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EUROPA, EVANGELO E COSTITUZIONE ...

LO STATO LIBERALE E POST-SECOLARE, IL CATTOLICISMO DELLE RELIGIONI E I PRESUPPOSTI DELLA COSTITUZIONE ITALIANA. UN PATTO PER QUALE LAICITÀ? Una riflessione del costituzionalista Ernst-Wolfang Bockenforde - con una nota di Federico La Sala

Allegato il saggio: "Europa. Crisi finanziaria: L’uomo funzionale. Capitalismo, proprietà, ruolo degli Stati " (di E.-W. Bockenforde)
domenica 14 giugno 2009 di Maria Paola Falchinelli
[...] la neutralità aperta a tutte le religioni cerca di persegui­re un equilibrio tra il cre­do espresso da una deter­minata religione e la pos­sibilità che i suoi membri vi conformino la propria vita anche in ambito pub­blico.
Come ha affermato di re­cente il papa Benedetto X­VI, la fede ha riconosciuto in nuovi termini la propria ampiezza interiore e la propria, specifica ragione.
I cristiani avevano infatti il compito di accogliere «le vere conquiste dell’Illumi­nismo, i diritti (...)

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> UN PATTO PER QUALE LAICITA’? ---- Dove poggia la ragnatela del diritto (di Ottavio De Bertolis)

domenica 16 maggio 2010

CITTADINANZA E DIRITTO DEL SOLE ("IUS SOLIS"): AL DI LA’ DEL DIRITTO DEL SANGUE ("IUS SANGUINIS") E DELLA TERRA ("IUS SOLI")

"ASCOLTA, ISRAELE": IL DIO "UNO" FONTE DELLA LIBERTA’, LA LEGGE DEL "PADRE NOSTRO", E IL DIALOGO.


La religione e gli ordinamenti dello Stato moderno

Dove poggia la ragnatela del diritto

Pubblichiamo stralci di una delle relazioni presentate alla giornata di studio su "La libertà di religione. Un diritto umano che sta cambiando?" che si è svolta nel Pontificio istituto teutonico di Santa Maria dell’Anima. *

-  di Ottavio De Bertolis
-  Pontificia Università Gregoriana

Secondo una metafora notissima, ogni ordinamento giuridico ha la fisionomia di una piramide a gradini, una sorta di ziqqurat giuridica: a partire dalle norme inferiori, quelle a noi immediatamente accessibili, regredendo di norma in norma, giungiamo alla norma fondamentale, la Grundnorm, al vertice della piramide, dalla quale tutte le altre fondano la loro validità.

Vale la pena sottolineare come in tal modo l’ordinamento, e dunque lo Stato che è metafora logica della sua unità, si presenta come un tutto, circoscritto e conchiuso, in sé sussistente e perfetto, un vero "dio mortale", o secolarizzato, secondo l’espressione hobbesiana. Dalle leggi ordinarie fino all’ultimo regolamento comunale e agli usi del commercio, tutte le norme sono riassunte e ricapitolate nella norma fondamentale, in essa virtualmente contenute, come una geometria è contenuta negli assiomi di partenza. Ma come ogni geometria si basa su postulati detti "evidenti", così nel fenomeno giuridico la validità logico-formale dell’ordinamento, cioè la sua deducibilità dalle norme sulla produzione poste dalla Grundnorm, dipende dal fatto che l’ordinamento sia effettivamente osservato, ossia che la norma fondamentale sia percepita come cogente, ossia degna di essere obbedita.

