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L’apologia del berlusconismo - malattia senile del cattolicismo (laico e religioso)

UNA LEZIONE TEOLOGICO-POLITICA DI BAGET BOZZO SU OGNI PROGETTO DI "RIFONDAZIONE COMUNISTA" FUTURA CHE SI VUOLE COME PARTITO. Avanti o popolo alla riscossa. Il populismo trionferà: "Forza Italia"!!! - con una nota di Federico La Sala

domenica 27 luglio 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] Don Giuseppe Dossetti disse che, con la Costituzione del ‘48, il popolo italiano aveva abbandonato il suo potere costituente, Berlusconi mostrò che non era così e si pose come alternativa alla Costituzione del ‘48, entrando in conflitto con tutti i poteri di garanzia dal Quirinale, alla Corte Costituzionale, al Csm. Toccò così un difetto essenziale della Costituzione del ‘48: quello di fondare i poteri di garanzia e non quelli di governo.
Sovranità popolare contro Costituzione (...)

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> LEZIONE TEOLOGICO-POLITICA DI BAGET BOZZO. Avanti o popolo alla riscossa. Il populismo trionferà --- La "go­ver­na­bi­li­ty" - La democrazia apatica. Interv. a Nadia Urbinati (di Gianni Saporetti).

lunedì 3 ottobre 2016

      • Intervista a Nadia Urbinati
        -  LA DEMOCRAZIA APATICA
        -  realizzata da Gianni Saporetti

Quin­di an­che tut­ta la mo­da­li­tà con cui si è ar­ri­va­ti al re­fe­ren­dum è di­scu­ti­bi­le. Ba­ste­reb­be pen­sa­re al fat­to che a de­ci­de­re un cam­bia­men­to co­sì va­sto del­la Co­sti­tu­zio­ne è sta­to un par­la­men­to vi­zia­to da un pre­mio di mag­gio­ran­za giu­di­ca­to in­co­sti­tu­zio­na­le. E non si di­ca che il re­fe­ren­dum as­sol­ve que­sto pec­ca­to per­ché è pu­ra de­ma­go­gia. E co­sì, poi, il pre­ce­den­te di­ven­ta mol­to gra­ve...

È chia­ro che l’art. 138 del­la Co­sti­tu­zio­ne dà la pos­si­bi­li­tà di fa­re re­vi­sio­ni del­la Co­sti­tu­zio­ne, pe­rò par­la di re­vi­sio­ni, per­ché pre­su­me­va al­la Co­sti­tuen­te che gli in­ter­ven­ti sul­la Co­sti­tu­zio­ne fos­se­ro set­to­ria­li, le­ga­ti a que­sto o quel­l’al­tro ar­ti­co­lo. Ce ne so­no sta­te tan­te dal 1948 di re­vi­sio­ni. Una del­le ul­ti­me, ri­le­van­te e am­pia, è sta­to il Ti­to­lo quin­to, un’a­pri­pi­sta di que­sta ri­for­ma ma­sto­don­ti­ca.

La Ren­zi-Bo­schi non è una re­vi­sio­ne, quin­di pre­su­mi­bil­men­te an­che chi va a vo­ta­re per il sì e per il no, par­te­ci­pe­rà non a un re­fe­ren­dum, ma a un ve­ro e pro­prio ple­bi­sci­to. Per ne­ces­si­tà del­le co­se, per­ché non può es­se­re che si dà un sì o un no a tut­ti i 47 ar­ti­co­li. Per­ché su al­cu­ni uno può tro­va­re un sen­so, su al­tri no, e in­ve­ce ci si chie­de di com­pra­re a sca­to­la chiu­sa tut­to. In real­tà, al­lo­ra, ci si chie­de un vo­to di fi­du­cia al lea­der. In­som­ma, che ora Ren­zi di­ca di non vo­ler met­te­re più la fac­cia e met­ta in sce­na que­sto am­ba­ra­dan di fal­sa umil­tà, non cam­bia nul­la per­ché in real­tà la ri­for­ma è co­sì este­sa che non può che ave­re un "sì” o un "no” iden­ti­fi­ca­to con lui per ne­ces­si­tà; per­ché pro­por­ci di cam­bia­re 47 ar­ti­co­li con un sì o un no, si­gni­fi­ca chie­der­ci non già di giu­di­ca­re il con­te­nu­to di quel cam­bia­men­to, ma di vo­ta­re sul­la nuo­va vi­sio­ne di Co­sti­tu­zio­ne. Quin­di noi espri­mia­mo fi­du­cia in chi ci fa que­sta pro­po­sta, non nel­la pro­po­sta me­de­si­ma. Un sì o un no su 47 ar­ti­co­li vuol di­re que­sto. Non è lui che fa del ple­bi­sci­ta­ri­smo, è la strut­tu­ra me­de­si­ma del­la sua pro­po­sta di ri­for­ma che lo com­por­ta, per ne­ces­si­tà. Non rac­con­tia­mo­ci bal­le.

