La ricerca
Uno studio della Fondazione Rosselli mette in evidenza le richieste di chi vuole imparare la lingua
Cresce il numero degli eventi organizzati, ma la distribuzione geografica è da rivedere. Gli esempi della Francia e della Spagna
Una passione (mondiale) per l’italiano
Popolarità in aumento: è la quinta lingua più richiesta
Il ruolo e le difficoltà degli 89 Istituti di cultura all’estero
di Dario Fertilio (Corriere della Sera, 09.12.2009)
Uno studio della Fondazione Rosselli, realizzato per il Corriere della Sera , porta con sé buone nuove sull’immagine internazionale dell’Italia. I dati più confortanti riguardano la popolarità e l’interesse della nostra lingua: siamo quinti nella classifica degli idiomi più richiesti dagli studenti. Il che non corrisponde, naturalmente, alla diffusione reale (colossi come il cinese o l’hindi viaggiano nell’ordine inarrivabile delle centinaia di milioni di parlanti).
Ma se consideriamo il numero di coloro che hanno deciso di leggere Dante o Pirandello nell’originale, oppure per passione culturale o interesse economico si sono iscritti ai corsi, ecco che l’onda lunga di cultura, cucina, artigianato, arte di vivere ci porta in alto: seguiamo a distanza, certo, l’inglese (ovvio), lo spagnolo (quasi altrettanto ovvio), e siamo anche alle spalle del tedesco e del francese; però, subito dopo, ci siamo noi. Da qui la necessità di consolidare una rete adeguata di Istituti di cultura all’estero.
Ma la ricerca della Fondazione Rosselli fotografa una situazione ambivalente: da un lato crescenti successi promozionali, oltre all’aumento degli studenti; dall’altro ritardi strutturali e, ancor più, mancate riforme. Lo studio mette in evidenza le crescenti richieste di chi vuole imparare l’italiano: settemila sono i corsi «venduti» dagli Istituti durante il 2007. Risalta l’aumento degli eventi collegati alla promozione annuale della cultura, la «Settimana della lingua italiana nel mondo»: si è passati dai 309 del 2001 ai mille del 2005, sino a sfiorare i 1600 l’anno scorso (quest’anno la tendenza alla crescita appare confermata).
Tuttavia, se si analizza la rete globale degli 89 Istituti, salta agli occhi una distorsione geografica. La maggioranza dei centri culturali (54%) è concentrata in Europa (con una punta di otto nella sola Germania). Un po’ come se la battaglia politico-culturale si continuasse a combattere lungo la Cortina di ferro, e come se non esistessero i programmi Erasmus e uno scambio costante fra i cittadini della Ue, si immagina ancora che gli avamposti dell’Italia debbano trovarsi a Londra, Barcellona o Parigi anziché Rio, Nuova Delhi, Shanghai o Kazan.
E infatti l’Africa subsahariana ottiene in tutto il 4 per cento delle presenze, quella mediterranea e mediorientale si ferma all’11, mentre il blocco Asia-Oceania raccoglie un modesto 10. Bassa in proporzione (21%) la presenza degli Istituti di cultura nell’area culturalmente e linguisticamente più affine all’Italia, quella delle Americhe (in molti Paesi, dal Venezuela in giù, l’italiano potrebbe legittimamente aspirare a vedersi riconoscere il terzo posto come lingua ambientale, dopo lo spagnolo e il portoghese).
Crescono, insomma, le aspettative, ma l’organizzazione non è all’altezza. Un raffronto con i «concorrenti » (soprattutto inglesi, tedeschi e spagnoli) si conferma problematico. Fuori categoria la Francia, con un numero impressionante di sedi ma una politica linguistica del tutto differente, la distribuzione degli enti culturali, su scala globale, ci vede lontani dal British Council e dal Goethe Institut, anche se davanti al Cervantes.
