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IL BERLUSCONISMO E IL RITORNELLO DEGLI INTELLETTUALI. Dal 1994 al 2008: "Gran brutta aria, regime ancora no"!!! La Rossanda e l’allarme di Umberto Eco. Un "aggiornamento" di Alessandra Longo - a cura di pfls

martedì 8 luglio 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] Lo scrittore Predrag Matvejevic, che ha conosciuto il regime croato di Tudjman e l’aria irrespirabile dei Paesi dell’Est, e ha ricevuto la cittadinanza italiana dal presidente Napolitano, tifa per un’Italia più reattiva: «Una democrazia a rischio può scivolare facilmente in quello che io chiamo "democratura" dove tutto sembra come prima, dove si proclama con forza il rito della democrazia ma, in realtà, è rimasto solo l’involucro» [...]
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI (...)

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> IL BERLUSCONISMO E IL RITORNELLO DEGLI INTELLETTUALI. --- "GIORNALISTI DI REGIME". Un saggio di Pierluigi Allotti. Quando la stampa italiana si converì al fascismo (di Simonetta Fiori).

mercoledì 29 febbraio 2012

I maestri dalla penna nera

Quando la stampa italiana si convertì al fascismo

      • Un saggio raccoglie quel che nomi e firme celebri, da Piovene ad Alvaro, scrissero sui giornali prima del 1943 Il lavoro è stato fatto da un giovane storico che ha utilizzato documenti e testi sulle orme di Zangrandi e Forcella Molti di loro, dopo la caduta del regime, ebbero una parte importante nel dare un’immagine indulgente dell’epoca

di Simonetta Fiori (la Repubblica, 29-02-2012)

Esce da Carocci un saggio che per la prima volta approfondisce il rapporto tra giornalisti italiani e regime fascista, e la loro transizione al postfascismo, rovesciando la memorialistica autoassolutoria di quei padri nobili. Un volume serio e documentato che senza accenti scandalistici ci mostra quanta parte ebbero le grandi firme nella "defascistizzazione del fascismo", ossia nella rappresentazione banalizzante e indulgente del ventennio nero finalizzata ad annacquare non solo il carattere della dittatura ma anche le responsabilità dei nuovi professionisti delle comunicazioni di massa.

L’autore di Giornalisti di regime (pagg. 278, euro 23) è un giovane allievo di Emilio Gentile, Pierluigi Allotti, che sulle tracce di Ruggero Zangrandi e soprattutto di Enzo Forcella ci fornisce una fotografia dei nostri avi che non è una campionatura luminosa di figure epiche ma il conturbante ritratto d’una categoria pronta a mettere il proprio talento al servizio di Mussolini, per distaccarsene solo davanti all’esito catastrofico della guerra. Prìncipi della penna fulminei nell’indossare la camicia nera, ma nel dopoguerra operosi e indenni sulle prime pagine della stampa indipendente. Per raccontarci come il fascismo fosse stato un regime da operetta.

Attori principali di questo saggio sono i giornalisti di due generazioni, quella dei nati intorno al 1890 e la classe del 1910, ossia la leva dei "padri" e dei "fratelli maggiori" che scelsero di continuare a primeggiare sui giornali - oppure di esordire nel mestiere - nel pieno del fascismo. Giornalisti, dunque, che avevano l’età e gli strumenti per comprendere la natura illiberale del regime in cui vollero - e seppero - diventare firme da prima pagina. Nel primo gruppo sfilano personalità come Mario Missiroli e Giovanni Ansaldo, Paolo Monelli e Augusto Guerriero.

Nel secondo ci imbattiamo nelle penne di Vittorio Gorresio e Indro Montanelli, Guido Piovene e Luigi Barzini junior, Vitaliano Brancati e Dino Buzzati. Mancano in questa ricognizione sulla carta stampata dell’epoca - e può sorprendere - i nomi di Mario Pannunzio ed Arrigo Benedetti, esclusi da Allotti perché artefici di settimanali e non "opinion makers" dei grandi quotidiani. Scelta un po’ arbitraria perché anche rotocalchi come Oggi contribuirono a fare opinione. E fu per anticonformismo che Mussolini ne decretò la morte nel gennaio del 1942.

L’inclusione di Oggi ed anche di altre testate avrebbe fatto fare miglior figura alla famiglia del giornalismo italiano. Una brigata di talentuosi che - salvo alcune eccezioni, da Mario Borsa a Luigi Albertini, da Alfredo Frassati ad Alberto Bergamini e Mario Vinciguerra - di fronte all’avanzata del fascismo «quasi si compiacque di perdere la propria indipendenza», come sintetizza Aldo Valori, all’epoca capo della redazione romana del Corriere della Sera. In qualche caso il cambio di bandiera fu clamoroso. Corrado Alvaro, firmatario del manifesto di Croce, avrebbe celebrato la bonifica dell’Agro Pontino «come un simbolo della rigenerazione nazionale promossa dal fascismo». E il critico Emilio Cecchi, anche lui partito da posizioni antifasciste, durante la campagna razziale tra l’estate e l’autunno del 1938, scrisse sul Corriere una serie di articoli dagli Stati Uniti per dimostrare come "razzismo" e "antisemitismo" fossero giustificatamente presenti nella società americana.

