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PIANETA TERRA. DIFFERENZA E IDENTITA’. UmaNITA’...

LA CINA, L’EUROPA, E LA MEDIAZIONE CULTURALE. La lezione di François Cheng ("Colui che comprende l’Unità") - a cura di pfls

Io non sono che dialogo, il dialogo ci offre la sola possibilità che l’umanità possa raggiungere il suo posto nell’universo
sabato 14 giugno 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] Alla domanda se l’Occidente gli abbia offerto chiavi di interpretazione che a noi forse sfuggono, Cheng ha risposto che la grandezza dell’Occidente è nata dal dualismo soggetto-oggetto, presente in tutta la nostra storia fin dai tempi di Platone: «l’osservazione dell’oggetto ha permesso lo sviluppo del pensiero scientifico, il porsi come soggetto ha dato vita al diritto e alla libertà. E anche alla meraviglia della ritrattistica, che la pittura cinese invece non conosce». Ma sulla (...)

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> LA CINA, L’EUROPA, E LA MEDIAZIONE CULTURALE. ---- La Cina di G. W. Leibniz. La "Presentazione" di Carlo Sini.

giovedì 12 dicembre 2013

Gottfried Wilhelm Leibniz, La Cina, Spirali, Milano, 1987 *

PRESENTAZIONE

di Carlo Sini

"Er kehrte alles zum Besten": così concludeva la sua biografia di Leibniz I. G. Eckhardt, che era stato suo segretario, e a quanto pare anche tutto il pubblico presente ai modestissimi funerali del filosofo, sepolto quasi alla chetichella un grigio mattino di novembre del 1716. Esattamente un anno più tardi Fontanelle, tenendo il celebre elogio di Leibniz di fronte all’Accademia delle scienze di Parigi (13 novembre 1717), osservò con giusta indignazione che l’uomo che era stato l’ornamento della sua patria, il fondatore dell’Accademia delle scienze di Berlino e uno dei più grandi spiriti universali di tutti i tempi, era morto piuttosto come un brigante che non come un filosofo famoso. Volgere tutto al bene, indirizzare ogni cosa al meglio, al suo lato migliore: questa notazione di Eckhardt non va intesa in un senso meramente psicologico; essa esprime piuttosto, e assai felicemente, l’essenza e il cuore del pensiero e del lavoro di Leibniz. Si potrebbe dire: proprio quel lato del "sistema" leibniziano che dava sui nervi a Voltaire, il quale lo intendeva come "ottimismo", morale e cosmico, a tutti i costi.

Ma non si trattava di questo. Si trattava invece della profonda vocazione "cattolica" (nel senso letterale della parola) che animava la filosofia leibniziana: necessità di comprendere la realtà senza pregiudizi e inutili dispute, e cioè necessità di porsi dal punto di vista "monadologico" di tutte le ragioni, non per averne infine ragione, ma per costituire con esse una ragione e un’armonia più alta e più comprensiva, la cui complessità crescente si modellasse sulle cose, anziché pretendere ottusamente di costringere la realtà in uno schema di pensiero già ristrettamente presupposto; col che si vede come il "metafisico" Leibniz fosse di assai più larghe vedute dell’ "empirista" Voltaire, cosa che poteva accadere allora come oggi, se non altro perché l’intelligenza e la profondità di pensiero sono ben più decisivi delle intenzioni "metodologiche".

Come è stato notato, anche nelle opere dei suoi avversari e oppositori Leibniz dunque si sforzava piuttosto di sottolineare i motivi di accordo che non quelli di contrasto. La mediazione, in vista della riunificazione culturale e politica fu del resto il sogno della sua vita: unità delle chiese cristiane (e, se ciò si rivelava per il momento irrealizzabile, almeno unità delle confessioni protestanti), unità politica dell’Europa, unità culturale dei popoli e delle razze anche più lontane, unità della terra per un’unica enciclopedia del sapere, delle credenze filosofiche, scientifiche e infine religiose, quasi intuendo con più di due secoli di anticipo quella totalizzazione planetaria che oggi sembra avviarsi, nel bene e nel male, sotto il segno della tecnica.

