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Geo-politica-mente...

L’ASIA E LA MARGINALIZZAZIONE DELL’OCCIDENTE. Una nota di Martin Jacques - a cura di Federico La Sala

giovedì 7 agosto 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] Il fatto che l’Occidente non sia stato in grado di cogliere le realtà geopolitiche dell’Asia orientale - oggi la più vasta regione economica del mondo - e adattare di conseguenza la sua politica, ha svelato come pregiudizi e atteggiamenti antiquati siano ancora, purtroppo, ben radicati. Anche quando la sola idea appare ridicola e impraticabile, il richiamo all’intervento militare da parte sia dei media che dei leader politici sembra essere l’unico riflesso possibile. In realtà, la (...)

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> L’ASIA E LA MARGINALIZZAZIONE DELL’OCCIDENTE. ---- 2050. Chi comanderà la terra. Usa, gigante malato obbligato al confronto con la Cina pigliatutto.

mercoledì 19 gennaio 2011

2050. Chi comanderà la terra

Usa, gigante malato obbligato al confronto con la Cina pigliatutto

di Federico Rampini (la Repubblica, 19.01.2011)

L’ammiraglio Mike Mullen, capo di tutte le forze armate Usa, non ha dubbi su quale sia «la singola maggiore minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti». In una testimonianza al Congresso ha risposto senza esitare: «È il nostro debito pubblico». Perciò è significativo che l’arrivo del presidente cinese Hu Jintao a Washington coincida col record storico di quel debito: solo a livello federale, ha sfondato i 14.000 miliardi di dollari, un livello senza precedenti che richiederà una legge del Congresso per autorizzare nuove emissioni di titoli del Tesoro. Sperando che "gli altri" - la Cina e tutti i paesi emergenti - continuino a comprare quei titoli. Perché nel frattempo anche la virtù finanziaria è diventata una prerogativa di quell’area del mondo che "non è Occidente". Nei prossimi cinque anni l’area di quei paesi che ci ostiniamo a chiamare emergenti e che invece sono largamente emersi, rappresenterà oltre il 50% di tutta la crescita mondiale ma solo il 13% nell’aumento del debito pubblico globale. Questo accelera ancor più lo spostamento dei rapporti di forza, delle gerarchie internazionali.

Come un nobile spiantato, l’America continua a dare in pegno pezzi dell’argenteria di famiglia; il risparmio e quindi la capacità di investire sul futuro (dalle infrastrutture alla scuola) si concentra nei suoi rivali. Cina in testa, naturalmente, ma con dietro di lei un mondo sempre più affollato. E’ già insufficiente anche la sigla dei Bric (Brasile Russia India Cina) perché bisogna tener conto di Turchia, Indonesia, Sudafrica. Il politologo di Time e Cnn (ma di origine indiana) Fareed Zakaria usa l’espressione «Rise of the Rest», l’ascesa del resto. Il futuro appartiene a tutte quelle nazioni che non sono membri del vecchio club di paesi di prima industrializzazione, cioè quello che coincide in larga parte con la civiltà occidentale di razza bianca. Gli «altri» per definizione. Che cosa questo significa per la leadership uscente, l’America lo ha assaggiato in due eventi traumatizzanti. Prima al vertice di Copenaghen sull’ambiente, quando l’intesa sulla riduzione delle emissioni carboniche naufragò di fronte a un veto insormontabile di Cindia. Cina più India: è inutile «blindare» accordi tra occidentali, è impossibile decidere se i due giganti più popolosi dicono no.

Il secondo smacco per l’America è il G20 di Seul, novembre 2010. Là Barack Obama crede di poter mettere sotto accusa la Cina che non fa abbastanza per aprire i suoi mercati e trainare la crescita degli altri. E’ invece il suo governo che si trova sul banco degli imputati, per iniziativa di un asse guidato da Cina e Brasile che accusa la Federal Reserve di stampare moneta esportando inflazione e bolle speculative. Un terzo disastro è stato evitato per un pelo: quando Brasile e Turchia furono sul punto di affermare una soluzione alternativa alle sanzioni sull’Iran, e quasi mandarono all’aria il delicato lavoro condotto per due anni dalla diplomazia Usa dentro il consiglio di sicurezza Onu.

Il confronto tra l’Occidente in declino e «gli altri», ha una dimensione psicologica che è cruciale. The Economist l’ha definita «la redistribuzione della speranza». La fiducia nel futuro, una caratteristica che sembrava impressa nel Dna dell’America, si è spostata altrove. 87% dei cinesi, 50% dei brasiliani, sono convinti che il loro paese si sta muovendo nella direzione giusta, verso un avvenire migliore. Solo il 30% degli americani ormai ha tanta fiducia nelle prospettive nazionali. E meno di un quarto degli europei.

A lungo l’America è stata immunizzata dalle profezie sul suo declino: troppo spesso i fatti le avevano smentite. Dopotutto, il tema del declino agita la cultura occidentale dai tempi di Edward Gibbon, che nel 1776 descrisse la caduta dell’impero romano come un’allegorìa del destino che attendeva l’Inghilterra e l’Occidente. Fino a Oswald Spengler («Il tramonto dell’Occidente», 1918) che proiettò la disgregazione dell’impero austroungarico su tutta la civiltà occidentale. Poi agli Stati Uniti in particolare John Kennedy nel 1960 annunciò il rischio di un sorpasso sovietico. Sul finire degli anni Settanta il celebre saggio di Ezra Vogel «Japan as Number One» disegnò un futuro in cui il predominio nell’economia globale sarebbe finito a Tokyo. La tentazione è forte, di scrollare le spalle anche oggi, di fronte all’ultima versione del «declinismo». Ma l’autorevole rivista Foreign Policy avverte: «Stavolta è diverso», e pubblica un dossier speciale in dieci punti, per spiegare che non ci sono paragoni possibili con le due ultime minacce sventate, quella dell’Urss e del Giappone. Non era mai accaduto in passato che l’America avesse solo due aziende nella classifica Fortune delle Top Ten mondiali. Non era mai accaduto che un segretario al Tesoro (Tim Geithner) pronunciasse la parola «default», bancarotta, come uno scenario remoto ma possibile per il debito pubblico americano.

Un segno visibile che si oltrepassata una soglia, sta nella caduta di consenso verso quelle regole della globalizzazione che l’America stessa aveva definito. L’idea cioè che la liberalizzazione degli scambi fosse un gioco a somma positiva, dove l’arricchimento di tutti gli «altri» non sarebbe andato a scapito del benessere americano. La visione «win-win», del commercio mondiale in cui tutti possono essere vincitori contemporaneamente, è stata a lungo il dogma condiviso dalla classe dirigente americana a prescindere dal colore politico. Oggi viene rimesso in discussioni da autorevoli voci della sinistra (Paul Krugman) e della destra (Fred Bergsten). Se l’America comincia a dubitare che la partita sia truccata in favore di altri, è il segno che un’èra sta chiudendosi davvero.


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