Il tessuto dell’ordinamento si poggia su una base, non posta ma presupposta, accettata e condivisa, che rende perciò stesso l’ordinamento non solo valido, ma anche effettivo. In tal modo, siamo in presenza di una sorta di ragnatela: essa si appoggia su dei punti-forza che come tali non appartengono alla ragnatela, ma sulle pareti esterne, alle quali la ragnatela si appoggia. Possiamo chiamare queste pareti i valori condivisi in una determinata comunità, a loro volta influenzati da molti fattori, come l’etica, le religioni, l’economia, le stesse scienze con la percezione del mondo che esse inducono, le strutture umane familiari e sociali, e molti altri ancora. In questo senso, ogni ordinamento giuridico nasce all’interno della cultura umana, essendo esso stesso nient’altro che cultura umana, storica, mutevole e perciò relativa. Fuor di metafora, ogni ordinamento si appoggia su altri ordinamenti, non giuridici ovviamente ma valoriali, pertinenti ad altri saperi. Il diritto è un sapere tra altri saperi, un’interpretazione del mondo che si affianca, e anche appoggia, su altre, che lo supportano e dal quale a loro volta sono supportate. Così i diritti fondamentali, quelli che sono dichiarati tali nelle moderne Costituzioni, non sono altro che prodotti della nostra storia giuridica occidentale e sono il modo che noi abbiamo per tradurre giuridicamente alcuni valori che condividiamo.

Possiamo capire il senso profondo della nota affermazione di Ernst-Wolfgang Böckenförde, per la quale lo Stato moderno, secolarizzato, vive di presupposti che esso non può garantire, proprio perché ne sono la premessa, non la conseguenza. Tra questi presupposti indubbiamente la religione ha un posto non insignificante, sebbene non sia la sola, ma concorrano altre etiche e i vari altri saperi. Questo non significa, come paventato da alcuni, che in tal modo la religione venga invocata non per la salvezza dell’anima, ma per la fondazione o lo stabilimento dello Stato; né tale proposta si risolve in una nuova e strana alleanza tra l’altare e i Governi, in una sorta di moderno giurisdizionalismo per la quale lo Stato si trovi a tutelare con i propri mezzi valori e proposte che non gli competono. Dovrebbe essere ovvio che questo non significa nemmeno che i chierici occupino ruoli non loro, surrogandosi a compartecipi istituzionali della vita dello Stato, quasi moderne assemblee del secondo Stato.

È invece assolutamente vero che non sono politici i fondamenti della politica, proprio come non sono scientifici i fondamenti della scienza: potremmo dire, sviluppando la stessa linea di pensiero, che non sono nemmeno giuridici i fondamenti del diritto. E questo non per un postulato confessionale, come tale non necessariamente condivisibile, né per una sorta di verità metafisica, ma per il fatto che il procedere razionale, ossia deduttivo-sillogistico delle nostre dimostrazioni, che è l’unico sapere accettato nella moderna ragion pubblica, richiede l’accettazione previa di un ubi consistam teorico, delle premesse che non sono dimostrate, ma fondano ogni possibile dimostrazione.

E questo è, mi sia consentita l’espressione, il sempiterno "sgusciar fuori" della metafisica dalle dita della scienza che pretende di rinserrare la realtà nelle proprie interpretazioni. Questo dice semplicemente l’insopprimibilità della domanda sul "perché" delle cose - qui dell’ordinamento giuridico - che sempre si accompagna a quella, legittima, ma non unica, sul "come" del loro funzionamento.

Questa posizione non ha nulla di confessionale: al contrario, è la constatazione che i diritti umani sono il prodotto della nostra storia giuridica occidentale, che è così indelebilmente segnata dal cristianesimo. Eppure la storia del diritto non è storia della cristianità o del cristianesimo, e può perfino darsi che nella storia secolare dell’Europa le vicende dei diritti umani si siano sviluppate anche indipendentemente dalle Chiese, come se, almeno in alcuni settori, il lievito evangelico sia fermentato in forme inaspettate e al di là delle stesse istituzioni.

