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Psicoanalisi, Storia e Politica....

L’ITALIA, IL VECCHIO E NUOVO FASCISMO, E "LA FRECCIA FERMA". La lezione sorprendente e preveggente di Elvio Fachinelli - di Federico La Sala

sabato 29 agosto 2009 di Maria Paola Falchinelli
[...] La ricerca prende le mosse, dunque, dall’analisi dell’uomo che annulla il tempo e dai suoi risultati: la ricostruzione, in funzione del tempo, di "un modo generale di vivere ossessivo" (p. 10). Di qui, procedendo "per salti e indizi, secondo una trama di fili "(P. A. Rovatti, I morti viventi e l’aquila littoria,"la Repubblica ", 17.11.79), e, in particolare, sempre seguendo "il filo del tempo", vengono posti in relazione e analizzati la nevrosi ossessiva stessa, "le società arcaiche (...)

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> L’ITALIA, IL VECCHIO E NUOVO FASCISMO, E "LA FRECCIA FERMA". -- Ricordi personali e memoria collettiva in «Eredità» di Corrado Stajano.

mercoledì 28 giugno 2017


Il passato può ancora tornare

Ricordi personali e memoria collettiva in «Eredità» (il Saggiatore) di Corrado Stajano

Protagonista un Figlio della Lupa davanti alle tragedie della Seconda guerra mondiale

di PAOLO DI STEFANO *

Ci portiamo dentro eredità non dichiarate, non consegnate a nessun documento ufficiale, eredità come fiumi sotterranei che ci attraversano e si irradiano in noi a nostra insaputa. Alcune fortemente bramate, altre indesiderate. Eredità è il titolo del nuovo libro di Corrado Stajano (Il Saggiatore), e la prima domanda è se quel sostantivo vada inteso come un singolare o come un plurale.
-  A pagina 60, dove si conclude un bel ritratto di Margherita Sarfatti, si osserva che potrebbe essere stata lei «il modello e l’interprete più autorevole della condanna nazionale di cui ha scritto Cesare Garboli». Quale condanna? La condanna del fascismo, un «male forse geneticamente inseparabile dalla natura degli italiani (i quali per atavica sindrome imperiale si sentono fascisti non appena si sentono italiani)». In Ricordi tristi e civili, del 2001, Garboli segnalava come una minaccia la rinascita del fascismo «scortato da idee liberali, attraverso e dentro le idee liberali». «Eredità», postilla Stajano. È sul terribile pensiero di quella minaccia sempre attuale che si regge il libro di Stajano.

Ma le eredità sono tante: quelle collettive e quelle individuali, e la narrazione di Stajano ne accoglie (e ne propone) molte e diverse, perché la narrazione, come la intende Stajano (l’ha detto e ribadito più volte), si avvicina a quella di Walter Benjamin, che rivaluta e rilancia il suo significato originale. Narrazione come esperienza vissuta che porta in sé un consiglio, una morale. Scrive Benjamin: «Il consiglio, incorporato nella vita vissuta, è saggezza».

La narrazione di Stajano non solo porta intenzionalmente una morale, ma è inscindibile da quella morale. In un mondo di romanzi che si compiacciono del proprio cinismo irridente (il conformismo del cosiddetto «politicamente scorretto»), è anche questo il tratto che caratterizza la scrittura di Stajano: la determinazione nel proporre un insegnamento a futura memoria. Del resto, La stanza dei fantasmi si concludeva con l’invito a salvare almeno «la speranza nella speranza» per le generazioni che verranno.

L’esperienza individuale è il filo che percorre i libri di Stajano da una quindicina di anni: almeno da Patrie smarrite (2001) fino a Eredità (compreso Destini, che racconta gli incontri di una vita). Ma è un’esperienza singolare che si confronta costantemente con l’esperienza della collettività. Qui e altrove. Non è un caso se l’io narrante con cui si apre Eredità diventa ben presto, quasi uscendo da sé inavvertitamente, il «Figlio della Lupa»: «Ero anch’io un Figlio della Lupa. Nelle feste comandate indossavo la camicia nera, i pantaloncini di panno grigio-verde, un cinturone alla vita di piqué bianco a piegoline minute...». L’io (che Stajano visibilmente non ama) diventa noi, plurale.

Per Stajano è fondamentale l’esperienza fisica dei luoghi, luoghi rivisitati, indagati, riemersi alla memoria, perché i luoghi contengono le tracce della storia e/o i suoi fantasmi: la sua è una sorta di narrazione di geografie che si fanno storia (un’interazione che ricorda Carlo Dionisotti).
-  In Eredità si parte da una scuola di Como, dalla sua facciata giallo sporco, dal suo giardino e dal ritratto di Cesare Battisti che dà nome all’istituto: è da lì che cominciano ad agitarsi i fantasmi del passato, quelli che risalgono a un pomeriggio di primavera in cui i figli della lupa, in fila per tre, si muovono per la città, guidati dal maestro in orbace: «Quel giorno di maggio del 1939, di primo pomeriggio, marciavo al fianco di due compagni - Cocconi? Pedretti? - da via XX Settembre alla vicina via Milano e di lì per un centinaio di metri, verso la piazza della Vittoria. Dovevamo allinearci proprio sull’angolo, lungo il marciapiedi». A ognuno verrà consegnata una bandierina, perché è il giorno dell’incontro storico tra Ciano e Ribbentrop, i due ministri degli Esteri.