Resta il fatto che la riforma tanto attesa per rilanciare l’azione del nostro Paese continua a languire. La Spagna, ad esempio, ha investito molto nel potenziamento della sua rete, con l’obiettivo di rafforzare la «strategia Paese». L’Italia, invece, non ha ancora messo a punto la sua riforma. Sulla quale Renato Cristin, che ha guidato per anni l’Istituto di Berlino tenendovi a battesimo Palazzo Italia, ha alcune idee precise: «Meglio organizzare meno eventi ma dare maggiore qualità alle manifestazioni; aumentare considerevolmente i direttori di chiara fama, con capacità manageriali e politico-culturali, riducendo il numero dei promossi per anzianità di servizio e in virtù di carriere interne ministeriali; soprattutto è la presidenza del Consiglio che dovrebbe investire, e mettere il ministro degli Esteri in condizione di includere la cultura italiana all’estero nelle priorità strategiche del Paese».
E poi sarebbe necessaria un’azione capace di coinvolgere tutti gli enti che oggi ci rappresentano: i ministeri (Esteri, Beni culturali, Turismo), ed Enit, Ice, Camere di commercio. L’obiettivo: puntare su un’immagine unica e una rete di alleanze con le istituzioni culturali e scientifiche più prestigiose. Su un punto, invece, i progressi appaiono sensibili: nella capacità degli Istituti di conquistarsi finanziamenti e sponsorizzazioni locali.
Pur muovendo da risorse limitate e all’interno di un quadro normativo invecchiato, i direttori degli Istituti sono riusciti complessivamente a svecchiare l’immagine collettiva del Paese. E i dati dimostrano come fra il 2005 e il 2007 sia avvenuta un’inversione di tendenza: la crescita dell’autofinanziamento ha dapprima avvicinato, poi quasi pareggiato, infine (nel 2007) superato la cifra complessiva stanziata dallo Stato.
Un dato di cui gli Istituti possono andare orgogliosi, soprattutto se accompagnato dall’altro che riguarda il numero delle sole manifestazioni culturali, cresciute del 19 per cento dal 2007 al 2008. Si è passati infatti da 6049 a 7203, ma qui non è tutto oro quello che luccica: perché il moltiplicarsi degli eventi potrebbe essere spia di un certo provincialismo. Meglio puntare sull’eccellenza, ricalcando dove possibile il modello vincente «Italia in Giappone», già replicato nel 2006 in Cina, e negli anni successivi in Vietnam e Corea.
Resta invece irrisolto il problema del ritardo nel promuovere la cultura scientifica e tecnologica. Dovrà essere colmato - sottolinea la ricerca- attraverso eventi che mettano a confronto scienziati italiani e stranieri, e favoriscano accordi tra università.
Un ultimo capitolo messo in rilievo dalla Fondazione Rosselli riguarda il dialogo proficuo aperto dagli Istituti con le regioni: nel 2008 sette su dieci hanno realizzato manifestazioni culturali sul tema delle identità locali. Qui è ormai alle porte un nuovo «Brand Italia» variamente articolato: c’è il turismo accompagnato dall’arte enogastronomica, ma anche un nuovo impulso all’esportazione di prodotti locali. L’Emilia-Romagna, attraverso un’esposizione sul Made in Italy, ha promosso la produzione della moto Ducati a Tokio; la Confartigianato veneto ha organizzato all’interno dell’Istituto di Ankara un convegno volto alla promozione del tessuto produttivo locale.
Dove imparare la nostra lingua è una moda
Giappone, scelta per 500 mila
di D. Fert. (Corriere della Sera, 09.12.2009)
Se esiste un libro dei sogni per la cultura italiana all’estero, questo si trova senz’altro in Giappone: è laggiù che si vede come potrebbe essere la nostra immagine nel mondo, se la sfruttassimo in pieno. Così infatti è avvenuto nel 2001, in occasione dell’iniziativa «Italia in Giappone», quando il paese del Sol levante venne inondato da circa ottocento eventi distribuiti su quindici mesi, con più di cento milioni di contatti. O in occasione di grandi mostre: due anni fa, con l’Annunciazione di Leonardo capace di attirare quasi novecentomila visitatori; o anche quest’anno, con l’esposizione sull’impero romano.
