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Editoriale

L’essenza della democrazia. Una nota su amici di Bruno Contrada che tacciono sopra i fatti, dimostrando di non avere argomenti, al di fuori di puerili giochi pretestuosi

martedì 5 agosto 2008 di Emiliano Morrone
On-line un pezzo di Aldo Pecora su Bruno Contrada, il nostro giornale ha ricevuto messaggi da persone vicine all’ex poliziotto.
Ne abbiamo accolto molti e rifiutati pochi, nonostante strumentalmente strutturati: con inesattezze sulla condanna dell’ex agente segreto, divagazioni sull’omicidio di Cogne e impropri rinvii a vicende utili a generare il sospetto che certa magistratura agisca per teoremi e fini politici.
Ogni redazione è sovrana, e per questo decide se pubblicare o meno un (...)

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> L’essenza della democrazia. Una nota su amici di Bruno Contrada che tacciono sopra i fatti, dimostrando di non avere argomenti, al di fuori di puerili giochi pretestuosi

giovedì 31 luglio 2008

SIATE UOMINI... E PUBBLICATE QUESTA...

Teoricamente, stando alle raccomandazioni di pubblicazione...questo documento riporta fatti specifici ed è un’intervista di Bruno Contrada a Panorama. Che fate...censurate anche questa in nome della democrazia, della chiarezza, della corretta informazione e della deontologia che dovrebbe vincolarvi? Eccola. La pubblicazione vi restituisce credibilità

