Rom, l’invenzione del razzismo
di Alberto Burgio (il manifesto, 26 agosto 2010)
La vicenda della cacciata dei rom dalla Francia ruota intorno a due paradossi. Il primo riguarda le motivazioni che hanno indotto Nicholas Sarkozy ad espellere 700 «zingari», in parte cittadini francesi. Com’è noto, si tratta di ragioni politiche. Il presidente è in caduta libera nei sondaggi.
L’emorragia di consensi al centro e a destra rischia di tramutarsi in una disfatta per lo scandalo Bettencourt. Da qui la mossa razzista. I rom (tutti) sono ladri e potenziali assassini. E restano stranieri, benché cittadini francesi. Cacciarli serve a difendere la sicurezza e la purezza della nazione.
Dove sta il paradosso? Nel fatto che il nesso tra misure razziste e motivazioni politiche non è affatto atipico e non costituisce aggravante. È assolutamente classico, e la chiarezza persino sfrontata con la quale si dichiara in questa vicenda fa di essa un caso di scuola che va considerato con la massima attenzione. Il razzismo non è qualcosa che prescinda dalla politica (dalla ricerca del consenso per il governo dei corpi sociali).
È uno strumento squisitamente politico. Consiste nella produzione di soggettività deteriori (per mezzo di stereotipi) e nella finalizzazione di passioni e paure diffuse, che vengono incanalate contro i gruppi (le «razze») additati come diversi e stranieri, colpevoli e nemici.
Non c’è razzismo che operi in autonomia dal gioco politico. La sua apparente «purezza» concerne il terreno dell’ideologia: il consenso si ottiene nascondendo (magari anche a se stessi) le ragioni politiche dell’«invenzione delle razze».
Il meccanismo è sempre questo. Nel caso dei rom cacciati da Sarkozy è soltanto evidente. Come pure nei proclami di Roberto Maroni e di Letizia Moratti già in piena campagna elettorale, che meriterebbero qualche riflessione da parte di chi ha a cuore quanto resta della civiltà in questo paese. Pur di portarsi dietro le masse padane, si alimenta l’odio «etnico» contro gli stranieri poveri, promettendo politiche conseguenti. È un gioco pericoloso, perché le aspettative esigono poi soddisfazione. Che cosa significherà tra qualche anno, avanti di questo passo, essere straniero - o anche solo povero - in Italia?
Veniamo al secondo paradosso. Se il razzismo è un dispositivo politico volto a produrre e manipolare il consenso, esso non riguarda soltanto le «razze» qui e ora considerate tali, ma la società intera. Non è affare di margini e periferie, ma di tutto il territorio sociale. Faremmo quindi bene a non occuparcene soltanto quando si tratta di «zingari» o di «negri». In realtà siamo tutti in questione, e non solo come massa di manovra (come base elettorale).
La produzione di identità stereotipizzate è un ingrediente fondamentale nella legittimazione delle gerarchie sociali. Da questo punto di vista il catalogo delle «razze» (di nome o di fatto) è molto più ricco di quanto si pensi. A meno di non credere all’esistenza di «razze umane», non c’è ragione per separare gli stereotipi che razzizzano migranti ed ebrei da quelli inventati per criminalizzare i «devianti» (omosessuali, transessuali e tossici) o per giustificare la subordinazione delle donne e dei lavoratori dipendenti.
Il senso comune recalcitra? Certamente. Il discorso razzista non impera invano da secoli nell’immaginario europeo. Ma per respingere il ragionamento, il senso comune è costretto a invocare presunte peculiarità «naturali» dei gruppi esplicitamente razzizzati, scoprendosi razzista.
La critica dev’essere conseguente. Come non c’è alcun gruppo umano a buon diritto trasformato in «razza», così non c’è stereotipizzazione inferiorizzante che non sia razzista. A danno di chiunque essa si compia. Allora, tra chi (la Commissione europea) accusa la Francia di violare le regole sulla «libera circolazione e la libertà di scegliere il posto dove vivere» e chi (il governo francese) sostiene la legittimità delle misure adottate, ha paradossalmente ragione quest’ultimo. Non per il turpe escamotage dei 300 euro che trasforma l’espulsione dei rom in esodo volontario, ma per un fatto molto serio, del quale raramente si ha consapevolezza.
Nelle società democratiche le gerarchie sociali (di censo e potere) debbono essere giustificate e gli stereotipi servono a tal fine. Poco importa che si parli di propensione alla violenza e al crimine piuttosto che di inferiorità mentale o di incoercibile ignavia di «fannulloni». Per questo l’«invenzione delle razze» resta, nonostante Auschwitz, un cardine della modernità.
I tecnocrati di Bruxelles sono degli ipocriti: a quanti europei è di fatto possibile scegliere il posto in cui vivere? Sarkozy in crisi di consenso segue un copione classico da almeno due secoli in Europa.
Quanto a noi, faremmo bene a ripensare a tutto questo sforzandoci di liberare le nostre idee dalle ipoteche dell’ideologia. La battaglia contro il razzismo non è uno specialismo di filantropi, ma un aspetto cruciale della lotta di classe.