Con i cattolici veri e propri del tempo suo Leibniz si era del resto trovato bene. Nel viaggio compiuto in Italia per reperire i documenti utili alla sua annosa e mai completata ricerca storica sulla casata di Brunswick (ricerca che si venne via via allargando a una sorta di storia della Germania) fu certo la tappa di Roma a riservargli le più ampie soddisfazioni. Nella città eterna egli arrivò il 14 maggio del 1689, in tempo per assistere all’elezione del nuovo papa, Alfonso VIII, successo a Innocenzo XI. Qui non perse tempo a intrecciare relazioni con gli ambienti della cultura e dei dotti, e quindi, com’era naturale, con l’intera curia. Tali furono l’impressione scientifica e la simpatia anche umana che egli suscitò, che gli venne addirittura offerta la direzione della Biblioteca vaticana: fatto in ogni senso straordinario, tanto più che tale carica normalmente si accompagnava alla dignità cardinalizia. Unica ovvia condizione era quella di convertirsi al cattolicesimo. Il quarantatreenne e già molto celebre bibliotecario, storiografo e consigliere di corte del Duca di Hannover dovette declinare il lusinghiero invito, stante la sua personale ripugnanza ad abbandonare la religione in cui era cresciuto ed era stato educato.

A Roma Leibniz divenne amico del gesuita padre Grimaldi, che era stato missionario in Cina: impresa che gli aveva procurato ampia fama e universale stima. Leibniz, che già era in assiduo contatto epistolare con i dotti e i governanti delle remote regioni della terra (egli lasciò alla sua morte migliaia e migliaia di lettere, molte delle quali di altissimo valore scientifico), iniziò allora, proprio per merito del Grimaldi, a interessarsi attivamente della cultura e della storia cinesi e nel 1697 curò quella raccolta di scritti (Novissima sinica, historiam nostri temporis illustratura) che forma oggetto del presente volume.

Che cosa si deve pensare della Cina, di questa civiltà innegabilmente antichissima e per molti versi straordinaria? Come si devono giudicare la sua esotica sapienza, le sue istituzioni, i suoi costumi e infine la sua religione? Si tratta alla fin fine di un popolo di atei, di materialisti pagani, o addirittura di barbari e primitivi soggiogati dalle più oscure superstizioni? Così inclinavano a giudicare i cinesi alcuni missionari, tra i quali quel padre Nicola Longobardi le cui opinioni Leibniz si impegna a confutare punto per punto (e con quale finezza di argomentazioni storico-interpretative: oggi si direbbe "ermeneutiche"). Contro tali rozze e superficiali valutazioni, secondo le quali l’azione missionaria in Cina sarebbe dovuta consistere essenzialmente (e posto che ciò fosse materialmente possibile) nel "distruggere l’impero del Demonio per stabilirvi quello di Gesù Cristo", Leibniz non tardò, con quell’acume e larghezza di idee che sono proprie di un grande spirito, a formarsi tutt’altra convinzione. "Siccome la Cina, egli scrisse, è un grande Impero che non cede affatto in estensione all’Europa colta e la sopravanza per numero di abitanti e in urbanità; e siccome c’è in Cina una morale esteriore per certi versi ammirabile, congiunta a una dottrina filosofica, o meglio a una teologia naturale, venerabile per la sua antichità, stabilita e autorizzata da tremila anni o quasi, molto tempo prima della filosofia dei greci, la quale è pure la prima di cui il resto della Terra abbia opere, eccettuati sempre i nostri sacri libri, sarebbe una grande imprudenza e presunzione per noi altri, nuovi venuti dopo di loro e appena usciti dalla barbarie, voler condannare una dottrina così antica, solo perché non sembra accordarsi subito con le nostre ordinarie nozioni scolastiche".

Anche qui Leibniz infaticabilmente si applicò per "volgere al meglio" la filosofia e la religione dei cinesi, sforzandosi di dimostrare che essa non è, nei suoi principi, lontana da una concezione platonico-cristiana dell’universo, la quale poté presumibilmente derivarle da quella originaria e incorrotta sapienza dell’età dei Patriarchi, direttamente ispirati da Dio, della cui esistenza storica (si pensi anche al nostro Vico) nessuno allora dubitava. Sicché il leggendario Fohi, mitico iniziatore della civiltà cinese, altri forse non era che Zoroastro, o Ermete Trismegisto, o Enoc, e magari non aveva mai calcato suolo cinese (come qualcuno arrivò a supporre, con devoti propositi).