Il lo­ro gran­de ar­go­men­to è quel­lo del­la go­ver­na­bi­li­tà...

Si può ave­re una ri­for­ma nel­la qua­le ol­tre al­la rap­pre­sen­tan­za no­stra sia an­che ga­ran­ti­ta la no­stra ca­pa­ci­tà di go­ver­no? Ma cer­to, per­ché le de­mo­cra­zie vo­glio­no co­strui­re mag­gio­ran­ze, non mi­no­ran­ze, ov­vio che sia co­sì. Tut­ta­via in tut­ti i pae­si do­ve ci so­no si­ste­mi che con­sen­to­no al­le mag­gio­ran­ze di go­ver­na­re con con­ti­nui­tà e per il pe­rio­do in cui la le­gi­sla­zio­ne fun­zio­na, ci so­no dei si­ste­mi di con­trol­lo straor­di­na­ri, isti­tu­zio­na­li ed ex­trai­sti­tu­zio­na­li. L’ul­ti­ma bou­ta­de del no­stro lea­der è sta­ta: "An­che noi co­me la Gran Bre­ta­gna”. Per ri­bat­te­re ba­ste­reb­be ri­cor­dar­gli so­lo che la Gran Bre­ta­gna ha la Bbc, la qua­le non di­pen­de dal­la mag­gio­ran­za par­la­men­ta­re e quin­di dal par­ti­to di go­ver­no o dal go­ver­no; è com­ple­ta­men­te in­di­pen­den­te, quin­di è un po­te­re ve­ra­men­te au­to­no­mo. Da noi il si­ste­ma del­l’in­for­ma­zio­ne è in ma­no al­la mag­gio­ran­za.

In real­tà si sta pre­pa­ran­do un ac­cu­mu­lo di po­te­ri ta­li, isti­tu­zio­na­li ed ex­trai­sti­tu­zio­na­li, che in teo­ria po­treb­be ren­de­re le mag­gio­ran­ze gra­ni­ti­che per lun­ghi an­ni. D’al­tra par­te noi an­dia­mo di ven­ten­nio in ven­ten­nio, que­sta è la real­tà. C’è for­tis­si­ma l’i­dea del­l’uo­mo del­la prov­vi­den­za che ge­sti­sce il tea­tro del­la po­li­ti­ca ita­lia­na. è una vi­sio­ne pa­pa­le del­la po­li­ti­ca. Sia­mo in Ita­lia, nel pae­se del­la cat­to­li­ci­tà di si­ste­ma, abi­tua­ti a dif­fi­da­re di una de­mo­cra­zia sen­za ca­po.

Ma qui non si tor­na al pro­ble­ma dei par­ti­ti che non ci so­no più?

Si ar­ri­va lì, cer­to. Il pro­ble­ma pe­rò è che i se­gua­ci del­la Se­con­da Re­pub­bli­ca, e an­che qui sia­mo nel­la tra­di­zio­ne, nu­tro­no una re­pul­sio­ne for­tis­si­ma ver­so i par­ti­ti po­li­ti­ci e il plu­ri­par­ti­ti­smo. Li odia­no per­ché li iden­ti­fi­ca­no con le fa­zio­ni, par­ti che ge­sti­sco­no il tut­to, ec­ce­te­ra, ec­ce­te­ra. Ai tem­pi del­la Co­sti­tuen­te lo chia­ma­va­no il Cln-ismo, una com­but­ta di par­ti­ti che scri­ve­va la Co­sti­tu­zio­ne... Que­sto fu il pri­mo ar­go­men­to di Lu­ci­fe­ro ma an­che di Ma­ra­ni­ni, uno dei pri­mi a scri­ve­re con­tro la de­mo­cra­zia dei par­ti­ti, chia­man­do­la "par­ti­to­cra­zia”. E que­sto lo ve­dia­mo an­che og­gi, so­lo che a par­la­re con­tro i par­ti­ti so­no i lo­ro stes­si ca­pi: "La ri­for­ma to­glie­rà i sol­di ai par­ti­ti”, "Le pol­tro­ne a cui so­no at­tac­ca­ti i po­li­ti­ci”, "I pic­co­li par­ti­ti­ni” co­sì dan­no­si... tut­to que­sto ar­go­men­ta­re po­pu­li­sta che or­mai è di­la­gan­te, è na­to e na­sce co­sì, in odio ai par­ti­ti.

