Raccolti gli scritti di Jacques Derrida sull’arte del costruire
Sono passati quasi cinque anni dalla morte di Jacques Derrida e più di una ventina dal periodo in cui la sua attenzione nei confronti dell’architettura si è trasformata, con la superficialità che sovente caratterizza la pratica della nostra disciplina, nella moda del "decostruzionismo".
L’architettura nell’era della post-città
Il pensatore descrive lo stato di mutazione di una realtà urbana, ma afferma che non vi è rottura finché resistono abitabilità, funzionalità e altri valori estetici
di Vittorio Gregotti (la Repubblica, 17.02.2009)
Liberatici da quella moda (ma certo non dei suoi successivi deleteri effetti che sono scivolati verso un superficiale esibizionismo), forse bisognerebbe rendere giustizia al pensiero del grande filosofo e cercare di riflettere ancora su cosa significhi "decostruzione" per l’architettura. L’occasione ci è offerta dalla utilissima pubblicazione dei suoi scritti di architettura raccolti di recente a cura di Francesco Vitale (Jacques Derrida, Adesso l’architettura, Scheiwiller, pagg. 374, euro 24).
Derrida insiste «sull’intersezione tra architettura, letteratura, musica e storia» e questo coincide con il desiderio del confronto e della relazione tra le arti, confronto ed interesse reciproco che ha caratterizzato gli architetti della mia generazione. Tale interesse si è poi degradato nell’attuale tendenza verso una costruzione mediatica in cui arti, moda, pubblicità si sono sciaguratamente mescolati in nome della comunicazione in sé; ma questo richiederebbe un’altra riflessione.
L’elaborazione di questi principi da parte degli architetti dovrebbe quindi muoversi dalla critica al carattere ricompositivo della tradizione del moderno (e più in generale dalla tradizione del classico), dalla messa in evidenza delle stratificazioni e dei contrasti che anche per la scrittura architettonica sono materiale progettuale privilegiato, sottolineando anche simbolicamente, la necessità ed insieme lo spazio della possibilità.
Comunque l’era della post città, a cui fa sovente riferimento, afferma è anche l’era della post architettura, anche se "la sua fine - egli scrive - potrebbe essere un limite ma anche un’origine". Comunque la sua insistenza sulla fine della città e dell’architettura e cioè la loro perdizione è richiamata più volte nei suoi discorsi. «In quel momento», cioè nel mondo dell’avvento della decostruzione, scrive nel 1991, «l’architettura avrà perso il suo nome, la sua unità. Diventerà straniera a sé stessa. E questo sarà un bene o meglio sarà forse fatale».
Nel suo testo del 1985 Maintenant l’architecture (il più importante di questa raccolta) Derrida descrive lo stato di mutazione dell’idea di città per affermare però che, nonostante le grandi trasformazioni «non vi è rottura» perché «abitabilità, funzionalità, valori d’uso e anche il valore estetico (che riconduce alla distinzione fra il sensibile e l’intelligibile) sono valori con i quali bisogna sempre negoziare, quali che siano i progetti architettonici e la loro audacia. Se tutto ciò resta intatto allora la "rottura" di cui scrive evidentemente non è una rottura».
Ma più avanti egli propone un secondo momento, a partire dal modello di storicità in cui si situa l’architettura ponendo anche il problema della messa in questione del valore della memoria. «Come chiamarlo, questo secondo momento? E un momento di decostruzione è quello della rimessa in questione pratica, effettiva, di tutti i valori o di tutti i significati che ho enunciato più sopra: valore di riunione, valore di allocuzione immediata, la parola, il rapporto con l’origine, la memoria, l’abitabilità, l’estetica, eccetera». Forse questa operazione non può chiamarsi architettura perché fondata sulla «sottrazione di tutti i valori prima enunciati», oppure sottraendola a tutti i valori «ciò che resterebbe sarebbe l’architettura stessa»: senza per questo aspirare né alla purezza né alla rovina.
Nel contempo cosa terrà insieme questo «corpo smembrato, questa molteplicità», si chiede Derrida affinché questa "maintenance" senza "maintenant" sia possibile. Egli risponde "una promessa", qualcosa che si manda avanti senza sapere, un avvenire non determinato. E qui la polemica non solo con il postmoderno ma contro il prefisso "post" perché esso sottintende qualcosa di definitivamente terminato, è ribadita, stabilendo nei suoi confronti una distinzione radicale.
Ciò che affascina in queste affermazioni mi sembra sia, anche oggi, l’invito a guardare proprio anche per mezzo dell’architettura e attraverso la messa in discussione radicale dei suoi fondamenti, ciò che non è in alcun modo presente. Un invito affascinante per la sua impossibilità nei confronti della natura costruttiva della stessa architettura.
Ma, in un altro scritto, Derrida introduce un nuovo concetto per noi importante: quello di "reinscrizione". Egli afferma cioè che una volta liberata l’architettura "dall’egemonia dell’estetica, dell’utilità, dell’abitare, dell’economia e persino del passato, quei valori vanno "reinseriti" nell’architettura, una volta però perduta la loro egemonia esterna. E questo riapre un processo che credo però sia già da secoli impegno comune a tutti gli architetti per i quali lo scopo dell’organizzazione architettonica di un problema è precisamente la sua reinscrizione in una morfologia che promuova non tanto il futuro quanto il possibile.
A più di vent’anni di distanza bisogna però ammettere che ciò che è rimasto dell’influenza di questa straordinaria avventura culturale di un grande filosofo che si è occupato direttamente di architettura è stato, nei casi migliori, un esercizio calligrafico sperimentale di interesse essenzialmente "linguistico" e, in quelli peggiori, un immenso inutile spreco, spesso inconscio, proprio di quei valori che secondo Derrida ne costituivano il travestimento ma anche l’inevitabile materiale da far confliggere per mezzo della decostruzione del progetto. Pur con tutte le oscillazioni dei suoi significati interpretativi possibili: ma anche, io aggiungo, "del possibile". Come Jacques Derrida continuamente ci ricorda.