Corriere della sera 11.10.2008
E Don Chisciotte incontrò Paul Klee
I grandi artisti usano il potere della fantasia per capire le cose vere
di Carlo Sini *
L’arte, diceva Paul Klee, non ripete le cose visibili, ma rende visibili le cose, la realtà. Se aggiungiamo a questo motto famoso un celebre aneddoto, avremo perfettamente circoscritto il tema affascinante della «serietà giocosa» dell’arte.
Narra l’aneddoto che una signora, dopo aver visitato una mostra di Klee, si rivolse all’artista così apostrofandolo: «Queste cose le sa fare anche il mio bambino, che ha cinque anni!». «Certo signora - rispose Klee -. Bisognerà vedere se le farà ancora a cinquanta».
Maturità e infanzia si trovano così immediatamente accostate e contrapposte: c’è qualcosa che si rende visibile al bambino che l’adulto non vede o non vede più, a meno che non sia appunto un artista. Ovviamente questo «qualcosa» ha a che fare con la fantasia e col gioco ed è ben noto che il gioco per i bambini è una cosa molto seria e anzi indispensabile. Anche l’artista vi ha a che fare, almeno nella misura in cui la sua attività è connessa all’immaginazione e alla creazione di cose che il giudizio comune tende talora a ritenere futili, gratuite e insomma poco serie. Ma come sta la cosa in realtà?
Sigmund Freud se lo chiese. «Il contrario del gioco, osservò, non è ciò che è serio, bensì ciò che è reale ». Cosa fa infatti il bambino giocando? Egli crea un mondo di fantasia che prende molto sul serio, perché lo carica di profondi significati affettivi, senza per questo dimenticare che quel mondo non è quello della comune realtà. Ancora l’adolescente fa qualcosa del genere; mostra infatti una forte tendenza a fantasticare (ed è appunto nell’adolescenza che per lo più si manifestano le vocazioni artistiche). L’attività ludica e quella fantastica serbano così un tratto comune, che il linguaggio esprime efficacemente quando le definisce «sogni a occhi aperti». In altri termini, modi di gratificazione simbolica dei desideri più profondi. Il bambino, giocando, sogna di essere adulto, di essere «grande». A sua volta l’adolescente esaudisce fantasticando i suoi desideri, per lo più erotici.
Su questa stessa linea si pone infine l’artista, poiché la sua indole non riesce ad adattarsi alla dura prosaicità della vita corrente. Il suo bisogno di soddisfacimento pulsionale trova nell’arte la possibilità meravigliosa di trasfigurare le sue fantasie in un una nuova specie di «cose vere» e «reali» che il mondo accoglie per lo più con favore. Questo favore mostra chiaramente che anche gli altri uomini provano la stessa insoddisfazione dell’artista nei confronti della vita e delle rinunce che essa impone. In ogni essere umano, si dice, c’è potenzialmente un poeta. Tra l’artista e il suo pubblico si stabilisce pertanto una sorta di patto segreto, una tacita connivenza: dietro lo schermo del «lavoro» artistico e delle «regole severe» del-l’arte vien dato spazio al bisogno di continuare a giocare con le proprie fantasie.
L’idea che l’arte sia «disinteressata » sembrerebbe allora quanto mai ingannevole; Aristotele con la sua teoria della catarsi l’aveva compreso: c’è nell’arte un bisogno nascosto di trasgressione e di trasfigurazione delle passioni più profonde, e cioè un bisogno di purificazione e insieme di soddisfacimento simbolico dei nostri sentimenti e desideri, che la vita e la società respingono o censurano. Solo i bambini, infatti, non si vergognano di mostrarsi mentre giocano, grazie appunto alla loro «innocenza». Gli adolescenti e gli adulti, invece, nascondono le loro private fantasie, spesso inconfessabili, ma l’arte e il lavoro serissimo dell’artista giungono a risarcirli per via indiretta e traversa. In parole povere: essi possono continuare a giocare, sottraendosi, senza vergogna o sensi di colpa, agli ostacoli che la vita reale oppone ai loro se in un altro senso è forse possibile intendere la serietà del gioco dell’arte: un senso che percorre una via contraria e insieme parallela alla precedente.
Qui non si tratta di frequentare la fantasia per sfuggire alla durezza del reale, ma di utilizzarla invece per ritornarvi, in parte risanati dalla comune follia dei mortali. Il gioco dell’arte appare allora come una metafora della sapienza e un’introduzione alla saggezza. Il suo mondo immaginario diviene uno specchio nel quale ravvisarsi, vedersi vivere e riconoscersi in ciò che non si sapeva, non si credeva o non si voleva ammettere di essere.
Esemplare ed emblematica appare allora la figura del Chisciotte, il protagonista del romanzo di Cervantes: forse la più alta espressione della nostra modernità critica e disincantata. Tutto il cammino del libro, dalla prima alla seconda parte, è infatti un percorso attraverso il quale il cavaliere e il suo scudiero in un certo senso si scambiano insensibilmente le parti e a tratti quasi si confondono: l’uno nel mostrare quanta savia consapevolezza sta al fondo delle nostre idealizzate fantasie; l’altro quanta folle e ignorante presunzione abita le opinioni e i costumi del cosiddetto vivere civile. E così l’arte, anche per questa via, rende visibile l’oscura trama e la nascosta realtà delle nostre vite.
* Carlo Sini è docente di filosofia teoretica alla Statale di Milano