L’architettura è arte, non un testo
Senza porsi obiettivi e cercare significati progettare non ha senso
di Vittorio Gregotti (Corriere della Sera, 05.07.2014)
L’avvenire non può anticiparsi che nella forma del pericolo assoluto scrive Jacques Derrida in De la grammatologie. Infatti non sempre, quando si legge un libro, si è nel momento criticamente adatto per riceverlo. Il libro di cui voglio scrivere è: Jacques Derrida e la scrittura dello spazio di Francesco Vitale, pubblicato da Mimesis (pp. 98, e 13), di cui rileggo qui la parte che riguarda l’architettura.
Sono passati un numero sufficiente di anni per poter scrivere con calma, da architetto, intorno al tema del pensiero di Derrida, dei suoi interpreti, delle influenze ma anche dei malintesi prodotti nell’architettura degli ultimi vent’anni, cioè la rimozione (o destrutturazione possibile) «del condizionamento presentato dalla scrittura fonetico alfabetica» (Vitale) nei confronti della spazializzazione (cioè della scrittura dello spazio) come autentica esperienza del vivente.
Purtroppo a queste interessanti riflessioni si è sovrapposto negli ultimi trent’anni il pensiero postmodernista e soprattutto i malintesi che hanno fatto di esso, proprio contro la faticosa conquista del terreno della storia e delle sue forme in termini di contesto da parte del Movimento Moderno, una moda anziché un avvertimento intorno ad una condizione critica della cultura, quale era nelle intenzioni di François Lyotard. Quindi non una nostalgia stilistica, ma una coscienza di come la sua esistenza ci lasci liberi e responsabili della direzione da prendere pur camminando su di essa.
Anche la moda del postmodernismo e la sua superficiale concezione stilistica di ogni passato, divenuta accademia, è oggi al tramonto (anche se i danni si prolungheranno ancora per lungo tempo) e questo sgombra il complicato orizzonte della nostra disciplina da qualche difficoltà, pur lasciandone altre assai complicate come la relazione con la politica o il suo ripudio in nome di un’autonomia linguistica (in particolare puramente sintattica), la questione dell’interdisciplinarietà o quella del futuro tecno-economico come unica possibilità di contenuto futuro. Tutto questo in una falsificata alleanza con il decostruzionismo che aveva ben diversi obiettivi. E tutto questo ha reso ancor più complicato l’orizzonte della cultura architettonica.
Vi sono anzitutto nel libro molti termini come narrazione, scrittura, linguaggio, critica e poi disegno, programma, forma, simbolo, significato, verità, e persino l’atto di abitare, che andrebbero meglio specificati quando si utilizzano sovente con diverso senso nel fare della pratica artistica dell’architettura.
E poi, si può tornare dopo millenni a sospendere nuovamente, pur sulla spinta delle liquefazioni mediatiche, la distinzione tra scrittura e arti visuali? Si può immaginare di proporre architetture che neghino ogni dialettica critica tra autonomia ed eteronomia come materiali della sua costituzione?
Si può accettare l’attuale stato delle cose, che fa dell’illustrazione anziché del progetto l’attuale condizione del fare architettonico, e rinunciare così a proporre l’autentico nuovo come il possibile necessario?
E come dovrebbe essere oggi questa architettura, erroneamente individuata trent’anni or sono nell’opera di qualche architetto come deformazioni dell’immaginazione spaziale delle avanguardie e negazione di ogni impeto rivoluzionario proposto dal movimento moderno? So che sono interrogativi privi di risposte convincenti, ma convincente ed inevitabile resta proprio l’interrogativo.
Derrida definiva l’architettura come «la scrittura dello spazio» (cioè «la spazializzazione del senso come condizione dell’esperienza») come quella del disegno, che è in architettura ovviamente uno strumento di ricerca del senso complessivo del progetto. Scrive Derrida (Talking about writing, 1993) che è oggi necessario «cercare una scrittura in grado di sfuggire all’analogia della scrittura del libro», poi scopre che il progetto «è scrivere l’architettura disegnando», fissando cioè una modalità della spaziatura, che è ciò che da sempre si fa procedendo nel disegno di progetto, dai primi segni alla loro organizzazione complessiva.
Certamente il linguaggio cinematografico, già dai tempi delle avanguardie del primo trentennio del XX secolo, e molto di più nei nostri anni con i sistemi di comunicazioni immateriali, intersoggettive e di massa, avvicinavano il linguaggio derridiano della decostruzione a quello dell’architettura, con vantaggi interessanti come la continua apertura a possibilità spaziali altre. Oggi però anche con danni quasi irreparabili come quello della perdita del disegno come strumento di indagine di progetto.
Ciò che Derrida (e Francesco Vitale come suo interprete) rifiuta è che l’architettura sia rappresentazione di un significato. Ma anche questo si presta a una doppia interpretazione. Significato, fondamenti, principi, sono materiali, insieme a molti altri, con cui muove criticamente il progetto; essi assumono una forma che costruisce le proprie regole strutturali il cui significato (non descrittivo come quello della grande musica) sarà interpretato nel tempo attribuendo a esso nuovi sensi, senza però che la sua struttura significante possa essere violata.
Derrida scrive che «l’architettura è l’ultima fortezza della metafisica», e proprio anche da qui forse nasce la necessità di una sua conservazione, che non impedisce in alcun modo le modificazioni interpretative di quella «fortezza metafisica» proposte continuamente dall’esperienza della storia: anche con una sua decostruzione interpretativa. Senza di questo infatti ridurre l’architettura a un elemento transitorio (la trans architettura) in grado di provocare eventi, testimoniare reazioni, divenendo deposito è solo garanzia dell’evento stesso.
Ma l’architettura in quanto pratica artistica (al di là «dell’abitare come essere dell’uomo sulla terra» heideggeriano) ha in questo modo ancora un senso o è proprio il suo senso che è necessario decostruire?