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IDENTITA’ E DIFFERENZA. UmaNITA’...

LA PAROLA E LA LINGUA. LA GRANDE LEZIONE DI FERDINAND DE SAUSSURE: IL "CORSO DI LINGUISTICA GENERALE". Per una rilettura, un breve testo (1975) del prof. Federico La Sala

lunedì 7 luglio 2008 di Maria Paola Falchinelli
Saussure: il dialogo, in principio.
DUE PERSONE CHE DISCORRONO...
Il punto fermissimo della ricerca saussuriana *
di Federico La Sala *
La produzione dell’individuo isolato al di fuori della società è una rarità che può capitare ad un uomo civile sbattuto per caso in una contrada selvaggia, il quale già possiede in sé potenzialmente le capacità sociali - è un tale assurdo quanto lo è lo sviluppo di una lingua senza individui che vivano insieme e parlino tra loro.
(K. Marx, Introduzione del (...)

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> LA PAROLA E LA LINGUA. --- Le parole che abbiamo in testa. Esiste una mappa del linguaggio nascosta nel nostro cervello (di Elena Dusi)

giovedì 28 aprile 2016

Le parole che abbiamo in testa

Esiste una mappa del linguaggio nascosta nel nostro cervello

Gli scienziati dell’università di Berkeley hanno scoperto che in punti precisi della corteccia cerebrale trovano casa i vocaboli che adoperiamo per comunicare. È il primo passo per costruire un dizionario dei pensieri?

Sette volontari sono stati analizzati con risonanza magnetica mentre ascoltavano la radio Fonetica, sintassi e struttura narrativa saranno oggetto delle prossime ricerche

di Elena Dusi (la Repubblica, 28.04.2016)

Ogni parola ha la sua casa, nel cervello. E da oggi il sistema semantico che usiamo per parlare non è più un “hic sunt leones”. Un atlante del linguaggio è stato disegnato dai neuroscienziati dell’università di Berkeley. Un migliaio di termini hanno trovato la loro casa in un punto preciso (in alcuni casi più di uno) della corteccia cerebrale, la parte più esterna, evoluta del nostro organo del pensiero. La scoperta conferma che tutto il cervello - e non, come voleva il vecchio mito, solo l’emisfero sinistro - è coinvolto nel linguaggio. E dimostra che, sia pur tra le differenze individuali, la “cartina stradale” delle nostre parole resta uguale tra una persona e l’altra.

Gli scienziati di Berkeley che oggi pubblicano il loro studio sulla copertina di Nature sono partiti da una radio accesa. Il “Moth Radio Hour” è un programma di successo americano in cui una persona sta in piedi in una stanza con una luce puntata sul viso e un microfono davanti alla bocca. Attorno ha un gruppo di estranei cui deve raccontare un episodio della propria vita. Trasmessi via radio, i racconti sono stati ascoltati a Berkeley da sette volontari, con gli occhi bendati, chiusi per un paio d’ore in una risonanza magnetica.

Mentre i narratori del “Moth Radio Hour” raccontavano, i volontari ascoltavano e la risonanza magnetica registrava quali gruppi di neuroni della corteccia cerebrale si “accendevano” a ogni parola. Tutta questa mole di dati è finita in una mappa del cervello a tre dimensioni, con i termini dal significato simile raggruppati in genere - ma con diverse eccezioni - in una stessa area. Accanto alla tempia destra, per esempio, racchiusi in uno spazio di pochi millimetri cubici, hanno la loro dimora pa-che role come “moglie”, “madre”, “incinta”, “famiglia”. «A volte - scrivono i ricercatori - questo atlante diventa intricato.