Così è sterile, almeno secondo il punto di vista da me sostenuto, dibattere sul problema se i diritti dell’uomo derivino e in che misura dalle radici cristiane dell’Europa: la domanda (o l’affermazione che vi è implicita) è significativamente posta in un contesto, come quello odierno, in cui con il tramonto delle ideologie pare tramontato anche l’unico modo di concepire i valori evitando di cadere nella pura sudditanza del mercato e delle sue logiche. In realtà tale domanda nasce innegabilmente dalla paura, di fronte a quanti sono percepiti come nemici della nostra civiltà, e può in effetti sembrare equivoco vedere invocato il cristianesimo come collante o supporto di un’identità, quella europea, che sembra affondare, specie se in funzione oppositiva o non inclusiva, il che contraddice alla sua stessa cattolicità. Viene osservato giustamente che in tal modo si tematizza un uso politico della religione, in fondo un suo svilimento, o una miscomprensione del suo significato più profondo, diventando un "ingrediente necessario a ogni forma di governo".

Le religioni sono fonte di cultura, ossia di pensiero, anche giuridico, e queste operano a partire dal linguaggio e dalle categorie culturali in cui vivono, ma non sono esse stesse immediatamente cultura, e cultura giuridica in particolare. Il concetto di diritti dell’uomo - al di là del fatto se questi diritti siano dell’uomo o del cittadino, cioè se la politica venga prima o dopo del diritto, o se lo Stato preceda o no la società - non postula immediatamente quello di persona, che è concetto filosofico, nato all’interno del dibattito teologico cristiano, ma quello di soggetto di diritto, che è una creazione della cultura giuridica occidentale e che dice al contempo la coincidenza dell’individuo, concetto più propriamente empirico, con la soggettività giuridica, creazione propria del sapere giuridico.

Potremmo dire che esso declina in termini giuridici il concetto filosofico, e non giuridico, di persona come essere relazionale, lo dice in modo ad esso proprio, in particolare predicandolo - e questa è la novità - ad ogni individuo. E questo è stato reso possibile certamente dal cristianesimo: secondo la lezione di Hegel, se nel mondo orientale uno solo, il sovrano, è libero, in quello greco e romano lo sono solo alcuni, i migliori, in quello moderno invece, ossia in quello cristiano, tutti sono liberi, perché lo Spirito è dato a tutti e a ognuno.

D’altra parte è fuor di dubbio che il cristianesimo, precisamente attraverso l’epopea meravigliosa delle vicende degli ordini religiosi, ha reso possibile storicamente la stessa esperienza della democrazia e delle sue stesse tecniche elettorali. Potremmo dire che il cristianesimo è stato fonte di riflessione, cioè di cultura, permettendo di torcere il significato delle parole antiche, qui quella di "persona", riempiendolo di significati nuovi. Infatti, come tutte le religioni, anche il cristianesimo veicola simboli - qui quello dell’uomo come "figlio di Dio" - e questi "danno a pensare", cioè creano cultura, anche giuridica. Con le parole di Bernanos, con il cristianesimo ogni uomo, anche il più vile, vale il sangue di Dio: queste parole, messe insieme, esplodono al primo contatto, e di fatto hanno trasformato la cultura antica. E questo continua ad accadere: il lievito continua a fermentare.

Vorrei osservare che rendersi conto di tutto questo non significa necessariamente uscire dal positivismo giuridico, ma piuttosto assumerlo responsabilmente: è vero che le leggi sono dei "nomodotti", potenzialmente adatti ad assumere o a farvi scorrere qualsiasi contenuto - la storia lo dimostra dolorosamente - ma rimane vero che le stesse Costituzioni, e i diritti umani che vi sono precipitati, ci mostrano che all’interno della stessa prospettiva positivista non cadiamo necessariamente nel nichilismo giuridico. Anzi, i diritti dell’uomo, come la laicità delle istituzioni, il costituzionalismo, la promozione della cultura - compito certamente non assunto né dallo Stato né dai privati, con la conseguenza del panorama certamente spettrale che ci circonda - sono una risorsa contro di esso. In questo senso, la sfida oggi è di rimanere nella modernità senza rimpiangere un passato, facile solo perché da noi non vissuto, e di abitare la complessità che viviamo, evitando il pensiero unico o le irreali semplificazioni che un laicismo sempre più becero e gridato o un rinnovato clericalismo possono fare proprie.

*

©L’Osservatore Romano - 16 maggio 2010


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