pubblicata su Panorama ed a firma di Gianluigi Nuzzi: “Accetterei la grazia dal presidente della Repubblica solo se non fosse chiesta dai miei familiari. La grazia è un atto politico, che leggo come riparatorio dello Stato dopo quanto accaduto”. Del supersbirro Bruno Contrada, 77 anni, non rimane nemmeno il fantasma. Meno 11 chili in poche settimane. Un fantoccio che si trascina ricurvo sui suoi segreti nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere. Un corpo prima consumato dalle accuse di 14 pentiti, poi asciugato dalle degenerazioni del diabete e dell’ischemia. Ancora, prostrato dagli scontri sferzanti degli ultimi giorni con i parenti di chi lottando contro la mafia è finito ammazzato. Parenti dai cognomi di peso, Caponnetto, Borsellino, che dopo la condanna a 10 anni della Cassazione ritagliano su Contrada la divisa infame del poliziotto svenduto a Cosa nostra. Né pena né clemenza, né grazia né indulgenza. È il partito trasversale del dolore. Di chi ha perso il proprio caro in quella guerriglia confusa degli anni Novanta tra Stato e Cosa nostra, sì, ma non solo. Totò Riina e Bernardo Provenzano protetti da pezzi delle istituzioni, scontri intestini che erodono l’antimafia, la gestione dei pentiti diviene opaca. Difficile collocare quindi Contrada con certezza. Fino a metà degli anni Settanta era un brillante poliziotto, 60 encomi ricevuti dalla Polizia e 95 dal Sisde, un centinaio gli uomini delle istituzioni che l’hanno poi difeso al processo. Poi sarebbe passato con la mafia. Senza movente accertato: sui suoi conti non è mai stato trovato denaro sospetto. Dopo i pentiti e i giudici di Palermo, ora l’accusano anche i parenti delle vittime di mafia. Tutti contro la sola ipotesi di grazia. Le dichiarazioni negative provengono da persone che non hanno alcuna conoscenza dei fatti che hanno portato alla mia vicenda giudiziaria, che ormai data a 16 anni fa. Parlo di Rita Borsellino, a maggior ragione della vedova del consigliere Antonino Caponnetto, che forse nemmeno sapeva chi era Contrada. Bisognerebbe che altri parlassero. Cioè? Non capisco perché i Borsellino ce l’abbiano con me. Chiedano ai familiari di Rocco Chinnici, mio amico, e del collega Boris Giuliano, ucciso nel 1979 dalla mafia. Lui per me non era un amico, ma un fratello. Per 16 anni abbiamo lavorato giorno e notte insieme, a gomito a gomito. Ed è proprio a Borsellino che presentai il mio rapporto indicando i nomi degli assassini. Forse questo i parenti di Borsellino non lo sanno. Paolo Borsellino lo lesse e lo fece proprio apprezzando tra l’altro il fatto che io non essendo più alla polizia giudiziaria non ero tenuto a redigerlo. I familiari di Borsellino replicano sostenendo che con il giudice non eravate amici, né lei era un suo collaboratore. Non avevamo rapporti privati d’amicizia, ma ottimi rapporti professionali quando lui era giudice istruttore a Palermo e io capo della Criminalpol. Quando il 7 febbraio 1981 gli arriva sul tavolo il mio rapporto sull’omicidio Giuliano, dispone subito 15 o 20 mandati di cattura dei 35 mafiosi che io denunciavo nell’atto e che costituivano lo zoccolo duro dei corleonesi. Tra questi ben sei appartenenti alla famiglia Marchese, ovvero padre, zii e cugini di quel Giuseppe Marchese che poi fu uno dei primi pentiti ad accusarmi. Nel mandato di cattura sempre Borsellino indica come accusa anche le minacce di morte nei miei confronti. Come al processo, anche oggi il suo caso divide. Tra i familiari, in diversi l’hanno difesa, come Michele Costa, figlio del procuratore della Repubblica ucciso a Palermo nel 1980. Mi sostiene perché sa che l’unico rapporto giudiziario sull’omicidio del padre lo svolsi io per il procuratore capo di Catania. Anche sua madre, Rita Bartoli Costa, icona dell’antimafia in Sicilia, durante il dibattimento attraversò l’aula e venne a stringermi la mano senza guardare in faccia i pm. Si è anche detto che non bisogna concedere la grazia a un condannato per mafia. C’è un principio che stabilisce che i cittadini sono tutti uguali di fronte allo Stato, non vedo perché non si possa concedere la grazia a chi è stato condannato per mafia. Io la accetterei, sempre se non fosse presentata dai miei parenti, perché avrebbe comunque un significato diverso dalla concessione di un beneficio. L’accetterei come esito di una valutazione di dovuto atto riparatorio a fronte di una grave ingiustizia subita. Io voglio una riparazione da parte dello Stato perché non ho commesso nemmeno gli estremi integranti la violazione del Codice della strada. Insomma, innocente su tutta la linea. Io non mi considero innocente perché lego sempre questa parola ai bambini o gli do un significato religioso. Io sono “non colpevole” oppure estraneo ai fatti che mi sono addebitati. Innocente è mio nipote e omonimo Bruno Contrada. Ha 2 anni: dal nonno in eredità riceverà un cognome ripulito dalle accuse più assurde. Eppure, un esercito di pentiti l’accusa di aver passato notizie essenziali ai mafiosi. Per anni. Li avvisava di blitz, perquisizioni e indagini, facendo sfuggire latitanti come Totò Riina. Le accuse dei pentiti sono come palle di neve. Nascono piccole e a valle diventano valanghe, intere montagne. Così un pentito tira l’altro per la cosiddetta convergenza del molteplice, dove la stessa balla se è detta da due pentiti diventa verità. Quando entri in questo meccanismo sei finito. Il primo ad accusarmi è Gaspare Mutolo. Apparteneva alla cosca Partanna Mondello di Rosario Riccobono, che ho perseguito più di ogni altro gruppo. Tommaso Buscetta sosteneva che era lei a passare le soffiate al boss Riccobono... Fra tutti i mafiosi che io ho trattato questa è la cosca che ho combattuto con maggior tenacia. Ho considerato sempre i mafiosi degli avversari, non dei nemici. Ma con la cosca di Riccobono era diverso. Avevano ammazzato un mio giovane collega napoletano, ucciso come un cane durante un servizio antiestorsioni. Era guerra. Ho portato in Corte d’assise Riccobono e Gaspare Mutolo con indagini svolte personalmente. Per poi vederli assolti dall’accusa di associazione mafiosa il 23 aprile 1977 per decisione di un giudice che ritroverò poi a condannarmi sostenendo che ero amico di Riccobono. La verità è un’altra: Contrada era il nemico giurato di Riccobono. Mutolo mi odiava, convinto che avessi dato ordine ai miei uomini di sparargli a vista come poi in effetti, per motivi di servizio, accadde in ben tre occasioni. Odio, nient’altro, ha prodotto il caso Contrada, con gente che si è persino uccisa. Cioè? Oltre me Mutolo ha accusato il pm Domenico Signorino, che condusse le indagini su di lui e che poi si è suicidato. Poi, proprio perché era necessaria la convergenza del molteplice, spunta Pino Marchese. Per capire chi è Marchese basti sapere che ha ammazzato un compagno di cella all’Ucciardone, a colpi di bistecchiera in testa. Marchese è quello che parla della mia presunta soffiata a Riina. Ma cambia versione: prima dice che Riina aveva lasciato il suo nascondiglio, la villa di Borgo Molara, perché temeva agguati nella guerra di mafia, poi cambia versione e dice che fui io ad avvisare. Secondo lei perché cambia versione? C’era un suggeritore. E chi era? Marchese era gestito dalla Dia. È un’accusa grave, Contrada. La mia storia è tutta così. Prendete un altro pentito, Francesco Marino Mannoia. Nell’aprile del 1993 parte lo staff della Dda di Palermo, Gian Carlo Caselli e altri pm, alla volta di New York per interrogare Mannoia sull’omicidio di Salvo Lima. Gli chiedono se ha qualcosa da dire su “Contrada, capo della polizia giudiziaria di Palermo”. Mannoia risponde che sa soltanto che Contrada era un funzionario di polizia e che non ha altro da aggiungere. Poco dopo Mannoia venne interrogato anche sulle stragi. Sì, da Giovanni Tinebra e i suoi pm che raggiungono gli Usa per sentire l’oracolo di Delfi. Poi gli chiedono di Contrada ma Mannoia dice che non gli risulta che avessi rapporti con loro. Bisogna aspettare il gennaio 1994 quando, poco prima del decreto di rinvio a giudizio, Mannoia decide di confermare le accuse degli altri pentiti, in concomitanza con il pagamento dello stipendio. Ma se si è pentito nel 1988, come mai mi accusa solo nel 1994? E quando gli vengono rivolte domande specifiche sul mio conto, perché tace? Come poteva dimenticarsi che il capo della polizia giudiziaria, non proprio l’ultimo poliziotto di Palermo, è colluso con Cosa nostra? Sa come spiegò la cosa in aula? “Non parlai a Caselli perché ero stanco e li mandai a fare in c...”. Questi sono i pentiti. Spesso portatori di menzogne. Spesso manovrati. Lei accusa la Dia perché furono proprio gli uomini di Gianni De Gennaro a raccogliere le prove contro di lei? No, dico solo che la Dia era agli inizi della sua formazione andando a sovrapporsi con il Sisde dove lavoravo .


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