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Geo-politica-mente...

L’ASIA E LA MARGINALIZZAZIONE DELL’OCCIDENTE. Una nota di Martin Jacques - a cura di Federico La Sala

giovedì 7 agosto 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] Il fatto che l’Occidente non sia stato in grado di cogliere le realtà geopolitiche dell’Asia orientale - oggi la più vasta regione economica del mondo - e adattare di conseguenza la sua politica, ha svelato come pregiudizi e atteggiamenti antiquati siano ancora, purtroppo, ben radicati. Anche quando la sola idea appare ridicola e impraticabile, il richiamo all’intervento militare da parte sia dei media che dei leader politici sembra essere l’unico riflesso possibile. In realtà, la (...)

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> Chi comanda a Pechino? ---- Hu Jintao si veste da Mao. Nella giacca del Timoniere un messaggio al Politburo (di Renata Pisu).

martedì 6 ottobre 2009


-  Cina, 60 anni di comunismo e Hu Jintao si veste da Mao
-  Pechino si ferma per la parata: "Il marxismo ci salverà"
*

Per celebrare i sessant’anni dalla nascita della Cina comunista, Hu Jintao si è travestito da Mao e ha rilanciato Marx. Il presidente della potenza capitalista che contende agli Stati Uniti la leadership del mondo nel nuovo secolo, di solito, ci tiene al suo aspetto da tecnocrate occidentale in giacca e cravatta. Ieri invece, a sorpresa, si è presentato sulla porta della Città Proibita con addosso la vecchia divisa in panno grigio di Sun Yatsen, padre della rivolta che pose fine alle dinastie imperiali. È l’uniforme adottata poi dai rivoluzionari rossi e indossata da Mao Zedong il primo ottobre 1949 sullo stesso loggiato della Pace Celeste. I vecchi funzionari del partito e i nuovi ricchi businessmen, soli invitati alla Grande Parata dell’Anniversario in piazza Tiananmen, hanno capito subito che questo travestimento a sorpresa anticipava il senso più profondo della decennale liturgia. Hu Jintao, esaurite le sessanta cannonate che hanno scosso una Pechino asserragliata in casa e incollata alla tivù, non ha indugiato a chiarire il messaggio.

Davanti ad una distesa muta di militari, volontari precettati, studenti, bambini e figuranti, ha passato in rassegna il nuovo arsenale atomico "made in China" a bordo di una limousine "Bandiera rossa" e gridando «forza compagni».

In sette minuti di discorso, mentre la tempesta chimica dell’aeronautica scioglieva le ultime nuvole sopra la capitale, ha spiegato che «solo il socialismo può salvare la Cina» e che «le riforme e le aperture possono assicurare lo sviluppo del Paese, del socialismo e del marxismo».

Alcuni diplomatici occidentali, forse frettolosi, l’hanno immediatamente soprannominato il Sessantesimo di "Mao Jintao". Proseguendo a leggere, Hu ha ricordato che il «socialismo alla cinese» è il «solo esempio di successo» per un mondo naufragato nel liberismo.

In un crescendo di patriottismo nazionalista si è appellato all’unità etnica e alla riunificazione del Paese con Taiwan, promettendo che l’autoritarismo di mercato saprà «costruire una nazione ricca, forte, democratica, armoniosa e modernamente socialista». I cinesi hanno compreso l’indicazione interna: il potere non intende compiere alcuna apertura e semmai, sotto choc per il declino americano, è pronto a cedere all’orgogliosa pressione delle frange più ortodosse.

Anche la scenografia di Tiananmen, nuovamente percorsa dai carri armati dopo la strage degli studenti di vent’anni fa, ha lasciato pochi dubbi. Decine di slogan, composti da lettere dorate sostenute da bambini guidati via radio, esortavano di volta in volta a «ubbidire al partito», ad «amare il comunismo», a «essere fedeli al partito», a «essere eroi in battaglia» e hanno augurato «mille anni a Mao e al partito comunista». Retorica da anniversario, ma in nessun’altra potenza globale una dittatura del Novecento potrebbe essere oggi proposta quale modello ideologico contemporaneo, sottratto a qualsiasi controllo, critica e discussione.

Chiaro anche il suggerimento per gli stranieri. Quattro rapide parole: «Pace, cooperazione, prosperità e armonia». E immediatamente dopo, due ore in cui sono sfilati tank, anfibi, cannoni, radar, diecimila soldati con le nuove armi leggere, intercettori, missili mai mostrati, compresi gli intercontinentali con le testate nucleari capaci di colpire le portaerei Nato nel Pacifico. Sopra la Chang’An Jie, che taglia in due la capitale, hanno volato (ma non sfrecciato) caccia e ricognitori invisibili.