Quella contro gli ebrei fu una delle pagine in cui il giornalismo italiano - e la quasi totalità dell’élite intellettuale - diede il peggio di sé. Giovanni Ansaldo, nell’autunno del 1938, produsse veementi articoli contro "l’ebreo Morghentau" (Segretario al Tesoro degli Stati Uniti), accusato di aver ereditato "la cupidigia esosa di generazioni di strozzini". E Mario Missiroli, il "grande mago del giornalismo italiano", accolse con grandi plausi sul Messaggero la bibbia dell’antisemitismo Contra Judaeos di Telesio Interlandi, spalleggiato dal concorrente Guido Piovene che sul Corriere della Sera tesse le lodi dell’orribile summa, riconoscendole il merito di essere "il miglior libro uscito sull’argomento". Anche un inviato leggendario quale Paolo Monelli - stimato dai colleghi per cultura e rigore - nella primavera del 1939 si distinse per una corrispondenza da Varsavia impregnata di giudizi antiebraici. Singolare cedimento per un giornalista che in precedenza aveva dato mostra di non condividere la campagna antisemita.

Ma il terreno in cui "i militi della carta stampata" - così li celebrava il duce - poterono agitare il turibolo con maggiore plasticità furono le imprese belliche del fascismo. Prima in Etiopia, poi in Spagna, più tardi nel Mediterraneo, nei Balcani e in Africa settentrionale, infine in Russia. I protagonisti di queste guerre furono i giornalisti arruolati nei vari reparti.

Nel 1935 partirono volontari due direttori, Aldo Borelli del Corriere della Sera e Francesco Malgeri del Messaggero. Gli inviati Barzini junior e Alfio Russo celebrarono in ampie corrispondenze le prime brillaPer creare dei paragrafi separati, lascia semplicemente delle linee vuote) nti vittorie degli italiani, ritratti come "virtuosi colonizzatori" di un popolo sostanzialmente troglodita. L’arte dell’epinicio fu affinata in Spagna, dove i giornalisti - in mancanza di pagine gloriose da raccontare - venivano sollecitati a esercitare la propria fantasia.

Se l’inviato del Corriere Achille Benedetti si limita a ignorare la sconfitta di Guadalajara, Barzini senjor sul Popolo d’Italia fa molto di più, incensando la drammatica avventura dell’eroico legionario che resiste al contrattacco nemico nascondendosi per tre giorni in una botte. L’inventiva di Barzini, nutrita di letture classiche, procura un attacco di allergia al direttore del Corriere, che mortifica il suo cronista facendogli recapitare sul fronte "il bellissimo scritto" della concorrenza. Ma nel descrivere i nemici repubblicani come "combattenti pavidi", "capaci delle peggiori brutalità", si distinsero altre due firme, quelle di Indro Montanelli e Guido Piovene, assai efficaci nell’esaltare le imprese dei legionari italiani contro autentici "criminali dalle facce bestiali". Seppure con qualche insofferenza, l’intonazione non muterà nel corso del secondo conflitto mondiale.

La parte più interessante del saggio riguarda ciò che accadde all’indomani del crollo del regime fascista, nell’estate ti indica del 1943. Con la medesima disinvoltura con cui era traslocata dall’antifascismo al fascismo, l’élite giornalistica italiana cominciò a fare il percorso inverso. All’esame di coscienza si preferisce la scorciatoia della colpa collettiva. Allotcome esemplare il caso di Monelli. Per le sue compromissioni con il regime, il nuovo direttore del Corriere della Sera Ettore Janni, subentrato dopo il 25 luglio, gli chiede con garbo una temporanea sospensione nella collaborazione. Monelli non la prende bene. «E i colleghi che hanno divinizzato uomini e fatti del regime? E i redattori ligi agli ordini di Roma che bocciavano o castravano o lardellavano di aggettivi le mie corrispondenze?». Le sue responsabilità, rispetto al servilismo diffuso, gli paiono poca cosa. Lo stesso genere di argomenti ricorre nell’autodifesa di tante firme illustri. Un’autoassoluzione granitica, che non ammette crepe.

Molti di loro avrebbero presto riconquistato le prime pagine della stampa libera, confluendo in larga parte in una zona politica di moderatismo prossima alla Democrazia Cristiana. E poi la memorialistica. Da Piovene a Montanelli, definito "il giornalista che più contribuì alla defascistizzazione del fascismo", fu tutt’un proliferare di testimonianze indulgenti che fecero calare il sipario sulle compromissioni di "padri" e "fratelli maggiori". La rimozione è destinata a segnare parte delle generazioni successive, quella viziata da "una concezione del potere politico" - lo rilevò Forcella - come qualcosa di "ineluttabile" e "pericoloso", verso il quale è consigliabile la remissività. Una distorsione che - se colpisce ma è interpretabile sotto una dittatura - in democrazia appare ancora meno tollerabile.


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