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Antropologia e Costituzione. Quale missione per gli architetti?

ARCHITETTURA E DEMOCRAZIA. A margine del Congresso mondiale e della Biennale di Venezia, un intervento-appello di Franco La Cecla - a cura di Federico La Sala

mercoledì 2 luglio 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] Non si tratta di fare il processo agli architetti, si tratta però di farli finalmente parlare dello specifico del loro lavoro di cui devono rispondere ai cittadini. Oggi non esiste da nessuna parte un lavoro sulla fortuna di certe opere architettoniche. Gli architetti si sbarazzano dell’opera alla consegna, e non ne sono più responsabili, mentre è allora che l’opera entra nella sua funzione pubblica. Cosa sono le case, le università, gli edifici pubblici, i musei di Gregotti, Purini, (...)

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> ARCHITETTURA E DEMOCRAZIA. --- "I PRIMI MODERNI". La modernità patrimonio comune europeo. L’idea di società prodotta dall’Illuminismo non si è esaurita con la globalizzazione

sabato 30 agosto 2014

La modernità patrimonio comune europeo

L’idea di società prodotta dall’Illuminismo non si è esaurita con la globalizzazione

di Vittorio Gregotti (Corriere della Sera, 30.08.2014)

Nella mia generazione vi è stata una lunga contesa intorno a chi fossero i primi moderni. Nella rivista «Casabella» degli anni Cinquanta, le pressioni della mia generazione si erano rivolte anzitutto, forse un po’ troppo prudentemente, ai maestri dei maestri, e quindi alla generazione degli architetti come Van de Velde o Wagner, Tony Garnier o Berlage, sino a Perret e Behrens. Tutto questo nonostante gli uomini di lettere, gli storici e i filosofi si spingessero a identificare i moderni con il pensiero illuminista, e persino con Montaigne.

Per la mia generazione credo, e certamente per me, la sistemazione ordinata e convincente per l’architettura dell’idea di modernità mi fu proprio regalata dal libro del nostro eroe di oggi: Joseph Rykwert. Nella nostra ininterrotta amicizia, che risale a più di sessantacinque anni or sono, ricordo che avevamo, per frammenti discontinui, più volte discusso in molte occasioni pubbliche e private (a partire dal dibattito su questo argomento al Ciam di Hoddesdon) la questione della storia e del contesto fisico e culturale che sarebbe divenuta, in forme molto diverse, materiale essenziale dei progetti della mia generazione. Come anche i celebri libri di Joseph: sulla città, su La casa di Adamo in Paradiso o sulla «seduzione del luogo», solo per citarne alcuni, ci hanno insegnato poi.

Il libro I primi moderni fu pubblicato nel 1980, come una risposta radicalmente alternativa all’ideologia del postmoderno (un’ideologia ben lontana anche dalla descrizione critica di Jean-François Lyotard) che a quella data stava diventando rispecchiamento architettonico dell’era del capitalismo finanziario globale, capace di dimenticare gli ideali della modernità e fare di essi un esercizio di stile mercantile.

È un libro che riletto oggi è lontano da ogni pedanteria accademica e propone con grande talento narrativo una naturale intimità con i personaggi, gli eventi e le situazioni della cultura architettonica europea e delle sue relazioni con la società del XVII e XVIII secolo; comprese le dispute, le ambizioni, i desideri di esibizione, gli «Splendori effimeri», per usare il titolo di un capitolo del libro, ma anche le coraggiose interpretazioni di uno storico-antropologo come Joseph Rykwert che la caratterizzarono. Compresa, in primo piano La verità messa a nudo dalla filosofia cioè dalla Encyclopédie di Diderot e D’Alembert e di Jacques-François Blondel per l’architettura.

Non vi è dubbio che la tradizione iconologica, che con alcuni metodi dell’antropologia ha spazi di tangenza evidenti e che utilizza tutte le testimonianze figurative come fonti storiche per la ricostruzione della storia della cultura, la valorizzazione del contenuto (ben distinto dal soggetto) dell’opera, abbia, nel lavoro di Rykwert storico dell’arte, un’importanza riconoscibile: certo comunque, nella tradizione warburghiana, sia dalla parte di Edgar Wind che da quella di Erwin Panofsky.

