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"Meditate che questo è stato" (Primo Levi)

SHOAH - STERMINIO DEL POPOLO EBRAICO. 27 GENNAIO: GIORNO DELLA MEMORIA - LEGGE 20 luglio 2000, n. 211, DELLA REPUBBLICA ITALIANA - a cura del prof. Federico La Sala

domenica 10 dicembre 2006 di Emiliano Morrone
Istituzione del "Giorno della Memoria" in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti.
In data 20 luglio 2000 è stata promulgata dal Presidente della Repubblica, dopo l’approvazione della Camera dei Deputati e del Senato, la seguente legge:
Art. 1.
La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (...)

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> SHOAH - STERMINIO DEL POPOLO EBRAICO. 27 GENNAIO ---- LA MEMORIA SCOLPITA. Le pietre d’inciampo di Guenter Demnig (di Roberto Brunelli)..

martedì 15 gennaio 2013

La memoria scolpita

di Roberto Brunelli (l’Unità, 15 gennaio 2013)

Adele sapeva che l’onda nera stava per arrivare. Ma non poteva fuggire, non voleva fuggire. Suo padre era invalido: non l’avrebbe mai lasciato da solo ad affrontare le Ss che stavano andando di casa in casa, a trascinare via i loro vicini di casa, i parenti, gli amici.

Adele venne inghiottita dai treni, come altri 2013 ebrei romani, rastrellati dagli uomini di Kappler: sei giorni dopo era ad Auschwitz. Forse. Perché Adele Ascarelli è morta «in luogo ignoto», come dice quel sanpietrino con la superficie d’ottone che ieri mattina è stato collocato davanti a quella che fino al 16 ottobre 1943, il «sabato nero» del Ghetto di Roma, era stata la sua casa, in piazza Mattei.

Ci sono i ragazzi di una scuola, che filmano con i loro Ipad e gli smartphone, ci sono alcune telecamere, c’è un’anziana signora per la quale viene sistemata una sedia accanto al civico numero tre. La signora era stata una vicina di casa, un’amica di Adele. Altri come lei si erano potuti nascondere altrove, e sono sfuggiti all’onda nera.

Davanti al numero tre di piazza Mattei c’è anche Guenter Demnig, l’artista berlinese che li ha inventati, questi «sanpietrini della memoria». Il suo abito di lavoro è composto da una ginocchiera extra-large, due comode scarpe pantofola che più tedesche di così non si può e un cappello verde a tese larghe. Lui li ha chiamati, vent’anni fa, Stolpersteine: che vuol dire pietre d’inciampo. Nel senso che tu, passante, sei costretto ad «inciampare» nella memoria: sono pietre di verità. A prova di revisionismo: qui chi è stato deportato ha vissuto, da qui è stato portato via, quel 16 ottobre ’43.

Sulla superficie di ottone ci sono i nomi, la data di nascita e di morte, quando è nota, ovviamente. Non tornò quasi nessuno di quei mille e passa ebrei del ghetto. Solo una donna e una ventina di uomini. Nessuno dei duecento bambini che i soldati della Wehrmacht portarono via.

Demnig non è venuto solo qui, nel Ghetto, intorno al Portico d’Ottavia, ieri e oggi: ha posto le sue pietre d’inciampo anche in via Flaminia, in via Garibaldi, in via Arenula, a Campo de’ Fiori, in via Marmorata, in via Giotto, in via Appia Nuova, in via Licia, in via Nicolò III, in viale delle Milizie, in viale Giulio Cesare, in via Chinotto, in via del Babuino.

Praticamente una mappatura della deportazione a Roma. E i nomi sulle pietre sono storie: Sonnino, Sperati, Piperno, della Seta, Pontecorvo, ancora Sonnino, una buona parte della famiglia Veneziani, Fiorentini, Mortero, Sperati.

Ognuno ha vissuto qui, e da qui è stato sradicato, gettato sui treni, ucciso nelle camere a gas. E ovviamente questa non è solo una storia del ghetto e di Roma. Gli Stolpersteine di Demnig oggi sono oltre 39mila, in mille località diverse, dal nord Europa all’Italia, dall’Olanda all’Ucraina. Per lui è l’impegno di una vita. Che va oltre la sua vita.

OPERAZIONE«STOLPERSTEINE»

Perché idealmente si tratterebbe di collocarne dieci milioni, di queste “pietre della memoria”: dieci milioni tra ebrei, deportati politici e razziali, rom e omosessuali. E proprio dai rom è partita l’operazione Stolpersteine: Demnig aveva sentito una signora dire che a Colonia, dove l’artista stava mettendo in piedi una installazione sulla deportazione di cittadini rom e sinti, non aveva mai abitato un solo rom. Lui ha voluto testimoniare, con i suoi sassi, il contrario. Ognuno di quelli che sono finiti ad Auschwitz, Bergen Belsen, Treblinka, Mauthausen o in qualsiasi altro lager doveva aveva la sua pietra.

«Pensi che all’inizio ho messo gli Stolpersteine illegalmente: a Berlino avevo cominciato nella Oranienstrasse, 51 pietre - racconta l’artista - Li ho messi in pieno giorno, ovvio. Ancora sto aspettando i permessi... ma ogni municipio da noi è una sorta di fortezza. Nessuno ci diceva di no: semplicemente i permessi affondavano nelle viscere della burocrazia. In tutta la Germania la stessa storia.

Finché un giorno non arrivò dal Sudafrica una lettera di un certo mister Robins. In realtà si chiamava Robinsky, e chiedeva che venissero poste le pietre per suo zio e la moglie. Aveva visto gli Stolpersteine ad Amburgo... Ma lo sa che a Monaco, per esempio, le autorità comunali continuano ancora oggi a negare i permessi?».

È già la quarta volta che Demnig porta i suoi Stolpersteine a Roma. Domani sarà a Prato e giovedì a Livorno.Ma oggi c’è qui Adachiara Levi, che con la sua associazione arteinmemoria ha curato questo nuovo ritorno dell’artista nella cosiddetta città eterna.

Ci sono i figli, i nipoti, i parenti di chi quel «sabato nero» è stato inghiottito dall’onda nera. Levi lo dice ai cronisti della televisione pubblica austriaca: «Collocare le pietre d’inciampo davanti alle case di chi è stato deportato è straordinario: è una forma discreta di memoria, ma anche fortissima, perché la radica nei luoghi a cui appartiene ed al tempo stesso sfugge ad ogni retorica monumentale». Per qualcuno degli altri di quelli che sono qui il significato degli Stolpersteine forse è più semplice: «Sentiamo di averli riportati a casa». Bentornata, Adele.


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