gli eredi degli inquisitori e quelli dell’inquisito, bisogna risalire ai fatti e alle interpretazioni: per i primi ci aiuta Scienza e religione. Scritti copernicani di Galileo, curato da Massimo Bucciantini e Michele Camerota (Donzelli, pagg. 334, euro 29), e per i secondi Galileo e il Vaticano di Mariano Artigas e Melchor Sanchez de Toca (Marcianum Press, pagg. 310, euro 22). Entrambi i volumi sono estremamente interessanti, ciascuno a modo suo: nel primo troviamo infatti gli atti dei dibattiti teologici e dei dibattimenti inquisitori che coinvolsero Galileo tra il 1613 e il 1616, e nel secondo le vicende e le delibere della commissione pontificia che rivisitò il caso tra il 1981 e il 1992.
Tra gli scritti riportati da Bucciantini e Camerota ci sono le famose «lettere teologiche» di Galileo a Benedetto Castelli, Pietro Dini e Cristina di Lorena, che i curatori ci chiedono di interpretare nel modo più generoso: tenendo cioè conto delle circostanze in cui sono state scritte, nell’infuriare della polemica e sotto la minaccia dell’Inquisizione, e prestando più attenzione alle espressioni di autonomia della scienza che a quelle di concordanza con la religione.
I documenti della commissione pontificia analizzati da Artigas e Sanchez fanno invece l’esatto opposto, soffermandosi sulla figura di un Galileo «miglior teologo dei teologi», e sottolineando la sua prematura difesa di un eliocentrismo ancora non suffragato da prove: una «tragica incomprensione reciproca», nelle parole di Giovanni Paolo II. A suo tempo padre George Coyne, direttore della Specola Vaticana e membro della Commissione, commentò negativamente questa posizione, ma in seguito fu rimosso dal suo incarico e al congresso di Firenze ha parzialmente ritrattato. Anche gli autori del libro sembrano però avere una posizione critica, stranamente avallata da una prefazione al volume di monsignor Ravasi (di cui Sanchez è il vice).
Inutile dire che visioni così contradditorie e distinte dello scienziato sono possibili soltanto perché l’ambiguità stava a monte, cioè in lui stesso. In fondo, come spiegano chiaramente Bucciantini e Camerota, Galileo non aveva né gli interessi teologici di Keplero e Newton, né l’indipendenza di giudizio di Spinoza o Voltaire: non essendo un appassionato lettore della Bibbia, credeva ancora che essa fosse degna di considerazione e di rispetto, e non gli passò mai per la mente di decostruirla o di ridicolizzarla, accontentandosi di interpretarla e di accettarla.
Per questo nelle lettere si impegolò in una discussione sul «fermati, o Sole» di Giosuè, cercando di dimostrare che nel sistema tolemaico l’esecuzione dell’ordine avrebbe accorciato il giorno, mentre era nella teoria copernicana che l’avrebbe allungato. E per questo abiurò, non solo coattamente e forzatamente dopo il processo, ma anche volontariamente e liberamente prima: oltre che nel Dialogo e nel Saggiatore, anche nella lettera del 1624 a Francesco Ingoli riportata in Scienza e religione, dove scrisse che «veramente non deve importare a un vero cristiano cattolico che un eretico si rida di lui perché egli anteponga la riverenza e la fede che si deve agli autori sacri, a quante ragioni ed esperienze hanno gli astronomi e i filosofi insieme». E’ quello che molti continuano a pensare ancor oggi, allungando la lista con i biologi. Ed è quello che fa sì che noi siamo come siamo, e non come dovremmo e potremmo essere.