In­ve­ce la no­stra Co­sti­tu­zio­ne è mol­to chia­ra e co­sì la stes­sa con­ce­zio­ne del­la de­mo­cra­zia rap­pre­sen­ta­ti­va: sen­za i par­ti­ti non c’è de­mo­cra­zia rap­pre­sen­ta­ti­va, ci so­no for­me sen­z’al­tro di de­mo­cra­zia de­le­ga­ta, di­cia­mo, go­ver­na­ti­va, ma la de­mo­cra­zia dei par­ti­ti è quel­la che ci con­sen­te co­me cit­ta­di­ni di in­flui­re nel­la co­stru­zio­ne di stra­te­gie o nel­la co­stru­zio­ne di pro­get­ti, di con­trol­la­re, di de­ci­de­re an­che chi an­drà in par­la­men­to. I par­ti­ti so­no fon­da­men­ta­li, sen­za di lo­ro la de­mo­cra­zia rap­pre­sen­ta­ti­va è un cu­mu­lo di vo­ti o di non vo­ti, sen­za al­cu­na pos­si­bi­li­tà di con­trol­lo, ed è quel­lo che sta suc­ce­den­do. Noi sia­mo uno "sta­bi­li­men­to di vo­ti”, elet­to­ra­li­sti­co, con una pro­du­zio­ne di ele­zio­ni, pri­ma­rie o non pri­ma­rie, sen­za al­cu­na pos­si­bi­li­tà di con­ta­re. Per­ché que­sto è. Quin­di un an­ti­par­ti­ti­smo pro­fon­do che ci por­ta a vo­ler­ne me­no, po­chi, il ca­po che ci go­ver­na ne vor­reb­be al mas­si­mo due, ma se po­tes­se ne fa­reb­be uno so­lo...

Mi sa che ci ha an­che pro­va­to, con il par­ti­to as­so pi­glia­tut­to...

Ci ha pro­va­to. E pe­rò con una vi­sio­ne che se non è in­ge­nua, è dav­ve­ro in ma­la­fe­de. Per­ché an­che que­sta idea di ri­for­ma elet­to­ra­le, che do­vreb­be crea­re il par­ti­to del­la mag­gio­ran­za, il par­ti­to che go­ver­na, per­ché a lui in­te­res­sa so­lo que­sto, è un’il­lu­sio­ne. Un par­ti­to uni­co che go­ver­na con una gran­de mag­gio­ran­za, che dal­la se­ra del­le ele­zio­ni può de­ci­de­re tut­to, non sa­rà mai omo­ge­neo ed è ov­vio che se vuoi te­ne­re la mag­gio­ran­za sa­rai sem­pre sot­to ri­cat­to pe­ren­ne di ogni ti­po di fa­zio­ne in­ter­na. Que­ste con­te­ran­no mol­to di più. Al­tro che in­ciu­ci, quin­di. Og­gi il ri­cat­to è evi­den­te, lo fa un Ver­di­ni che sta fuo­ri, poi sa­rà den­tro e nes­su­no ve­drà più nul­la. In real­tà il lea­der ter­rà Pa­laz­zo Chi­gi, ma per te­ne­re il par­ti­to di mag­gio­ran­za avrà sem­pre dei pro­ble­mi, per­ché que­sto fa par­te del­la tran­si­zio­ne po­li­ti­ca in tut­te le de­mo­cra­zie. La po­li­ti­ca è fat­ta di trat­ta­ti­ve do­po­tut­to.

Ma sul­la que­stio­ne del­la go­ver­na­bi­li­tà, che or­mai è un mi­to, vor­rei di­re an­co­ra qual­co­sa, per­ché l’u­so che se ne fa è ve­ra­men­te di­so­ne­sto.