Non sempre a un termine corrisponde una sola localizzazione». La parola “moglie”, infatti, compare anche in un’altra area della corteccia, accanto a “casa” e ad altri vocaboli relativi a luoghi. La voce inglese “top” si ritrova in ben tre punti: fra “vestiti” e altri lemmi relativi all’aspetto fisico, in un gruppo di parole che descrivono lo spazio e gli edifici e infine tra i numeri e le unità di misura. Altri esempi sono raccontati in un video disponibile su www. nature. com. L’atlante semantico del cervello, in tutti i suoi dettagli e i suoi colori sgargianti può anche essere percorso online sul sito http:// gallantlab. org/ huth2016.

Come atlante sembrerebbe piuttosto caotico, ma il fatto che appaia molto simile fra tutti i volontari studiati suggerisce che una logica debba pur esserci. «Abbiamo trovato per esempio - spiega il coordinatore della ricerca, il neuroscienziato di Berkeley Alexander Huth - che i termini relativi ai numeri sono collocati vicino alla corteccia visiva, in un’area deputata anche al ragionamento spaziale. E questo ha molto senso».

Sarà forse prematuro oggi pensare a un dizionario in grado di decodificare i pensieri. «Ma nel momento in cui abbiamo una carta geografica delle nostre parole - spiega Stefano Cappa, professore di neurologia all’Istituto universitario di studi superiori (Iuss) di Pavia - possiamo ipotizzare di usarla per decodificare ciò che una persona sta pensando». Leggendo quali punti del cervello si illuminano in un determinato istante, un apparecchio simile alla risonanza magnetica potrebbe associarlo al termine relativo, permettendoci di leggere nel pensiero - come suggeriscono anche i ricercatori di Berkeley nel loro studio - di quelle persone cui una malattia impedisce di parlare.

Non è un caso che alla mappatura del cervello e delle connessioni fra i suoi 100 miliardi di neuroni - qualcuno li paragona al numero di stelle - siano dedicati due fra i più grandi programmi scientifici del momento: lo Human Brain Project, avviato nel 2013 e finanziato dall’Unione Europea con un miliardo di euro, e la Brain Initiative, annunciata sempre nel 2013 dal presidente americano Barack Obama e finanziata finora con svariate centinaia di milioni di dollari.

L’idea che una facoltà così complessa e per molti versi indecifrabile come il linguaggio possa essere racchiusa in una “cartina stradale” incontra ovviamente anche molte perplessità. «Mappare il nostro dizionario è un sogno che coltiviamo da tempo » spiega Andrea Moro, che allo Iuss insegna linguistica generale. «Ma prima di cercare come è organizzato il linguaggio nel cervello, bisogna capire come lo è nella mente». Se lo studio di Berkeley ha mappato un migliaio di termini, perlopiù concreti, «dove collocheremmo il verbo essere o una particella così complessa come “se”?» si chiede Moro. «Prima dei neuroscienziati, devono essere i linguisti a stilare una sorta di tavola periodica della facoltà del parlare, che descriva quali sono gli elementi primitivi del linguaggio».

Paolo Leonardi, che insegna filosofia del linguaggio all’università di Bologna, trova molte domande rimaste senza risposta nello studio americano: «Non si spiega ad esempio come le aree associate alle varie parole siano coinvolte nella produzione linguistica. O come siano collegate alle aree dove registriamo la percezione degli oggetti che queste parole nominano».

Per Alessandro Treves, fisico di formazione e docente di “Basi neurali della conoscenza” alla Scuola internazionale superiore di studi avanzati di Trieste, «l’informatica e l’uso di algoritmi sempre più avanzati ci permettono di ottenere risultati così raffinati. Ma dobbiamo pensare al linguaggio come a un concerto che coinvolge varie aree del cervello. La corteccia va considerata come un tutt’uno. Associare una parola a un punto isolato rischia di portarci fuori strada».

Il fatto che tutti i volontari dello studio (fra cui lo stesso Huth) abbiano mostrato di avere lo stesso “atlante del linguaggio” sembrerebbe suggerire che nel nostro cervello esistono basi innate per la parola. Ma per dimostrarlo bisognerebbe estendere l’esperimento a persone di lingue o culture diverse, e soprattutto alla sintassi.

