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Antropologia e Costituzione. Quale missione per gli architetti?

ARCHITETTURA E DEMOCRAZIA. A margine del Congresso mondiale e della Biennale di Venezia, un intervento-appello di Franco La Cecla - a cura di Federico La Sala

mercoledì 2 luglio 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] Non si tratta di fare il processo agli architetti, si tratta però di farli finalmente parlare dello specifico del loro lavoro di cui devono rispondere ai cittadini. Oggi non esiste da nessuna parte un lavoro sulla fortuna di certe opere architettoniche. Gli architetti si sbarazzano dell’opera alla consegna, e non ne sono più responsabili, mentre è allora che l’opera entra nella sua funzione pubblica. Cosa sono le case, le università, gli edifici pubblici, i musei di Gregotti, Purini, (...)

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> ARCHITETTURA E DEMOCRAZIA. ---- Al Congresso internazionale che si sta tenendo al Lingotto emerge una verità condivisa: l’architettura di oggi fa acqua (di Leonardo Servadio).

mercoledì 2 luglio 2008

Torino

-  Al Congresso internazionale che si sta tenendo al Lingotto emerge una verità condivisa: l’architettura di oggi fa acqua.
-  Prevale il culto dell’immagine, a discapito della vivibilità e di un’etica sociale del costruire

«Archistar» e case colabrodo

Croset: «Detta legge la spettacolarità ma ben poco si conosce delle magagne che si celano dietro certi progetti».

Ghirardo: «Il Mit ha fatto causa a Frank Gehry per non aver previsto certe protezioni, ma lui fa spallucce. C’è troppa arroganza fra i progettisti oggi»

DA TORINO LEONARDO SERVADIO (Avvenire, 02.07.2008)

Non è solo volume e forma, l’architettura è fatta anche di concetti e di parole. Cer­to, se bastassero queste ultime sa­rebbe tutto più semplice: all’in­contro mondiale degli architetti di Torino proprio queste non sono mancate. La comunicazione ver­bale dei tanti incontri e dibattiti è di qualità: l’altra comunicazione - quella che dovrebbe più immedia­tamente attenere alla progettualità - invece genera molti punti inter­rogativi: grazie alle indicazioni confuse e malgrado l’impegno del­le decine di giovani aiutanti in divi­sa, negli spazi dilatati del Lingotto, le centinaia di ospiti e congressisti si muovono spersi, e le installazio­ni che dovrebbero ’fare mostra’ e accompagnare l’incontro con uno sfolgorio di esempi di architetture nobili, si presentano spoglie come relitti. Sembra la manifestazione in opera della discrasia tra critica e progettualità, ovvero di quel diffu­so «predicare bene e razzolare ma­le ». «Ci vuole più critica dell’architet­tura, maggiore coscienza del suo cruciale ruolo sociale, meno esibi­zionismo e meno egocentrismo dei progettisti»: non è l’opinione di uno, ma di tutti i relatori che si so­no incontrati nell’ambito del di­battito «Le culture dell’architettu­ra ». «Senza storia non c’è critica. E sen­za critica non c’è architettura», so­stiene Eric Mumford, che vede nel confronto col passato un sine qua non produttivo non solo di cono­scenza ma anche di potenzialità e­spressive. «E la storia della con­temporaneità non può essere limi­tata alla figura dell’architetto: per­ché la costruzione di spazi di vita riguarda chiunque e di fatto è og­getto di influenza di tutti» sostiene Pierre-Alain Croset, che ricorda come «la scuola veneziana di Man­fredo Tafuri non rifugge dall’impe­gno comunitario e indirizza i pro­pri studi e ricerche nella direzione delle opere collettive, quali quelle generate dall’impegno della social­democrazia... Personaggi come Otto Wagner e Bruno Taut fonda­vano sulla conoscenza storica la loro opera professionale. Il che dif­ferisce molto da quanto avviene oggi, quando ciò che è storico è considerato obsoleto dagli archi­tetti militanti». Perché oggi la paro­la d’ordine è «far parlare di sé», non impostare una seria e fondata critica. «Per cui chi realizza archi­tettura desidera essere pubblicato, ma con commenti di non speciali­sti: ne consegue che la comunica­zione dell’architettura è legata solo all’aspetto spettacolare, non all’a­spetto progettuale e generativo dell’edificio. Noi non sap­piamo perché la ristruttu­razione di un edificio im­portante come il Parlamento di Berlino sia stata affidata a Nor­man Foster, per quanto questi non avesse partecipato al concorso precedentemente convocato. Del­l’architettura contemporanea forse sappiamo meno di quanto si sap­pia dell’architettura storica...». A questo si aggiunga il tema della complessità degli agglomerati ur­bani, che sono qualcosa che supe­ra la somma degli edifici separati.

«Ragion per cui gli architetti do­vrebbero sempre lavorare insieme con storici e sociologi, così che lo spessore del contesto - nella piena coscienza dei suoi elementi gene­rativi - sia un elemento che con­corre attivamente alla formazione delle nuove costruzioni. È questa la base necessaria perché l’architettu­ra diffusa sia di qualità e no mera e­dilizia... ». Di contro alla bassa qualità dell’ar­chitettura diffusa, negli ultimi de­cenni abbiamo visto sorgere i to­tem di alcuni ’mostri’ o ’grandi maestri’ dell’architettura. Tra que­sti il più noto e chiacchierato è Frank Gehry, contro il quale si sca­glia

Diane Ghirardo: «Il Massachu­setts Institute of Technology l’anno scorso gli ha fatto causa: l’edificio universitario da lui progettato (so­prannominato ’robot ubriachi’), non solo fa acqua ma d’inverno di­venta pericoloso perché manca delle protezioni antineve ed è capi­tato che qualche persona si sia tro­vata sotto masse di neve scivolata giù dal tetto. Ed è costato 300 mi­lioni di dollari: il doppio rispetto al preventivo. E alle critiche e obiezio­ni Gehry fa spallucce, non rispon­de: si sente al di sopra. Ma è in buona compagnia, lo stesso fa Ca­latrava. Lo stesso fece Le Corbusier quando la famiglia protestò per il suo progetto di ’Villa Savoye’, do­po che il figlio si ammalò di polmo­nite entro quell’ambiente difficilis­simo da riscaldare. ’Vi ho fatto pubblicità, che volete di più?’, ri­spose. Siamo in un’epoca in cui l’immagine è tutto: di qui l’impor­tanza delle riviste di architettura. Ma queste sono ormai troppo con­dizionate dalla pubblicità...».

Insomma, dal punto di vista degli storici l’architettura di oggi non sta affatto bene, almeno quella più no­ta. «Ma vi sono anche realizzazioni interessanti e socialmente impor­tanti - chiosa la Ghirardo - Come le scuole realizzate a Los Angeles da Patrick Hodginson, meno costose (è riuscito a contenere i costi in 300 dollari al metro quadrato) e più ef­ficaci dei continui aumenti nel nu­mero di addetti alle forze dell’ordi­ne nella megalopoli di Los Angeles nel ridurre la devianza giovanile». Perché l’architettura può effettiva­mente avere un ruolo socialmente importante, se non nasce da un af­flato esibizionista.


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