La pa­ro­la go­ver­na­bi­li­ty è un con­cet­to che vie­ne svi­lup­pa­to ne­gli an­ni Set­tan­ta in un grup­po di pres­sio­ne in­ter­na­zio­na­le che è la Tri­la­te­ral, la Com­mis­sio­ne tri­la­te­ra­le. Sia­mo nel pe­rio­do del­la guer­ra del Viet­nam e per rea­zio­ne al­la so­cie­tà de­gli an­ni Set­tan­ta, sen­za au­to­ri­tà, si for­ma un think tank, che ha se­de a Wa­shing­ton, che ha fra i suoi più im­por­tan­ti rap­pre­sen­tan­ti Mi­chel Cro­zier, Sa­muel P. Hun­ting­ton e Jo­ji Wa­ta­nu­ki. È co­strui­ta dai pae­si del­l’Al­lean­za atlan­ti­ca, da quei pae­si che han­no vin­to la Se­con­da guer­ra mon­dia­le non so­lo con­tro i na­zi­fa­sci­sti, ma an­che con­tro i so­vie­ti­ci (le bom­be ato­mi­che, lo sap­pia­mo, fu­ro­no fat­te esplo­de­re con­tro i so­vie­ti­ci). Quin­di i pae­si del­l’Al­lean­za atlan­ti­ca pro­du­co­no que­sto co­mi­ta­to di stu­dio che ha il com­pi­to di ana­liz­za­re, a ven­t’an­ni dal­la fi­ne del­la Se­con­da guer­ra mon­dia­le, lo "sta­to del­la de­mo­cra­zia” in tut­ti quei pae­si in cui i mo­vi­men­ti stan­no at­tac­can­do i par­ti­ti. Sul­l’on­da del ’68-’69. In­co­min­cia­no que­sto la­vo­ro di ri­cer­ca in tut­ti i pae­si del bloc­co atlan­ti­co.

Al­la fi­ne di un’a­na­li­si che vie­ne ef­fet­tua­ta mol­to ca­pil­lar­men­te, con dei rap­pre­sen­tan­ti pae­se per pae­se (in Ita­lia i rap­pre­sen­tan­ti che se­de­va­no in que­sto Tri­la­te­ral Com­mit­tee era­no Agnel­li, La Mal­fa e Gui­do Car­li) pub­bli­ca­no un uni­co gran­de do­cu­men­to in­ti­to­la­to pro­prio "The cri­sis of de­mo­cra­cy”. Per­ché cri­si del­la de­mo­cra­zia? Per­ché è in cri­si la go­ver­na­bi­li­tà. Ma co­sa vuol di­re go­ver­na­bi­li­ty? Non è il go­ver­no. È la ca­pa­ci­tà del­lo Sta­to di go­ver­na­re ov­ve­ro do­ma­re la so­cie­tà. La so­cie­tà bi­so­gna che sia go­ver­na­ta. Una so­cie­tà che pro­du­ce mo­vi­men­ti, as­so­cia­zio­ni che chie­do­no al­lo sta­to e a cui lo sta­to de­ve ri­spon­de­re se vuo­le man­te­ne­re la pa­ce so­cia­le, que­sta per­ma­nen­te ri­chie­sta al­lo sta­to e al­tret­tan­to per­ma­nen­te ri­spo­sta del­lo sta­to, por­ta a una so­cie­tà in per­ma­nen­te cri­si di go­ver­na­bi­li­tà. La so­cie­tà, cioè, è trop­po par­te­ci­pa­ta, trop­po vo­cian­te, vuo­le, pro­po­ne, cri­ti­ca, in una pa­ro­la dia­lo­ga con lo Sta­to. Quin­di que­sto fi­ni­sce per non es­se­re au­to­no­mo dal­la so­cie­tà. Ec­co, que­sto è ciò che lo­ro chia­ma­no "man­can­za di go­ver­na­bi­li­tà”, di ca­pa­ci­tà di go­ver­na­re la so­cie­tà.