Leibniz si trovò così a concordare largamente con quella fazione più avveduta dei gesuiti che mirava a introdurre il cristianesimo in Cina passando per la stessa antica filosofia cinese, restaurandone i principi corrottisi o obliati nel corso del tempo, magari non senza l’uso, molto gesuitico, del "santo artifizio" di accentuarvi o introdurvi qualche elemento precristiano, così che il salmo potesse concludersi in gloria nel modo più naturale. Santi artifizi che a Leibniz non sembravano peraltro necessari, stante l’alta ed ecumenica opinione che egli si veniva facendo delle originarie concezioni cinesi relative all’universo e alla divinità. Ma non mancarono naturalmente aspri critici, tra i protestanti, che videro di malocchio questa assidua collaborazione del filosofo con i gesuiti, e che insinuarono che Leibniz si era fatto conquistare dalle lusinghe e dalle lodi sperticate dei suoi corrispondenti cattolici. Insinuazione ingiusta, poiché nulla entusiasmava in modo più disinteressato e sincero Leibniz della possibilità di ampliare le sue conoscenze della cultura e della scienza di altri popoli e di altre civiltà. La Cina incarna così un episodio importante dei suoi arditi piani "mondiali" per l’unità spirituale dell’uomo. Divenuto nel 1711 consigliere dello zar Pietro il Grande, non mancherà di suggerirgli a più riprese le due grandi mete della riunificazione della chiesa greco-ortodossa e di quella latina e della diffusione del cristianesimo nell’Estremo Oriente. È questa infatti, egli ripeteva, la funzione storica della Russia: mediare l’Occidente con l’Oriente.

Nei documenti qui raccolti possiamo dunque leggere un capitolo essenziale della progressiva conoscenza della Cina in Europa; vicenda destinata ai più ampi sviluppi (solo con l’insegnamento di J.P. Abel Rémusat al Collège de France nel 1815 avrà inizio la sinologia moderna) e tutt’altro che conclusa. Oggi si parla tanto di ermeneutica, di "fusione degli orizzonti culturali", e cioè dei problemi connessi a ogni evento interpretativo fra culture ed epoche diverse; in questo libro noi assistiamo non a una "teoria", ma a un’ermeneutica in atto, con tutte le sue contraddizioni, le sue indecisioni, i suoi inevitabili errori, che sono però anche espressioni di una volontà di comprensione che non nasce a freddo, sul tavolo di lavoro dell’ "erudito" e dello "storico", ma che trae origine da azioni e progetti concretamente vissuti e passionalmente realizzati fra pericoli, rischi di morte, ambizioni, illusioni, sogni sublimi, delusioni, insuccessi e sconfitte. Documenti cioè di quell’ermeneutica aspra e reale che guida da sempre la vita delle culture e dei singoli uomini in esse. È in virtù di un simile cammino che noi oggi possiamo lusingarci di possedere conoscenze ben altrimenti ricche e fondate sulla cultura cinese, non senza, naturalmente, altri limiti che siamo lontani dall’aver individuato e superato. Sicché bisogna riconoscere che fu il "pregiudizio" cristiano, ben prima e ben più della scienza, a renderci accessibile la Cina, rendendo nel contempo possibile, in forza di questo incontro ermeneutico, un nuovo modo di considerare noi stessi.

Tuttavia, proprio la scienza giocò un ruolo di rilievo in questa avventura. Anzitutto perché i gesuiti usarono ampiamente la matematica e l’astronomia europee (funzionalmente assai superiori a quelle cinesi) per trovar credito e fare colpo su imperatori virtuosamente avidi di conoscenza e così devoti al sapere da suscitare in noi un mortificante contrasto nel confronto con la gran parte dei sovrani e dei potenti delle nostre regioni, allora come ora. È un fatto che i cinesi non persero tempo ad adottare le tavole dei seni e dei logaritmi (senza trarne peraltro la conseguenza di convertirsi in massa alla fede cristiana, come i gesuiti speravano); episodio che sembra anticipare emblematicamente l’attuale diffondersi in ogni cultura della tecnica occidentale. Ma poi vi è un altro aspetto che tocca Leibniz da vicino e concerne la gran questione della scrittura cinese.

