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COSTITUZIONE ED EDUCAZIONE CIVICA. Crisi dei fondamenti di una civiltà....

IL SUONO E LA VOCE: CONSAPEVOLEZZA CULTURALE, EDUCAZIONE MUSICALE E FORMAZIONE. CHI NON SA ASCOLTARSI QUANDO PARLA O SUONA, PARLA O SUONA SENZA L’ASCOLTO DI NESSUNO, NEMMENO DI SE STESSO. Una nota sugli Atti di un convegno internazionale del 2005 (pubblicati nel 2008) del prof. Paolo Gallarati - con un "appunto" di Federico La Sala

Pierre Boulez ha dichiarato di aver migliorato enormemente la propria capacità di direttore d’orchestra nel momento in cui ha imparato ad ascoltarsi mentre dirigeva.
martedì 22 luglio 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] Saper ascoltare significa imparare a sentire per sfumature e ragionare per forme, con tutte le prevedibili conseguenze che questo ha sulla formazione dell’individuo. Staccare l’ascolto dalla pratica musicale significa ridurre quest’ultima a semplice esercizio muscolare, soffocandone il principio essenziale che è quello, straordinario, di usare il corpo come strumento del pensiero e di trasformare il pensiero in un’espressione fisica [...] (...)

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> IL SUONO E LA VOCE: CONSAPEVOLEZZA CULTURALE, EDUCAZIONE MUSICALE E FORMAZIONE. --- PIERRE BOULEZ. La scomparsa di un vero Maestro (di Piero Mioli)

lunedì 18 gennaio 2016

La scomparsa di un vero Maestro

Pierre Boulez

di Piero Mioli (Il Mulino, 15 gennaio 2016])

Schönberg est mort, scrisse con enfasi nel 1952, certo non immaginando che quel suo strano messaggio, misto di costernazione e senso di liberazione, sarebbe stato inteso come uno snodo fondamentale della musica contemporanea. Quando lo pubblicò, Pierre Boulez aveva 27 anni, essendo nato a Montbrison, nella Loira, il 26 marzo 1925. Ora che è mancato anche lui, il 6 gennaio 2016 a Baden-Baden (più che novantenne, malato sì, ma sveglio come non mai), in tutto il mondo son fioccati messaggi più o meno intitolati così, dalla nuda notiziola a qualche prima profonda riflessione. Altro senso di liberazione? No, ma in 64 anni i tempi sono molto cambiati, la critica musicale con la maiuscola chissà dov’è finita, né Boulez era mai stato quel tiranno della musica che secondo lui era stato o meglio era diventato Arnold Schönberg. Però le sue idee, espresse con una chiarezza quasi luciferina, erano altrettanto drastiche, intransigenti, schierate: Arnold aveva distrutto l’armonia tradizionale inventando prima l’emancipazione della dissonanza o atonalità e poi la dodecafonia e quel suo stadio ulteriore che è il serialismo, e lui, lui Pierre, diceva che il compositore contemporaneo deve distruggere a sua volta, che una nuova musica non seriale non ha senso, che lo Stravinskij neoclassico era un gambero e lo Stravinskij dodecafonico una scimmia (quanto a un sinfonista della razza di Šostakovič, giusto per fare un altro esempio, nulla da salvare). Il vero “guaio” di Schönberg (dispotismo a parte) Boulez l’aveva evitato componendo sì in quello stile assolutamente avanguardistico ma senza più onorare le antiche forme di concerto, sonata e così via. E quando, provetto concertatore e direttore d’orchestra qual era oltre che compositore, dovette fare le sue scelte e fare le sue esclusioni, non ebbe dubbi: ogni onore a Webern, allievo di Arnold e suo vero maestro ideale, e a Berg e compagnia viennese; sì anche a quell’iperromantico, un po’ troppo “trombone” di Wagner, e a quell’impressionista-simbolista di Debussy, sempre un po’ troppo sospiroso, anche se a patto di prosciugare il primo e innervare il secondo; e niente da fare con tanti autori barocchi (Vivaldi?), classici (Haydn?), romantici (Schumann?), italiani (Verdi?).

