educazione
Ezio Bosso e la musica «fin dall’asilo»
«Obbligatorio a scuola Pierino e il lupo»
Il maestro, i bambini e le note: «Lasciamo che lo stupore si impossessi di loro. E li guidi nella vita. Qual è il problema? Che la musica è vista solo come performance»
BOLOGNA - L’altro giorno a Parma Ezio Bosso ha presentato un suo libro, firmato con Guido Crainz e Ugo De Siervo, intitolato molto emblematicamente I miei primi 2 giugno (edizioni L’Io e il mondo di TJ) e dedicato ai bambini «per comprendere che quando si parla di musica si parla anche di libertà».
Maestro Bosso, la musica a scuola. Lei che idea si è fatto sulle polemiche contro il flauto e il suo insegnamento?
«Andrò forse controcorrente, ma io sono a favore del flautino, perché è uno strumento che tutti possono permettersi. E può diventare, proprio per questo motivo, una prima educazione al suono. L’unico problema è che se dovessi decidere io, farei iniziare lo studio alle elementari se non già all’asilo. Alle medie è già tardi».
Qual è secondo lei il grande fraintendimento parlando di educazione alla musica?
«Che si confondono l’educazione alla musica con l’educazione allo strumento. Bisognerebbe insegnare prima la musica. L’ascolto e la conoscenza di questa materia sono essenziali e indispensabili alla comprensione del resto».
Lei quando ha cominciato il suo rapporto con la musica?
«A tre anni - e dico subito che non sono figlio di musicisti - sono capitato nel negozio di una prozia di mio padre. Un negozio che - come le chiamavano allora - era una casa musicale, dove si vendevano spartiti e strumenti».
E cosa successe?
«Ah..., è presto detto: rimasi folgorato davanti a un pianoforte. Mi dovettero portare via a forza».
Come potrebbe tradurre questa sua esperienza in termini di educazione musicale?
«In sintesi mi viene da dire - e per carità, ne sono pure convintissimo - che la musica viene vista solo e soltanto come un fenomeno performativo».
E la vera magia secondo lei, dove andrebbe cercata e trovata?
«Bisognerebbe portare i bambini ad ascoltare la musica. Lasciare che lo stupore si impossessi di loro. Questa, secondo me, è la vera magia. Non costringerli a cantare e a ballare solo per il piacere della zia di turno...».
In quale direzione pensa che si potrebbe procedere per migliorare la conoscenza della musica per il mondo dei più piccoli?
«Presentare gli strumenti a scuola. Far scoprire ai bambini con la descrizione di un musicista cos’è, per esempio, un controfagotto. Quasi nessuno sa come è fatto e come emette musica un controfagotto. Poi renderei obbligatorio in tutte le scuole Pierino e il Lupo di Prokof’ev e una partitura di Britten poco nota e pochissimo eseguita, come Noye’s Fludde (L’Arca di Noè) op. 59, dove i più piccoli contano come gli adulti e dove suonano tutti insieme».
Perché la musica è normalità fuori dai nostri confini italici?
«Perché la musica da noi non viene considerata un momento di vita, fondamentale per incuriosirci nei confronti del mondo, ma soltanto qualcosa di astratto e di non ben definito».
* Corriere della Sera/Bologna, 17 maggio 2017
Torna con un album e un concerto in tv il 23 dicembre. “Lotto per rimanere una persona, non un personaggio”
di Piero Negri
inviato a Gualtieri (Reggio Emilia) *
L’eccezione è la norma, nella vita di Ezio Bosso. Non solo, non tanto, per la popolarità che in 13 minuti di televisione si è guadagnato a Sanremo. Non solo per la malattia neurodegenerativa che l’ha colpito, di cui dopo qualche secondo trascorso con lui ci si dimentica naturalmente. La sua storia è un’eccezione: è un musicista colto capace di parlare a tutti (e chi è stato a uno dei suoi tanti concerti in giro per l’Italia - tutti sold out - lo sa bene) e di portare in hit parade un album complesso e per nulla pop come The 12th Room.
Ora il contratto con la Sony Music e l’uscita di ...and the things that remain, che raccoglie il suo meglio, o qualcosa del genere, dal 2004 a oggi.
«Il concetto di antologia non mi entusiasma. Ho accettato di farla perché ci ho messo tre inediti e perché con la Sony ho firmato un accordo mondiale da musicista, come si usava un tempo: significa che in futuro potrebbero arrivare album con composizioni non mie, o non suonate da me».
