Quindi anche tutta la modalità con cui si è arrivati al referendum è discutibile. Basterebbe pensare al fatto che a decidere un cambiamento così vasto della Costituzione è stato un parlamento viziato da un premio di maggioranza giudicato incostituzionale. E non si dica che il referendum assolve questo peccato perché è pura demagogia. E così, poi, il precedente diventa molto grave...
È chiaro che l’art. 138 della Costituzione dà la possibilità di fare revisioni della Costituzione, però parla di revisioni, perché presumeva alla Costituente che gli interventi sulla Costituzione fossero settoriali, legati a questo o quell’altro articolo. Ce ne sono state tante dal 1948 di revisioni. Una delle ultime, rilevante e ampia, è stato il Titolo quinto, un’apripista di questa riforma mastodontica.
La Renzi-Boschi non è una revisione, quindi presumibilmente anche chi va a votare per il sì e per il no, parteciperà non a un referendum, ma a un vero e proprio plebiscito. Per necessità delle cose, perché non può essere che si dà un sì o un no a tutti i 47 articoli. Perché su alcuni uno può trovare un senso, su altri no, e invece ci si chiede di comprare a scatola chiusa tutto. In realtà, allora, ci si chiede un voto di fiducia al leader. Insomma, che ora Renzi dica di non voler mettere più la faccia e metta in scena questo ambaradan di falsa umiltà, non cambia nulla perché in realtà la riforma è così estesa che non può che avere un "sì” o un "no” identificato con lui per necessità; perché proporci di cambiare 47 articoli con un sì o un no, significa chiederci non già di giudicare il contenuto di quel cambiamento, ma di votare sulla nuova visione di Costituzione. Quindi noi esprimiamo fiducia in chi ci fa questa proposta, non nella proposta medesima. Un sì o un no su 47 articoli vuol dire questo. Non è lui che fa del plebiscitarismo, è la struttura medesima della sua proposta di riforma che lo comporta, per necessità. Non raccontiamoci balle.
Il loro grande argomento è quello della governabilità...
Si può avere una riforma nella quale oltre alla rappresentanza nostra sia anche garantita la nostra capacità di governo? Ma certo, perché le democrazie vogliono costruire maggioranze, non minoranze, ovvio che sia così. Tuttavia in tutti i paesi dove ci sono sistemi che consentono alle maggioranze di governare con continuità e per il periodo in cui la legislazione funziona, ci sono dei sistemi di controllo straordinari, istituzionali ed extraistituzionali. L’ultima boutade del nostro leader è stata: "Anche noi come la Gran Bretagna”. Per ribattere basterebbe ricordargli solo che la Gran Bretagna ha la Bbc, la quale non dipende dalla maggioranza parlamentare e quindi dal partito di governo o dal governo; è completamente indipendente, quindi è un potere veramente autonomo. Da noi il sistema dell’informazione è in mano alla maggioranza.
In realtà si sta preparando un accumulo di poteri tali, istituzionali ed extraistituzionali, che in teoria potrebbe rendere le maggioranze granitiche per lunghi anni. D’altra parte noi andiamo di ventennio in ventennio, questa è la realtà. C’è fortissima l’idea dell’uomo della provvidenza che gestisce il teatro della politica italiana. è una visione papale della politica. Siamo in Italia, nel paese della cattolicità di sistema, abituati a diffidare di una democrazia senza capo.
Ma qui non si torna al problema dei partiti che non ci sono più?
Si arriva lì, certo. Il problema però è che i seguaci della Seconda Repubblica, e anche qui siamo nella tradizione, nutrono una repulsione fortissima verso i partiti politici e il pluripartitismo. Li odiano perché li identificano con le fazioni, parti che gestiscono il tutto, eccetera, eccetera. Ai tempi della Costituente lo chiamavano il Cln-ismo, una combutta di partiti che scriveva la Costituzione... Questo fu il primo argomento di Lucifero ma anche di Maranini, uno dei primi a scrivere contro la democrazia dei partiti, chiamandola "partitocrazia”. E questo lo vediamo anche oggi, solo che a parlare contro i partiti sono i loro stessi capi: "La riforma toglierà i soldi ai partiti”, "Le poltrone a cui sono attaccati i politici”, "I piccoli partitini” così dannosi... tutto questo argomentare populista che ormai è dilagante, è nato e nasce così, in odio ai partiti.
Invece la nostra Costituzione è molto chiara e così la stessa concezione della democrazia rappresentativa: senza i partiti non c’è democrazia rappresentativa, ci sono forme senz’altro di democrazia delegata, diciamo, governativa, ma la democrazia dei partiti è quella che ci consente come cittadini di influire nella costruzione di strategie o nella costruzione di progetti, di controllare, di decidere anche chi andrà in parlamento. I partiti sono fondamentali, senza di loro la democrazia rappresentativa è un cumulo di voti o di non voti, senza alcuna possibilità di controllo, ed è quello che sta succedendo. Noi siamo uno "stabilimento di voti”, elettoralistico, con una produzione di elezioni, primarie o non primarie, senza alcuna possibilità di contare. Perché questo è. Quindi un antipartitismo profondo che ci porta a volerne meno, pochi, il capo che ci governa ne vorrebbe al massimo due, ma se potesse ne farebbe uno solo...
Mi sa che ci ha anche provato, con il partito asso pigliatutto...
