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Antropologia e Costituzione. Quale missione per gli architetti?

ARCHITETTURA E DEMOCRAZIA. A margine del Congresso mondiale e della Biennale di Venezia, un intervento-appello di Franco La Cecla - a cura di Federico La Sala

mercoledì 2 luglio 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] Non si tratta di fare il processo agli architetti, si tratta però di farli finalmente parlare dello specifico del loro lavoro di cui devono rispondere ai cittadini. Oggi non esiste da nessuna parte un lavoro sulla fortuna di certe opere architettoniche. Gli architetti si sbarazzano dell’opera alla consegna, e non ne sono più responsabili, mentre è allora che l’opera entra nella sua funzione pubblica. Cosa sono le case, le università, gli edifici pubblici, i musei di Gregotti, Purini, (...)

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> ARCHITETTURA E DEMOCRAZIA. ---- «Territori e reti». Se l’architettura è senza equità (di Vittorio Gregotti)

giovedì 29 marzo 2012

Se l’architettura è senza equità

di Vittorio Gregotti (Corriere della Sera, 28.03.2012)

L’ultimo Rapporto sulla situazione sociale del Paese proposto dal Censis ha affrontato (con severità e con precisione) una descrizione della società italiana del 2011 divisa per vari settori: dai processi formativi al welfare, dal lavoro ai soggetti economici dello sviluppo, affrontando anche la questione dei mezzi e dei processi (comunicazioni, governo pubblico, sicurezza, cittadinanza).

È su tutta l’introduzione che sarebbe importante meditare. Introduzione che si conclude affermando che «è illusorio pensare che i poteri finanziari disegnino sviluppo. Seguendone le indicazioni, si possono fare molteplici decreti di stabilità e austerità, ma neppure un tentativo di progetto». Questioni di cui tutti i mezzi di comunicazione discutono animatamente e sovente in modo drammatico.

Qui, però, io vorrei occuparmi, favorito dal particolare interesse che il direttore del Censis, Giuseppe Roma, ha sull’argomento, del particolare problema affrontato nel capitolo «Territori e reti», dedicato nella sua parte centrale alla questione del disegno urbano e della crisi dello spazio pubblico. Due argomenti che sono nel rapporto concretamente affrontati, non solo come significativi di una condizione di difficoltà nelle relazioni tra soggetto e struttura delle società, ma come campo di lavoro (certo tra i molti) di costruzione di un riscatto da quella stessa condizione di disperata difficoltà.

Ma di chi sono le responsabilità di quello stato di crisi? Per quanto riguarda almeno le difficoltà e le modificazioni positive possibili del fatto urbano si tratta di discutere anzitutto delle opinioni delle categorie professionali pubbliche e private a cui è assegnato il compito di proporre e regolare nell’interesse collettivo (si spera) il disegno degli insediamenti. Quindi alla capacità della loro cultura specifica di produrre opere di qualità durevoli, capaci di offrire proposte eque e positive proprio alle relazioni tra soggetto e struttura della società (e qui risparmio di elencare le difficoltà e le possibilità del loro stato attuale di mutazione rapida e globale).

Ma secondo me, come secondo il Censis, un progetto di architettura deve essere comunque cosciente del fatto che lo spazio tra le cose e il «progetto di suolo» è altrettanto importante delle cose stesse. Si tratta di un progetto capace di porsi in relazione con un contesto storico fisico di uso sociale; un progetto capace di misurarsi con regole comuni e comprensibili, le sole che possono dar valore anche alle eccezioni. Non si può dimenticare che l’ideologia architettonica dominante sul piano del successo mediatico di questi ultimi trent’anni ha proposto invece, nei fatti e nelle intenzioni, una cultura opposta a tutto questo. Una cultura dell’eccezione competitiva, della provvisorietà, della promozione della privatizzazione dello spazio pubblico, della bizzarria senza necessità, e riferita solo agli interessi dei gruppi di poteri sociali transitori, contro ogni memoria collettiva del fatto urbano, contro l’idea stessa di luogo, di antropogeografia, per un’idea di flusso che, in qualche modo, sostituisce il terreno di fondazione delle cose.

Ma non meno responsabili sono stati gli enti pubblici che dovrebbero, al contrario, riprendere coscienza della necessità del disegno urbano per guidare le trasformazioni della città; una tradizione di qualche migliaio di anni, a cominciare dagli esempi prodotti dalla cultura della modernità (come quelli della Lione di Tony Garnier o dell’Amsterdam di Berlage e della sua scuola, soltanto per citare due casi). Certamente ridurre la contraddizione tra piano e progetto richiede anche una profonda revisione culturale della nozione di piano, ma anche una coscienza della relazione esistente tra insediamenti e antropogeografia del territorio con la propria storia. Una storia intesa come possibilità per l’architettura o come una minore ossessione sviluppista a favore di un nuovo equilibrio.

Mi rendo comunque conto della difficoltà non tanto operativa quanto culturale di queste raccomandazioni, che peraltro coincidono in molti punti con quelle contenute nello stesso rapporto Censis. E che anch’io mi rappresento come assai lontane dall’attuale moda architettonica postmodernista per una rappresentazione, senza costituzione di distanza critica, della cultura del capitalismo finanziario globalizzato. Una moda così lontana da ogni tentativo di progetto di equità, come segnala la stessa introduzione del rapporto del Censis.


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