È possibile distaccarsi così dalle proprie composizioni?
«Non solo è possibile, è necessario: detesto il concetto di musica “mia”. Al massimo, è scritta da me. Noi siamo solo un tramite, ce lo dimentichiamo spesso per metterci la tuta da Superman, per aver ragione. Vivo di vibrazioni empatiche, la ragione mi fa paura».
Con lei non c’è mai nulla di scontato: l’album si intitola ...and the things that remain, ma non contiene la composizione che si chiama così.
«Per un certo periodo a tutte le persone che incontravo chiedevo quali erano per loro “le cose che rimanevano”. Qualcuno pensava a ciò che rimarrà di noi dopo la morte, ed è un pensiero che ho anch’io, con il tempo che mi resta e i figli che non ho, ma molti riflettevano su ciò che gli era stato trasmesso da chi non c’è più. Ho scritto un trio con quel titolo, nell’album non c’è ma il concetto sì: di questo mi occupo, della musica che rimane».
È un musicista classico, post-minimalista, divenuto popolare a Sanremo senza mai diventare pop. Strano, no?
«Per chi viene ai concerti però non ci sono equivoci. Questo successo pop, che è solo italiano, rafforza in me solo il desiderio di fare un passo indietro. A me oggi interessa la potenzialità di divulgare bellezza. Quando un ragazzo mi dice, sono stato al concerto di Mario Brunello che faceva le suite di Bach perché l’hai detto durante un concerto, per me è il massimo. Nella musica io credo: la musica non è bella, è importante, è vita. La grande musica fa sì che esista la musica che scrivo io e fa sì che esista io, che viva e viva meglio».
Ha conosciuto anche i famosi aspetti negativi del successo?
«Non è facile essere sulla bocca di tutti, né avere tante persone che vogliono fare una foto con me, quando io le foto le ho sempre detestate, fin da piccolo. C’è affetto, però anche fatica: ero abituato a rispondere a tutti, ora non ce la faccio e alcuni si arrabbiano, mi dicono che sono cattivo, e ci rimango male. Lotto per affermare che sono una persona, non un personaggio».
Ha detto molti no?
«Sì. Mi hanno perfino chiesto di commentare gli Europei. Ma io di calcio non so niente, seguo più il rugby. Il 23 dicembre, però, sono su Sky Arte con la registrazione del concerto qui a Gualtieri, la mia seconda casa. Avevo detto: tornerò in tv solo se qualcuno trasmette in prima serata un concerto della musica a cui appartengo. Mantengo la promessa».
È l’uomo della prime volte: l’hanno chiamata a dirigere alla Fenice, a Venezia, e ha aperto tutte le prove al pubblico.
«Nessuno l’aveva mai fatto: è stata una bellissima esperienza, con solo aspetti positivi. Tra i tanti, anche quello di tener vivo il teatro tutto il giorno».
A Venezia ha diretto Mendelssohn, Beethoven e Bosso: cos’altro le piacerebbe affrontare?
«Il sogno è che un’orchestra mi dica: facciamo tutto Beethoven. Così finalmente dirigo il mio papà musicale. Se mi chiede cosa mi piacerebbe dirigere, torno all’infanzia: Beethoven, Má vlast di Smetana e Les préludes di Liszt. A 5 anni, ascoltandoli di nascosto, sognai di dirigere».
Quindi nasce direttore?
«Volevo fare il direttore, ma allora, quando arrivavi da una famiglia povera, ti facevano capire che non potevi permettertelo. Ti dicevano: suona il contrabbasso, almeno trovi un lavoro sicuro. La direzione te la devi guadagnare, magari incontrando, come è successo a me, maestri che ti incoraggiano».
Si sente più che altro direttore?
«Lo dico sempre, sono un direttore che compone e che all’occorrenza suona il pianoforte. La mia natura è quella di concertare gli altri. Però il piano mi ha aiutato, mi ha permesso di fare musica senza stancarmi troppo. Tre anni fa non sarei mai riuscito a dirigere, poco tempo prima non riuscivo neanche a suonare il pianoforte: tentai un concerto di tre quarti d’ora e svenni sulla tastiera».
Cosa è cambiato in lei?
«Il mio unico segreto è la disciplina, è la musica che me l’ha insegnato. Con la musica non “esprimi te stesso”, esprimi l’arte, le dai cuore. Ma è essenzialmente disciplina. Lo studio quotidiano che faccio da 40 anni non è mai cambiato: è quello che mi ha permesso di vivere meglio la mia condizione».