Ci ha provato. E però con una visione che se non è ingenua, è davvero in malafede. Perché anche questa idea di riforma elettorale, che dovrebbe creare il partito della maggioranza, il partito che governa, perché a lui interessa solo questo, è un’illusione. Un partito unico che governa con una grande maggioranza, che dalla sera delle elezioni può decidere tutto, non sarà mai omogeneo ed è ovvio che se vuoi tenere la maggioranza sarai sempre sotto ricatto perenne di ogni tipo di fazione interna. Queste conteranno molto di più. Altro che inciuci, quindi. Oggi il ricatto è evidente, lo fa un Verdini che sta fuori, poi sarà dentro e nessuno vedrà più nulla. In realtà il leader terrà Palazzo Chigi, ma per tenere il partito di maggioranza avrà sempre dei problemi, perché questo fa parte della transizione politica in tutte le democrazie. La politica è fatta di trattative dopotutto.
Ma sulla questione della governabilità, che ormai è un mito, vorrei dire ancora qualcosa, perché l’uso che se ne fa è veramente disonesto.
La parola governability è un concetto che viene sviluppato negli anni Settanta in un gruppo di pressione internazionale che è la Trilateral, la Commissione trilaterale. Siamo nel periodo della guerra del Vietnam e per reazione alla società degli anni Settanta, senza autorità, si forma un think tank, che ha sede a Washington, che ha fra i suoi più importanti rappresentanti Michel Crozier, Samuel P. Huntington e Joji Watanuki. È costruita dai paesi dell’Alleanza atlantica, da quei paesi che hanno vinto la Seconda guerra mondiale non solo contro i nazifascisti, ma anche contro i sovietici (le bombe atomiche, lo sappiamo, furono fatte esplodere contro i sovietici). Quindi i paesi dell’Alleanza atlantica producono questo comitato di studio che ha il compito di analizzare, a vent’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, lo "stato della democrazia” in tutti quei paesi in cui i movimenti stanno attaccando i partiti. Sull’onda del ’68-’69. Incominciano questo lavoro di ricerca in tutti i paesi del blocco atlantico.
Alla fine di un’analisi che viene effettuata molto capillarmente, con dei rappresentanti paese per paese (in Italia i rappresentanti che sedevano in questo Trilateral Committee erano Agnelli, La Malfa e Guido Carli) pubblicano un unico grande documento intitolato proprio "The crisis of democracy”. Perché crisi della democrazia? Perché è in crisi la governabilità. Ma cosa vuol dire governability? Non è il governo. È la capacità dello Stato di governare ovvero domare la società. La società bisogna che sia governata. Una società che produce movimenti, associazioni che chiedono allo stato e a cui lo stato deve rispondere se vuole mantenere la pace sociale, questa permanente richiesta allo stato e altrettanto permanente risposta dello stato, porta a una società in permanente crisi di governabilità. La società, cioè, è troppo partecipata, troppo vociante, vuole, propone, critica, in una parola dialoga con lo Stato. Quindi questo finisce per non essere autonomo dalla società. Ecco, questo è ciò che loro chiamano "mancanza di governabilità”, di capacità di governare la società.
Huntington usa una frase oltremodo significativa: questa società è malata di mancanza di autorità, si schiera a favore dell’umanità, quindi contro la guerra in Vietnam, contro l’autorità. Si tratta di fare in modo che la società torni a rispettare l’autorità. Quindi governability sta per autority over society. Come? Cambiando i sistemi costituzionali dove possibile. Ecco, di lì nasce l’idea che tutti i paesi del sud dell’Europa, che sono i più turbolenti, perché sono quelli nati in reazione al fascismo e che quindi hanno scelto una democrazia troppo orizzontale, troppo assemblearistica, troppo partecipata, devono cambiare.
L’obiettivo è quello di arrivare a forme di democrazie minime, o minimaliste, come la chiamano, nelle quali il cittadino è come il cliente che va al mercato e chiede quello e quell’altro. E se non va al mercato è perché non ha bisogno di comprare niente, ha tutto in casa. Quindi la partecipazione è un riconoscimento che le cose non vanno tanto bene. Se noi cittadini fossimo davvero soddisfatti non andremmo nemmeno a votare. Ci vuole un poco di apatia; questo è segno di stabilità e buon funzionamento. Se partecipiamo in troppi è segno che le cose non funzionano bene. Quindi troppa democrazia è segno di disfunzione, non segno di salute. La buona democrazia è quella nella quale di democrazia ce n’è poca, c’è solo un momento elettorale che designa tutto. La democrazia delegata è il modello della governabilità.
Noi oggi siamo qui. Oggi grazie a questa riforma completiamo un processo di addomesticamento della democrazia per portarla a essere una democrazia esclusivamente elettorale nella quale l’apatia svolge una funzione di stabilità terapeutica. Ecco che allora la crisi dei partiti diventa funzionalissima.
I partiti come associazioni che vivono nella società e sono partecipati da iscritti sono continui bastoni fra le ruote. I loro compiti dovranno essere solo quelli di selezionare una classe dirigente e di gestire la distribuzione delle risorse per poter mantenere il loro stabile potere di notabili. Su una massa disorganizzata, oggi si dice "disintermediata”, il leader eserciterà le sue capacità plebiscitarie con grande facilità attraverso i media e ammasserà un potere (e una corruzione) grande. I cittadini manterranno un unico potere, quello di dire "sì” o "no”, ogni cinque anni, in elezioni che saranno delle specie di plebisciti. Per il resto, tra un’elezione e l’altra, apatia. Sarà questa la democrazia, la democrazia non sarà che un governo di aristocrazie elettive, o elette. Che poi tutto questo porti veramente a una società pacificata è un altro discorso.