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Sul filo del messaggio evangelico, di Gioacchino da Fiore, Francesco d’Assisi e Dante Alighieri....

PAVEL FLORENSKIJ. LE PORTE REGALI - ICONOSTASI. Una recensione di Michele Dolz di una nuova e più completa versione dell’opera del pensatore russo - a cura di Federico La Sala

domenica 27 luglio 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] Giuseppina Giuliano appronta una nuova versione in base alla ricostruzione integrale del testo russo di Iconostasi
pubblicato nel 1994. Sì, perché quest’opera, che l’autore non vide mai stampata, è un singolare puzzle di vari testi, a loro volta soggetti a una non facile storia critica. Per la prima volta in Italia, quindi, quel che si può ritenere il vero e completo scritto di Florenskij. Non solo: le ultime edizioni critiche russe delle altre
opere del pensatore permettono di (...)

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> PAVEL FLORENSKIJ. LE PORTE REGALI - ICONOSTASI. ---- L’arte del cuore puro per il volto dell’invisibile (di Heinrich Pfeiffer).

sabato 13 dicembre 2008

Le icone e le beatitudini

L’arte del cuore puro per il volto dell’invisibile

Nel pomeriggio di sabato 13 dicembre nella sede de "La Civiltà Cattolica" a Roma viene presentato il dodicesimo volume Il volto dei volti, Cristo (Gorle, Velar, 2008, pagine 328), atti del congresso internazionale tenutosi lo scorso ottobre a cura dell’Istituto internazionale di ricerca sul volto di Cristo. Pubblichiamo stralci di uno dei saggi contenuti nel volume.

di Heinrich Pfeiffer *

I maestri greci non solo sono coloro che hanno insegnato ai veneziani e ad altri artisti europei occidentali, ma hanno anche sviluppato l’arte delle icone. E in quest’arte furono i maestri dei popoli slavi. Presso di loro l’arte delle icone è diventata l’esercizio di una delle beatitudini, quella del cuore puro che vedrà Dio. Particolarmente i russi hanno capito che il compito del pittore delle icone è far vedere Dio e i santi nella loro gloria ai fedeli cristiani ortodossi. Si può definire l’arte delle icone come l’arte del cuore puro. Nel tempo classico delle icone russe, cioè tra il Trecento e il Cinquecento, sono stati soprattutto i monaci che hanno coltivato la pittura delle icone, e a questi monaci fu dato il compito di ricevere nel loro cuore l’immagine di Gesù Cristo per poterla restituire poi con il mezzo della pittura ai fedeli. Consapevole di ciò, il pittore delle icone deve rinunciare a tutta la propria fantasia e seguire i modelli canonici, senza imitarli solo dall’esterno, creando qualcosa che nell’arte occidentale è caratterizzato dal concetto della "copia fedele" di un originale. Non fa copie di altri originali, ma si sforza di esprimere le fattezze di persone non visibili anche se presenti nella loro gloria.

Il pittore di icone deve pregare molto e digiunare, e ogni passo sin dal momento in cui ha iscritto con la punta di un ferro le linee esterne nello sfondo di pozzolana bianca deve essere accompagnato da esercizi spirituali e ascetici. Inoltre, ogni livello di stesura dei colori deve rimanere trasparente come l’anima di chi ha il cuore puro. Deve dare vita e anima alle sue figure, sempre in trasparenza verso Dio.

Facciamo un esempio: l’icona del Mandilion del xiv secolo. Custodito nel Museo Tretjakov a Mosca, fu dipinto in un convento della città o dei suoi dintorni. La prima cosa che colpisce l’osservatore sono gli occhi penetranti in un volto delicatamente modellato su uno sfondo d’oro a strisce rosse. Questo Cristo ha un aspetto severo e misericordioso nel contempo. La bocca piccola, quasi totalmente chiusa, sottolinea l’enorme silenzio che esprime questo volto. "È colui che è" (Esodo, 3, 24), come sta scritto sul nimbo cruciforme. Il naso è dritto, lungo nel suo disegno, la fronte rotonda e circondata dai capelli scuri che creano quasi una seconda aureola dello stesso spessore del nimbo. Tutte queste forme hanno qualche cosa di assoluto, di definitivo e lontano dai volti umani comuni. Solo le guance sono trattate con estrema finezza vitale e tenera, e sottolineano così la natura umana di Cristo.