Sessant’anni fa l’armata di Mao era una massa di partigiani esausti, affamati, decimati e armati dall’Urss. Ieri la Cina ha voluto mostrare che il più numeroso esercito del pianeta è ormai tecnologicamente autonomo e avanzato. E che Pechino, nonostante due decenni di embargo ufficiale nelle armi, sarà presto nelle condizioni di contendere a Washington non solo la leadership monetaria, ma anche quella militare.

Stabilità del potere, contrasto violento del dissenso e delle aspirazioni democratiche, determinazione a incrementare la crescita economica e a conquistare la guida politica del mondo investendo sul rinnovamento dell’arsenale atomico, sono i segnali accuratamente confusi nello show patriottico da cui, misteriosamente, è risultata esclusa la popolazione.

Per «ragioni di sicurezza» tutti quelli che contano ieri erano in posa fotografica in piazza Tiananmen. Tutta la Cina stava invece, impaurita, a guardare dal divano. Tra i due universi, apparsi ignari l’uno dell’altro, una distesa di strade deserte, palazzi sbarrati, tetti presidiati da telecamere e cecchini, quartieri inaccessibili da giorni. Tibet, Xinijang e dissidenti sono isolati da tempo: nessuno ha così compreso un tale «allarme terrorismo».

La tensione e l’assenza della gente hanno però tolto alle celebrazioni la "eroica commozione" di uno spettacolo costruito sul mito dei reduci della Lunga Marcia. Quattro soli brividi, leggeri. I plotoni di soldatesse, con gonna fucsia sopra il ginocchio e stivaloni bianchi, che hanno scosso un labbro di Hu Jintao. L’apparizione, al suo fianco, di un Jiang Zemin più che invecchiato. Gli insistiti stacchi tivù su Xi Jinping, dato come prossimo successore, e l’assenza del contendente Li Keqiang.

Infine l’oblìo su Zhao Ziyang, segretario nel sanguinoso `89, dimenticato dallo speaker che ha letto l’elenco dei leader. Solo i carri allegorici, simbolo di regioni, minoranze, emergenze della natura e aspirazioni sociali, hanno trasmesso non slogan, ma la sensazione di una consapevolezza seria dei problemi di oggi.

Un lampo, in stile carnevalesco, prima del gran finale. Hanno sfilato in processione quattro ritratti giganteschi, svettanti tra i fiori, mentre migliaia di picconi e palloncini venivano finalmente mollati dai loro custodi: Mao Zedong, Deng Xiaping, Jian Zemin e lo stesso Hu Jintao, che ha applaudito la propria immagine, qui in versione occidentale. Gli invitati si affrettavano ai pullman, ma il presidente travestito da Mao si è fermato a guardare le quattro icone allontanarsi verso il mausoleo. E’ parso un congedo, personale e storico.


Nella giacca del Timoniere un messaggio al Politburo

di Renata Pisu (la Repubblica, 02.10.2009)

Hu Jintao si è messo la giacca alla Mao. Chissà quanto se ne è discusso in seno al Politburo del Comitato Centrale del Pcc. Niente va trascurato, figurarsi l’abito. Ma è stato Hu Jintao a pretendere di essere l’unico a indossarla? Sarebbe bello poter dire che "ognuno ha i suoi gusti", purtroppo non stanno ancora così le cose in Cina.

Si trascura in una simile parata il particolare dell’abbigliamento? Via, quella giacca ha una storia troppo lunga. La lanciò nel primo decennio del secolo scorso il Padre della Cina moderna, il troppo spesso dimenticato Sun Yatsen che, per la foggia, si ispirò alle divise degli studenti giapponesi che si richiamavano a quelle dei militari tedeschi.

Era un capo che rispondeva alle esigenze di modernità senza aderire alle fogge dell’Occidente e, durante gli anni della Repubblica del Guomindang, la giacca venne adottata da tutti i funzionari civili. Poi anche i comunisti vestirono la "giacca nazionale" e non la abbandonarono più.

Negli anni sono state apportate modifiche non di poco conto. Per esempio, le tasche esterne erano tre, diventarono quattro per aderire al principio cinese di equilibrio e simmetria: i bottoni erano sette, si ridussero a cinque così da rappresentare i cinque rami del Governo come stabiliva la Costituzione della Repubblica nazionalista; e i tre bottoni del colletto erano, si disse, il simbolo dei Tre Principi del Popolo, la dottrina di Sun Yatsen, e cioè indipendenza, sovranità e benessere del popolo.

La Cina ha raggiunto i primi due obiettivi, ma il terzo? Se dovessimo credere alla simbologia dei tre bottoncini, quella giacca Hu l’ha indossata a proposito, come a dire "E il terzo principio, compagni?" I "compagni" attorno a lui, sugli spalti di Tiananmen, erano tutti in giacca e cravatta. Cravatta rossa comunque, di ordinanza.


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