È anche per questo rigore che Boulez è stato un artista fra i più significativi e influenti del secondo Novecento in Francia e in Europa, capace di agire su diversi fronti e sempre al passo con i tempi. Ha scritto saggi acuti e corposi, spesso tradotti in italiano da Einaudi come Points de repère del 1981, che spazia dalla riflessione estetica a lucide schede su singoli musicisti. Ha diretto, fra l’altro senza mai impugnare la fatidica bacchetta (del comando) e limitandosi alla manualità, l’orchestra di Cleveland, l’orchestra della Bbc di Londra, l’Orchestra Filarmonica di New York, dando interpretazioni straordinarie, perfettamente analitiche e nemiche di ogni suggestione sentimentale, dal Parsifal di Wagner al Pelléas et Mélisande di Debussy, dalla Sinfonia fantastica di Berlioz all’intero Anello del Nibelungo di Wagner stesso (a Bayreuth nel primo centenario del 1976, con la regia di un connazionale del valore di Patrice Chéreau). Ha insegnato a Darmstadt e Basilea, ha fondato (nel 1977) e a lungo diretto l’Ircam (Institute de Recherche et Coordination Acoustique/Musique) di Parigi, ha composto parecchia musica che lo pone ai vertici dell’originalità qualitativa della sua epoca.

Come autore, Pierre Boulez comincia nel 1946 con una sonatina per flauto e pianoforte. Sul modello di Webern, dopo un paio di sonate per pianoforte giunge nel ’51 al serialismo integrale della Poliphonie X per 18 strumenti, per passare poi alla “forma aperta” e all’“alea controllata” ad esempio in Pli selon Pli del ’62 per soprano con strumenti e in quel Répons (Responsorio) che è nato nel 1981 e ha subito continue metamorfosi (è questo il concetto di opera aperta, mentre l’alea è la maniera compositiva inventata da John Cage che pratica l’imprevedibile del caso). Altre opere significative, in un catalogo vasto e vario e spesso divaricato fra più versioni sono Rituel in memoriam Bruno Maderna per orchestra, Structures pour deux pianos in due libri, Le marteau sans maître per contralto e sei strumenti su testi di René Char. Clamorosa, per esempio, la differenza fra le due sonate per pianoforte. La prima è breve, nove minuti in due movimenti, e mentre si diverte a studiare le risonanze di uno strumento tanto fondato sul famoso pedale specifico, conosce una prima versione che cita limpide melodie tradizionali e una definitiva che cancella ogni memoria per quintessenziarsi totalmente. Lunga la seconda, invece, quattro movimenti come certe sonate viennesi: sembra imitare la Hammerklavier di Beethoven, anche perché come quella termina con una fuga, ma in verità vuole essere addirittura una “esorcizzazione” del passato. Prova ne sia che abbonda di trilli, famosi o famigerati abbellimenti qui distolti dal grazioso compito di ornare e invitati piuttosto a travisare, frammentare, disturbare.

Sempre assistito da una ricca bibliografia, nella primavera scorsa Boulez è stato onorato dal Musée de la Musique di Parigi con una mostra che ha tratto materiali da quella Darmstadt che è la roccaforte dell’avanguardia musicale, ma anche da Bologna, dalla Biblioteca del Dipartimento delle Arti (Sezione di Musica e spettacolo), con tanto di catalogo pubblicato da Actes Sud (da me recensito nella «Nuova informazione bibliografica», n. 2015/3, pp. 627-630).

Non c’è dubbio che la scomparsa di Pierre Boulez, annunciata in ogni dove come raramente capita a un musicista, provochi una grande quantità di pubblicazioni divulgative e scientifiche: da esse si trarrà ulteriore linfa per comprendere sempre meglio l’intellettuale, l’artista, il maestro nella sua complessità. Ma certo nell’assieme del pensiero e dello stile quella di Boulez è una figura che ha una sua chiara cifra - come dire? - di contrasto. Boulez aveva studiato con Messiaen, grande e diversissimo compositore tutto ispirato alla fede religiosa e al canto degli uccelli. Messiaen aveva composto reagendo ai Six, un gruppo di musicisti ironici e prosaici nemici giurati delle troppo poetiche nuances di Debussy. Il quale aveva avuto un problematico rapporto di amore (poco) e odio (molto) con il Romanticismo estremo di Wagner. Dunque oggi, nel 2016, il mondo della musica colta ha tutti i diritti di coltivare e anche di contraddire i principi dell’arte di Boulez. Quello di conoscerlo e pregialo, invece, è un dovere sacrosanto.


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