Già Leibniz doveva restare profondamente colpito dalle analogie, che gli venivano segnalate, tra il suo nuovo sistema di calcolo numerico, fondato su una logica che oggi potremmo definire "da calcolatore elettronico", e il sistema "I King", incentrato sulla duplicità o alternanza binaria delle linee intere e spezzate (sistema che doveva così profondamente impressionare, due secoli più tardi, Karl Gustav Jung).

Ma il fatto poi che tale sistema si possa collegare col principio della scrittura ideogrammatica cinese da un lato suggeriva l’idea di aver ritrovato il più antico documento della originaria scrittura dei Patriarchi, della quale resterebbero tracce nella cabala ebraica e nei geroglifici egiziani (che taluni non dubitano di porre in diretto rapporto storico con gli ideogrammi cinesi); da un altro lato si rinfocolava la speranza di poter pervenire a quella lingua universale, a quella diretta scrittura delle cose e delle idee, che era un proposito dominante della filosofia europea di quei tempi. Come si sa, sin dal De arte combinatoria del 1766 Leibniz inseguiva il sogno di una "scrittura universale... allo stesso modo in cui fecero un tempo gli egizi e fanno oggi i cinesi", che costituisse il nuovo strumento per un sapere universale: strumento in grado di superare ogni controversia e pregiudizio, ogni particolarità di concezione e di espressione, nonché in grado di servire come non ultimo ausilio al diffondersi nel mondo delle verità cristiane (come già aveva sognato Raimondo Lullo ai tempi suoi).

Come ha osservato Julia Joyaux, "Leibniz ha paragonato il funzionamento della lingua cinese - scrittura che costituisce una vera e propria analisi logica delle unità significanti - a quello di un sistema algebrico: ’Se esistesse (nella scrittura cinese), egli scrive, un certo numero di caratteri fondamentali da cui gli altri derivassero come combinazioni’, questa scrittura o sistematizzazione linguistica ’avrebbe una qualche analogia con l’analisi dei pensieri’. Needham, a sua volta, confronta questo funzionamento combinatorio dei caratteri cinesi alla combinatoria di molecole e atomi: i caratteri possono essere considerati come molecole composte per mezzo della permutazione e della combinazione di 214 atomi. Effettivamente, è possibile ridurre tutti gli elementi fonetici a un certo numero di radicali, o meglio, a contrassegni di semi, la cui applicazione produce la molecola - semantema (la parola). In una ’molecola’ si trovano non più di sette ’atomi’, e un ’atomo’ può venir ripetuto non più di tre volte in uno stesso semantema - come per la struttura di un cristallo". Leibniz tentò così, per quanto potevano consentirglielo le conoscenze del tempo suo, di proseguire quella via di approccio al pensiero tramite la scrittura ideogrammatica che Hegel doveva poi rimproverargli come una debolezza e un cedimento "empirico" ed "esotico" al tempo stesso.

È facile oggi vedere che se Hegel aveva le sue ragioni, la ragione del futuro era destinata infine a recuperare il germe vitale dell’intuizione leibniziana. Sia perché la questione della scrittura occidentale (che Hegel giudica dogmaticamente come "la più intelligente in sé e per sé"), proprio nella sua differenza da ogni ideografismo, si è oggi imposta come luogo d’origine e terreno di comprensione della mentalità scientifica europea, e cioè come causa prima dei suoi successi e delle sue alienazioni; sia perché il problema del segno e della scrittura, connessi a ogni forma di sapere, ci sta ancora davanti, affascinante e misterioso. E se la scienza europea è stata, a far tempo da Galileo, ed è di fatto ancora oggi, una nuova scrittura, è lecito chiedersi in quale nuova scrittura possa in futuro iscriversi la comprensione stessa del significato profondo dell’impresa scientifica oggi mondiale, significato che tanto resta enigmatico e indeciso quanto e proprio decisivo per il destino degli uomini nel tempo della tecnica. Chi potrebbe oggi negare che proprio lo studio degli ideogrammi non sia per rivelarsi importante, se non essenziale, a tale scopo?

Ma questa non sarebbe altro, allora, se non la rivincita di Leibniz su Hegel, del suo modo di intendere il carattere "cattolico" del "sapere assoluto" e "mondiale", certo molto al di là della consapevolezza e della comprensione che egli poté allora averne. Il che è quanto necessariamente accade in ogni umano interpretare.

Carlo Sini

* Fonte: TecaLibri


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