Del resto, bastano le cifre attuali degli studenti di italiano - che il direttore dell’Istituto di Tokio, Umberto Donati, fornisce senza enfasi - per rendersi conto della portata indiscutibile del fenomeno. Seimila iscritti ai corsi trimestrali organizzati direttamente dall’Istituto, con un occhio particolare all’eccellenza e alla «fidelizzazione» degli studenti, insistendo sugli approfondimenti e sui corsi di cultura avanzata. Poi, a un livello più popolare, ci sono le lezioni di italiano organizzate dalla televisione e radio pubblica Nhk (più o meno equivalente alla nostra Rai) rispetto alle quali le vendite abbinate dei testi per la grammatica e gli esercizi fanno ipotizzare (per difetto) l’esistenza di circa duecentomila studenti.
Ancora: ottantamila giovani studiano l’italiano presso scuole e università che ne prevedono l’insegnamento (sono centoventi). Aggiungiamo duecento scuole private in tutto il Paese, dove troviamo altri cinquantamila allievi, e infine coloro che scelgono lo studio solitario della lingua, spesso motivato dalla passione per la musica lirica, la cucina o semplicemente perché lavorano nei numerosi ristoranti italiani (sono tremila nella sola Tokio). Così si arriva a un dato complessivo compreso fra i quattrocentomila e il mezzo milione di giapponesi che, a vario titolo e in forme diverse, hanno un rapporto con la lingua italiana.
Esaurito il boom degli anni Ottanta e Novanta, si può forse parlare - spiega il direttore Donati - di un calo dei principianti, ma di un sensibile rafforzamento del legame con l’Italia da parte dei progrediti. Non più dunque, come in passato, corsi brevi e immersioni nella lingua per qualche mese soltanto, ma partecipazione attiva a corsi sulla civiltà classica, l’arte, l’opera, la gastronomia, la storia, la letteratura. Con alcuni cammei culturali che danno il senso dell’innamoramento giapponese: corsi di ricamo al punto antico per signore, di chitarra per giovani e poi di incisione e gioielleria. E ancora, sessioni di lingua col karaoke o con il metodo sperimentale della «suggestopedia ». Perché quando si ama una cultura - ecco il fulcro dell’insegnamento che viene dal Sol levante - si ammira tutto ciò che vi è mentalmente associato: eleganza, bellezza, raffinatezza, il gusto idealmente «rinascimentale» di vivere. Un sentimento abbastanza diffuso da esprimersi visibilmente nel panorama urbano nipponico: l’italiano è usato assai spesso nelle insegne degli esercizi commerciali (ristoranti, bar, negozi) e per battezzare prodotti industriali (l’auto «Serena» della Nissan, i termini «premio», «porte», «passo» per la Toyota; una moto della Yamaha è diventata addirittura «Dio». E non si contano le riviste dai nomi italiani: «Uomo», «Ciao», «Grazia», «Viaggio»).
Probabilmente è da qui, da questa passione giapponese e dall’uso non solo pratico della nostra lingua, che si deve partire per spiegare - come sottolinea l’ambasciatore Vincenzo Petrone - il fenomeno degli eventi concepiti dall’Italia ma finanziati prevalentemente sul mercato giapponese (soltanto quest’anno per due milioni e mezzo di euro). Succede infatti che i grandi giornali come lo Yomiuri Shimbun o le televisioni pubbliche e private organizzino direttamente grandi eventi, si preoccupino di trovare gli sponsor tra i loro inserzionisti e raggiungano il pareggio economico tramite la vendita di biglietti, cataloghi e merchandising. Significativo qui il ruolo della Fondazione Italia-Giappone, presieduta dall’ambasciatore Umberto Vattani, dove convivono enti e aziende pubblici e privati.