Al centro del libro vi è la complessa costituzione della nozione stessa di modernità e delle sue diverse interpretazioni nella storia. Per noi, oggi, tutto questo è accentuato dalle simulazioni che attraversano l’idea stessa di modernità: dalla sua negazione, alla sua falsificazione tecnico-mercantile e dalla sua identificazione con l’idea di novità e di accelerazione, di rivalutazione nella forma del tutto opposta del «meraviglioso e del distante» (in una sorta cioè di caricatura del Romanticismo) purché comprabile e provvisorio. Inoltre i «percorsi della libertà» dell’architetto descritti da Rykwert dopo più di cinquecentocinquant’anni sono oggi sospinti dallo stato di nuove incertezze, promosse dalla liquefazione delle specificità e dei fondamenti del nostro mestiere, anche questa volta, come scrive sempre Rykwert, «dall’iniziato al dilettante».

Mi rendo conto che la mia è un’interpretazione con lo sguardo di oggi dell’insieme delle raffinate riflessioni che I primi moderni ci offrono dei significati della parola modernità; non solo quelle di classico e neoclassico, ma anche di romantico, di neogotico o di eclettismo. Ma è la capacità di suscitare tali interpretazioni critiche, non solo di epoche storiche diverse, ma come fondamento del nostro lavoro di architetto di oggi che rende questo libro prezioso e vivo dopo trentacinque anni.

All’inizio del libro Rykwert scrive: «La parola classico e classicista comportano un senso di autorità e di discriminazione, vale a dire di distinzione di classe. La parola neoclassico è associata a rivoluzione, oggettività, illuminismo, uguaglianza». I nostri anni hanno invece trasferito «il piacere della precisione» da «fondamento di un’architettura universale» (per seguitare a citare i significativi titoli dei capitoli del libro) a servizio del mercato delle immagini.

L’interesse di Rykwert è soprattutto concentrato sul passaggio dall’idea di modernità tra il XVII ed il XVIII secolo, collocando con precisione anche il ruolo storico degli architetti dell’Illuminismo. Naturalmente a questo segue una riflessione sui diversi gradi interpretativi intorno alla parola «romantico» a cui potrebbe seguire la collocazione critica delle ragioni del Neogotico; sia quelle neocattoliche di Pugin che quelle strutturiste di Viollet-le-Duc, come anche le interpretazioni positiviste e del dominio della geometria descrittiva di Louis Durand, utilissime per le ragioni dell’eclettismo della seconda metà del XIX secolo.

Il libro mette anche in evidenza come l’intervento della nozione di gusto alla fine del XVIII secolo, contro ogni valore assoluto proposto dall’idea di classicità, così come lo spostamento degli architetti dalle corporazioni alle accademie abbiano indebolito la posizione dell’architetto nei suoi fondamenti di mestiere. Un indebolimento che le condizioni di produzione, specie quelle di grande scala, hanno oggi accentuato con la collocazione dell’architetto come ideatore di immagine di un prodotto già definito nei suoi elementi di progetto.

La sua conclusione richiama l’opera dell’architetto alla centralità del problema della forma ma è l’intero sviluppo del libro a richiamare continuamente la complessità di quel problema e delle discussioni appassionate intorno alle sue interpretazioni di parte degli architetti, soprattutto quelli del diciottesimo secolo, con cui, pur con tutte le differenze delle nuove condizioni, economiche e tecnologiche e di profonda crisi di valori collettivi a cui siamo oggi di fronte, è necessario confrontarsi.

Che cosa quindi ha insegnato a tutti noi il libro I primi moderni di Joseph Rykwert? Anzitutto qualcosa di importante attorno al patrimonio culturale comune della cultura europea, ancora più importante oggi, nel mondo globale, per chi crede al contributo possibile della specificità strutturale della cultura dell’Europa.

Ma il libro è anche un contributo alla complessità e contraddittoria interpretazione del bene comune e dell’idea di progresso civile, non solo quindi del progresso dei mezzi ma di quello dei fini di un bene collettivo come l’architettura, fondato sui frammenti significativi di verità che essa è in grado di proporre.

In modo più specificamente rivolto alla nostra pratica artistica tutto questo ci suggerisce che la creatività del processo progettuale è forma di modificazione della coscienza critica fondata sul terreno della storia, un terreno insostituibile ma che ci lascia liberi e responsabili della direzione da assumere per la ricerca di qualche elemento strutturale di conoscenza del presente, cioè di ogni nostro futuro possibile e necessario.


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