«La partita fra chi appoggia la teoria della grammatica universale di Noam Chomsky e chi propende per la tesi del linguaggio come frutto di apprendimento si gioca infatti sulla sintassi, non sulla semantica» spiega Treves.

Fonetica, sintassi e struttura narrativa saranno i prossimi tasselli da studiare, annunciano oggi i ricercatori di Berkeley. Il loro atlante è una prima rappresentazione di come il cervello organizza il suo linguaggio. Altri esploratori adesso dovranno occuparsi di tracciarne i dettagli.


Ma le emozioni che ci fanno unici resteranno un mistero

di Stefano Bartezzaghi (la Repubblica, 28.04.2016)

Come studiare il cervello, e il modo in cui comprende le parole e le storie? Non è affatto detto che la domanda sia ben posta: ma certo è necessario porsela almeno qualora si voglia trovare una possibile scorciatoia che colleghi ciò che fisicamente accade nel nostro corpo agli stimoli linguistici che riceve. La si può chiamare “scorciatoia”, perché in effetti taglia fuori tutto il regime del simbolico (per dirla con Jacques Lacan). Il presupposto è che quelli linguistici siano appunto stimoli, recepiti dal corpo (sia pure nella sua parte ritenuta più nobile): basterebbe trovare il punto di passaggio fra l’uno e gli altri per risolvere ogni questione. La psiche non è rilevata dagli strumenti diagnostici a disposizione e quindi viene espulsa dalla considerazione scientifica.

Ma sarà proprio così? Ed è davvero il “cervello”, inteso come organo anatomico, a comprendere il linguaggio? Le componenti chimiche emanate da un fiore raggiungono i recettori del nostro olfatto e vengono poi categorizzate dalla nostra mente: con le macchine giuste si può capire quali zone del cervello reagiscano agli stimoli olfattivi. Cosa succeda poi quando uno ascolta la canzone che fa «Fiori rosa, fiori di pesco», o quando assaggia una «petite madeleine » con Proust o ancora, con Mallarmé, sente levarsi «l’absente de tout bouquets» proprio non si sa, o almeno non se ne trova segno univoco nei tracciati della risonanza magnetica.

Il punto di partenza della ricerca pubblicata da Nature è che il «sistema semantico» sia «collettivamente riconosciuto» come corrispondente a certe «regioni della corteccia cerebrale», che occorre determinare. Punto di partenza: dunque presupposto, se non pregiudizio. È questa un’idea come un’altra, che però pone nel nulla almeno un secolo di riflessioni e analisi sul linguaggio come associazione psichica di significanti e significati (Ferdinand de Saussure, primo Novecento), e interrelazione di potenzialità associative e capacità combinatorie: una facoltà appresa socialmente, mobile, flessibile. Anche tipicamente umana, perché l’uomo è una creatura che viene al mondo precocemente e prolunga la duttile fase del proprio apprendimento sino a farne della capacità di variare il proprio comportamento il suo migliore atout.

La evoluzione dell’uomo (come specie e individuo) è appunto consegnata a questa strenua capacità di adattamento. L’ipotesi che si può fare, a partire dalle tesi linguistiche e semiotiche di Saussure, Hjelmslev, Jakobson, Eco e da quelle evoluzionistiche di uno Stephen Jay Gould, è che quanto la specie umana ha di formidabile è la capacità eclettica dei suoi apparati.

Se uno dei maggiori misteri dell’antropologia è il linguaggio è proprio perché esso risiede in una sorta di “cloud”, raggiungibile da ogni organismo umano, appartenente a nessuno. Roger Caillois pensava che la differenza fra gli uomini e gli altri animali è che fra l’uomo e l’impulso che lo raggiunge esiste sempre “un’immagine interposta”. Il linguaggio sta lì, in quella zona intermedia. Difficile trovare scorciatoie. Detto questo, in bocca al lupo a chi le cerca.


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