Da quel lontano pomeriggio si dispiega la narrazione, strutturata sul dialogo mobile e continuo tra quel che vedono gli occhi del bambino e il senso della Storia che gli si agita intorno e che gli si rivelerà, implacabile, in là con gli anni: nel corsivo del commento, che si alterna all’hic et nunc della cronaca vissuta dal ragazzino, si concentrano le domande sul resoconto della tragedia. Il Figlio della Lupa non può sapere che quella giornata «trionfale» prelude al patto d’acciaio del 22 maggio, che sarà l’inizio della guerra, l’inizio della fine. Che cosa ne sa un bambino di nove anni? Niente o quasi, al punto da immaginare quei due sommi gerarchi come «i festosi padroni del mondo». Che ne può sapere il Figlio della Lupa, che è fiero della divisa, sogna di diventare balilla e legge le storie del Signor Bonaventura sul «Corriere dei Piccoli»? Già, e gli altri? Che ne sanno gli adulti? Cosa percepiscono di quel che sta accadendo intorno a loro? Lo sentono l’angelo nero della guerra sulle loro teste? «La vita della città scorre tranquilla senza paure e sospetti». Se il lettore fatica a ritrovarsi nell’alternanza tra i corsivi del dopo e i tondi del prima è perché i tempi si inseguono e si confondono: «la bussola va impazzita all’avventura/ e il calcolo dei dadi più non torna», avverte Montale già in quel 1939.

Como è la città di Alida Altenburger che diventerà Alida Valli, l’attrice di Visconti e poi dei telefoni bianchi: il Figlio della Lupa l’ha vista un giorno sotto il colonnato del liceo Volta. Como è la città di Giuseppe Terragni, il geniale architetto del razionalismo, il teorico del fascismo come «casa di vetro», fedelissimo del «mito vivente» Mussolini, il combattente che ritorna dalla Russia senza forza e senza volontà, e che nel ’43 muore folgorato da una trombosi cerebrale non ancora quarantenne. Como è la città di Margherita Sarfatti, la Maga Circe del fascismo, l’amante ebrea e cantatrice del Dux caduta in disgrazia con gli sgambetti di Farinacci. Seguiamo destini diversi, prima gloriosi, poi precari, incerti, infine, per alcuni, tragici.

Anche lo sguardo infantile sembra aprirsi, diventare più inquieto, avvertire qualcosa nell’aria che gli adulti non sentono. Paura: «L’ansia è una cappa di piombo. La mamma è preoccupata, non riesce a nasconderlo». Tra la gente indifferente, il bambino piange quando, alla stazione di Como, viene a sapere che è scoppiata la guerra. Il padre è in Russia, tornerà ferito e congelato, sarà ricoverato all’ospedale di Imola, dove il Figlio della Lupa vedrà i primi morti della sua vita. Il fiume della narrazione di Stajano trascina tutto con sé: ricordi privati, documenti editi e inediti, poesie, monografie, diari, romanzi, interviste, saggi, memoriali, schede segnaletiche sui sovversivi di Como: nomi sconosciuti alla Storia, un tintore, un pellaio, un venditore, un custode, un falegname... Sconosciuti o quasi, come i tre comaschi che compaiono nella lista dei deportati ad Auschwitz. Destini.

C’è un miracoloso equilibrio tra distanza e partecipazione nel racconto di Stajano. E un buco nero tra la prima e la seconda parte: la guerra, che non viene raccontata. Se ne vedono invece le terribili conseguenze. Nella seconda parte del libro, ritroviamo l’ex Figlio della Lupa, diventato ragazzo, camminare barcollante tra le macerie fumanti di Milano, da cui emergono storie e figure dimenticate o quasi (bellissimi i ritratti del diacono coraggioso Giovanni Barbareschi e di padre Turoldo). Ancora luoghi, nel continuo oscillare del pendolo impazzito tra l’allora e l’oggi: l’Albergo Regina, «fabbrica dell’orrore», via Agnello, gli scheletri di piazza San Fedele, la grattugia di corso Magenta, Santa Maria delle Grazie, il Chiostro, quel che rimane di corso Vittorio Emanuele, il Duomo, San Carlo... È nelle poche pagine dell’ultima parte, la terza, quando il ragazzo viene a sapere che il padre, catturato dai tedeschi al Brennero dopo l’armistizio, è vivo dopo una catena di lager, e quando con sua madre lo raggiunge nella piccola stazione di Pescantina, che sul fiume oscuro e turbinoso delle eredità balugina qualcosa, una piccola arca su cui viaggiare.

* Corriere della Sera, 16 maggio 2017 (modifica il 18 maggio 2017) (senza immagini).


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