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IDENTITA’ E DIFFERENZA. UmaNITA’...

LA PAROLA E LA LINGUA. LA GRANDE LEZIONE DI FERDINAND DE SAUSSURE: IL "CORSO DI LINGUISTICA GENERALE". Per una rilettura, un breve testo (1975) del prof. Federico La Sala

lunedì 7 luglio 2008 di Maria Paola Falchinelli
Saussure: il dialogo, in principio.
DUE PERSONE CHE DISCORRONO...
Il punto fermissimo della ricerca saussuriana *
di Federico La Sala *
La produzione dell’individuo isolato al di fuori della società è una rarità che può capitare ad un uomo civile sbattuto per caso in una contrada selvaggia, il quale già possiede in sé potenzialmente le capacità sociali - è un tale assurdo quanto lo è lo sviluppo di una lingua senza individui che vivano insieme e parlino tra loro.
(K. Marx, Introduzione del (...)

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> LA PAROLA E LA LINGUA. LA GRANDE LEZIONE DI FERDINAND DE SAUSSURE ---- In Africa la culla delle lingue. Lo studio di Quentin Atkinson su “Science”: dai fonemi gli indizi di un’origine comune (di Gabriele Beccaria)

giovedì 12 maggio 2011


-  Senza le parole l’uomo avrebbe colonizzato il Pianeta?

-  In Africa la culla delle lingue

-  Lo studio su “Science”: dai fonemi gli indizi di un’origine comune, tra 50 e 100 mila anni fa
-  “I modelli matematici hanno svelato come i suoni obbediscano alla stessa logica dei geni”

-  Le origini C’è una radice comune alla Babele delle parole di oggi?

-  di Gabriele Beccaria (La Stampa TuttoScienze, 11.05.2011)

Sono voci speciali quelle che risuonano nel Kalahari, tra i boscimani sempre più rari. Racchiudono come preziosi fossili i suoni arcaici della lingua primigenia, prima che l’umanità si condannasse alla deflagrazione babelica delle parole.

Sembra troppo bello per essere vero, eppure Quentin Atkinson, antropologo della University of Auckland, in Nuova Zelanda, sta mettendo sottosopra il micromondo dei linguisti con la sua teoria appena pubblicata sulla rivista «Science». Squarciando il velo su uno dei maggiori interrogativi di sempre, sostiene che è possibile andare indietro nel tempo e recuperare le tracce di ciò che si pensava irrimediabilmente perduto. Abbiamo inventato un idioma comune una sola volta - sostiene - e da quello, a cascata, sono sbocciati tutti gli altri, figli dei millenni e delle migrazioni.

Sapevamo di essere figli dell’Africa, dopo le prove multiple raccolte con le ossa e con il Dna, ma adesso appare non meno clamorosa la nuova ipotesi: la mitica «lingua dell’Eden» è esistita davvero e ha inventato il proprio vocabolario nell’area sudoccidentale del continente, tra 100 mila e 50 mila anni fa, poco prima dell’«uscita» dei sapiens e dei loro avventurosi spostamenti nell’attuale Medio Oriente.

L’arma segreta

La colonizzazione del resto del Pianeta - ragiona Atkinson - non avrebbe potuto essere tanto veloce ed efficace senza la nuova arma segreta, appena messa a punto nelle pianure e sugli altopiani africani: è il linguaggio ad averci trascinato verso l’ignoto, trasformandoci nella specie più invasiva e anche pericolosa, capace di moltiplicare quasi all’infinito abilità e risorse, nonostante le deficienze dell’organismo. Applicando le logiche matematiche e statistiche (non particolarmente gradite dai colleghi), il professore neozelandese ha dedotto un modello da 504 lingue parlate oggi nel mondo. Al centro ci sono i fonemi - i suoni-base che costituiscono le unità specifiche di ogni parlata e che permettono di costruire parole distinte - e le loro fluttuazioni: obbediscono tutti a una stessa legge e si riducono progressivamente tanto più ci si allontana dalla culla della nostra specie. Se la grande famiglia antica del khoisan (a cui appartengono anche i dialetti dei boscimani) si articola su un centinaio di «mattoncini» sonori - i fonemi, appunto - l’inglese e il tedesco ne hanno soltanto la metà, mentre il mandarino si ferma a 32, il filippino scende a 23, il giapponese cala a 20 e l’hawaiano si deve accontentare di appena 13.

La «diversità decrescente legata alla distanza» (è questa la formula gergale) sembra sovrapporsi alla perfezione a un altro criterio, riconosciuto dai biologi e dai genetisti: è quello della diminuzione della variabilità del Dna rispetto alla distanza dall’Africa. Il processo è noto tra gli specialisti come «effetto del fondatore». Una popolazione che si origina da un piccolo gruppo di individui, fuoriuscito da uno più grande, paga lo scotto della separazione con un evidente assottigliamento della complessità genetica. E, di conseguenza, anche della ricchezza evolutiva. Geni e fonemi - nell’interpretazione di Atkinson - conducono così un balletto in parallelo, soggetto a rigide regole di arricchimento e di impoverimento.

«Una delle questioni più controverse è se ci sia stata una singola origine del linguaggio oppure se questo sia emerso in parallelo in aree differenti - osserva Atkinson -. Adesso abbiamo raccolto una serie di evidenze che sia esistita un’unica fonte». Mentre gli altri studiosi del settore si arrovellano sull’idea (che - com’è evidente - è parecchio provocatoria) e in molti l’hanno già contestata (c’è chi ritiene irrealistico che un’archeologia delle parole possa indagare un’era più antica di 10 mila anni fa), lo studioso neozelandese insiste e suggerisce che dai mucchi di parole delle 6 mila lingue attuali sarà possibile ricostruire anche i percorsi della colonizzazione dei continenti: una provvisoria conclusione è che l’Asia sia stata visitata molto prima dell’Europa, mentre nelle Americhe le tribù dei progenitori sarebbero approdate in tempi decisamente recenti.

L’organo virtuale

La capacità di esprimerci è rapidamente diventata il nostro «organo virtuale», quello che ha scatenato, tra le altre, le rivoluzioni dell’arte rupestre e di sofisticate tecniche di caccia, e - spiega con enfasi Atkinson - è l’unica e autentica innovazione culturale che ci contraddistingue. «Gli umani moderni sono un’unica e vasta famiglia genetica con un singolo antenato comune - scrive -. Uno degli aspetti che più mi piace delle mie ricerche è che, se il linguaggio rappresenta una peculiare forma di identità, allora tutti apparteniamo anche a un’unica e vasta famiglia culturale».


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