Le beatitudini non sono facilmente traducibili nella scrittura universalmente leggibile dell’arte figurativa. Queste frasi nella loro formulazione, sia in Matteo sia in Luca, sono troppo programmatiche: troppo lapidarie perché l’arte cristiana possa ispirarsi a esse. Abbiamo potuto trovare solo un’eccezione: tutta l’arte delle icone presuppone la beatitudine del cuore puro, esprime questa beatitudine. Fare di una delle beatitudini in quanto tali un soggetto artistico fu possibile solo tramite l’identificazione di ciascuna beatitudine con una virtù. Queste possono essere espresse nell’arte allegoricamente come persone umane, tramite personificazioni concrete di concetti astratti.

Perché l’arte cristiana non ha potuto ispirarsi quasi mai alle beatitudini? Non dobbiamo solamente porci questa domanda alla fine del nostro breve studio, ma dobbiamo anche cercare qualche risposta. Le beatitudini sono promesse per un tempo futuro, per un tempo in cui il regno dei cieli irromperà in questa terra. Le beatitudini si realizzano solo nell’aldilà nella loro pienezza. All’uomo manca la fantasia per rappresentarsi tali promesse già nell’oggi. Il fatto che l’arte non si sia occupata sufficientemente delle beatitudini indica che manca ancora qualcosa al cristianesimo, che non si è ancora realizzato, nonostante tanti personaggi veramente santi nel percorso della storia.

Come si può descrivere questa cosa? Non ha vissuto san Francesco la beatitudine della povertà in spirito? Perché l’arte non ha potuto esprimerla con tanti volti di san Francesco, con tante rappresentazioni delle vicende della sua vita? Le beatitudini non sono semplicemente delle virtù. Queste si possono trovare nelle vite dei santi, queste si possono raccontare ricordandosi degli eventi significativi. Le virtù non contengono una promessa imponderabile e definitiva come le beatitudini. Le promesse contenute nelle beatitudini evangeliche contrastano talmente con le consuetudini degli uomini, anche dei migliori, che difficilmente si trova un modello di beatitudine già realizzata.

Se uno ha vissuto una beatitudine. per esempio "Beati coloro che sono tristi. Perché saranno consolati", e racconta questa sua esperienza divina cui si riferisce un momento molto significativo della sua vita, come può trovare le parole adatte per un tale racconto? Io personalmente sono passato improvvisamente dalla tristezza alla gioia, magari davanti alla tomba di un mio caro. Quali colori e quali forme possono tradurre una tale esperienza veramente cristiana in un linguaggio di arte figurativa? Come si può mostrare questo messaggio, così da convincere molti che i miti possederanno la terra? Come si possono trovare i mezzi espressivi per una cosa tale che per l’uomo di tutti i tempi deve sembrare un’assurdità?

Mi pare che ci sia solo una soluzione dei nostro problema: la vita rinnovata di molti cristiani che faranno sempre più esperienze con le beatitudini. Solo in seguito, quando gli artisti avranno vissuto in contatto non solo con alcune persone sante, ma con gruppi che crescono sempre di più, gruppi che hanno fatto delle beatitudini il programma della loro vita, essi potranno forse esprimerle con i loro mezzi artistici.

Allora si deve definire l’arte che sappia ispirarsi alle beatitudini, l’arte cristiana del futuro, un’arte che non esiste ancora, perché le beatitudini sono vissute troppo sporadicamente, e senza che la loro diffusione possa cambiare la società. Davanti ai cristiani si apre così l’orizzonte di una vita continuamente rinnovata attraverso comuni esperienze di promesse contenute nelle beatitudini. L’arte avrà compito di diffondere tali esperienze, di convincere quante più persone possibili, con i mezzi della bellezza, del fatto che le beatitudini con le loro promesse sono l’unica verità che rimane per sempre.

*

(©L’Osservatore Romano - 14 dicembre 2008)


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