Hun­ting­ton usa una fra­se ol­tre­mo­do si­gni­fi­ca­ti­va: que­sta so­cie­tà è ma­la­ta di man­can­za di au­to­ri­tà, si schie­ra a fa­vo­re del­l’u­ma­ni­tà, quin­di con­tro la guer­ra in Viet­nam, con­tro l’au­to­ri­tà. Si trat­ta di fa­re in mo­do che la so­cie­tà tor­ni a ri­spet­ta­re l’au­to­ri­tà. Quin­di go­ver­na­bi­li­ty sta per au­to­ri­ty over so­cie­ty. Co­me? Cam­bian­do i si­ste­mi co­sti­tu­zio­na­li do­ve pos­si­bi­le. Ec­co, di lì na­sce l’i­dea che tut­ti i pae­si del sud del­l’Eu­ro­pa, che so­no i più tur­bo­len­ti, per­ché so­no quel­li na­ti in rea­zio­ne al fa­sci­smo e che quin­di han­no scel­to una de­mo­cra­zia trop­po oriz­zon­ta­le, trop­po as­sem­blea­ri­sti­ca, trop­po par­te­ci­pa­ta, de­vo­no cam­bia­re.

L’o­biet­ti­vo è quel­lo di ar­ri­va­re a for­me di de­mo­cra­zie mi­ni­me, o mi­ni­ma­li­ste, co­me la chia­ma­no, nel­le qua­li il cit­ta­di­no è co­me il clien­te che va al mer­ca­to e chie­de quel­lo e quel­l’al­tro. E se non va al mer­ca­to è per­ché non ha bi­so­gno di com­pra­re nien­te, ha tut­to in ca­sa. Quin­di la par­te­ci­pa­zio­ne è un ri­co­no­sci­men­to che le co­se non van­no tan­to be­ne. Se noi cit­ta­di­ni fos­si­mo dav­ve­ro sod­di­sfat­ti non an­drem­mo nem­me­no a vo­ta­re. Ci vuo­le un po­co di apa­tia; que­sto è se­gno di sta­bi­li­tà e buon fun­zio­na­men­to. Se par­te­ci­pia­mo in trop­pi è se­gno che le co­se non fun­zio­na­no be­ne. Quin­di trop­pa de­mo­cra­zia è se­gno di di­sfun­zio­ne, non se­gno di sa­lu­te. La buo­na de­mo­cra­zia è quel­la nel­la qua­le di de­mo­cra­zia ce n’è po­ca, c’è so­lo un mo­men­to elet­to­ra­le che de­si­gna tut­to. La de­mo­cra­zia de­le­ga­ta è il mo­del­lo del­la go­ver­na­bi­li­tà.

Noi og­gi sia­mo qui. Og­gi gra­zie a que­sta ri­for­ma com­ple­tia­mo un pro­ces­so di ad­do­me­sti­ca­men­to del­la de­mo­cra­zia per por­tar­la a es­se­re una de­mo­cra­zia esclu­si­va­men­te elet­to­ra­le nel­la qua­le l’a­pa­tia svol­ge una fun­zio­ne di sta­bi­li­tà te­ra­peu­ti­ca. Ec­co che al­lo­ra la cri­si dei par­ti­ti di­ven­ta fun­zio­na­lis­si­ma.

I par­ti­ti co­me as­so­cia­zio­ni che vi­vo­no nel­la so­cie­tà e so­no par­te­ci­pa­ti da iscrit­ti so­no con­ti­nui ba­sto­ni fra le ruo­te. I lo­ro com­pi­ti do­vran­no es­se­re so­lo quel­li di se­le­zio­na­re una clas­se di­ri­gen­te e di ge­sti­re la di­stri­bu­zio­ne del­le ri­sor­se per po­ter man­te­ne­re il lo­ro sta­bi­le po­te­re di no­ta­bi­li. Su una mas­sa di­sor­ga­niz­za­ta, og­gi si di­ce "di­sin­ter­me­dia­ta”, il lea­der eser­ci­te­rà le sue ca­pa­ci­tà ple­bi­sci­ta­rie con gran­de fa­ci­li­tà at­tra­ver­so i me­dia e am­mas­se­rà un po­te­re (e una cor­ru­zio­ne) gran­de. I cit­ta­di­ni man­ter­ran­no un uni­co po­te­re, quel­lo di di­re "sì” o "no”, ogni cin­que an­ni, in ele­zio­ni che sa­ran­no del­le spe­cie di ple­bi­sci­ti. Per il re­sto, tra un’e­le­zio­ne e l’al­tra, apa­tia. Sa­rà que­sta la de­mo­cra­zia, la de­mo­cra­zia non sa­rà che un go­ver­no di ari­sto­cra­zie elet­ti­ve, o elet­te. Che poi tut­to que­sto por­ti ve­ra­men­te a una so­cie­tà pa­ci­fi­ca­ta è un al­tro di­scor­so.

(a cu­ra di Gian­ni Sa­po­ret­ti)


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