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"Meditate che questo è stato" (Primo Levi)

SHOAH - STERMINIO DEL POPOLO EBRAICO. 27 GENNAIO: GIORNO DELLA MEMORIA - LEGGE 20 luglio 2000, n. 211, DELLA REPUBBLICA ITALIANA - a cura del prof. Federico La Sala

domenica 10 dicembre 2006 di Emiliano Morrone
Istituzione del "Giorno della Memoria" in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti.
In data 20 luglio 2000 è stata promulgata dal Presidente della Repubblica, dopo l’approvazione della Camera dei Deputati e del Senato, la seguente legge:
Art. 1.
La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (...)

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> 27 GENNAIO: GIORNO DELLA MEMORIA - LEGGE 20 luglio 2000, n. 211 - a cura del prof. Federico La Sala

domenica 10 dicembre 2006

Da Auschwitz al Cile, il senso del male calato nella storia

Due saggi, «Semiotica e memoria. Analisi del post-conflitto» di Cristina Demaria e «Filosofia della Shoah. Per un’analitica dell’annientamento nazista» di Fabio Minazzi si interrogano sul tema della rimozione

di Cosimo Caputo (il manifesto, 09.12.2006)

Il ricordo di passati rimossi o resi muti dalle versioni ufficiali e la necessità di accogliere voci ulteriori o di rivedere memorie consolidate caratterizzano la nostra era del testimone, come recita il titolo di un libro di Annette Wieviorka (Cortina 1999). Ma l’eterno presente della comunicazione dominante, piuttosto che rafforzare la capacità di accertamento critico, scolorisce le differenze: si perde così l’alterità del passato, mentre si impone un revisionismo a tutti i costi, che diventa molto spesso un negazionismo funzionale alla costituzione di nuove identità politiche e sociali.

Con la loro logica mercificante i media sono oggi - scrive Cristina Demaria in Semiotica e memoria. Analisi del post-conflitto (Carocci, pp. 218, euro 18, 20) - «lo spazio pubblico in cui avviene la costruzione delle ideologie e in cui si esercitano le politiche della memoria, e al tempo stesso sono anche attori di tale spazio». Essi infatti non solo contribuiscono «alla formazione del senso comune alla base del legame su cui si fonda la memoria sociale», ma partecipano anche alle sue enunciazioni attraverso documentari e fiction. Basti pensare ai film sull’Olocausto, come Schindler’s List di Steven Spielberg, da alcuni accusato di sacrificare la storia allo spettacolo, di «americanizzare l’Olocausto» (Wieviorka). O, come scrive Fabio Minazzi in Filosofia della Shoah. Pensare Auschwitz: per un’analitica dell’annientamento nazista (Giuntina, pp. 362, euro 20) di «americanizzazione della testimonianza». Anche se con prospettive e scopi diversi, i due libri si intersecano sui temi della rimozione e della rielaborazione della memoria storica in funzione del presente: un lavoro di negoziazione interpretativa che diventa pratica di lotta sociale e politica.

Demaria concentra la sua analisi non sulla memoria tout court bensì sui testi in cui essa viene raccontata e messa in scena: descrive le pratiche enunciative in cui si raccolgono i percorsi di vita, di trasferimento di senso, di diniego e il loro concretizzarsi in pratiche culturali e in comportamenti sociali e politici, quali emergono nelle testimonianze rese di fronte alla Commissione sudafricana di verità e riconciliazione, istituita nel 1995 durante la transizione post-segregazionista, e nel rapporto Valech con cui il Cile ammette ufficialmente la pratica della tortura durante il regime di Pinochet.

Ma l’analisi semiotica, come riconosce anche Demaria - se può aiutare a capire - non può che fermarsi di fronte al senso del male e alla sua memoria. Qui si rivela necessaria un’altra indagine, una indagine filosofica: ed è quanto fa Minazzi, percorrendo però una strada diversa, che si discosta dalla critica romantica alla modernità. A suo avviso occorre un approccio neoilluministico per non trasformare Auschwitz in un simbolo del male metafisico. La tradizione del razionalismo critico inaugurato da Kant aiuta meglio a comprendere «la radicale storicità della Shoah». In Kant la realtà del male si intreccia con la volontà dell’uomo, configurandosi perciò come un male concreto e contestualizzato. Secondo la prospettiva kantiana «non è mai possibile individuare una realtà storica che, in sé, si possa metafisicamente configurare come buona o cattiva, come male assoluto o come bene assoluto». Auschwitz e l’antisemitismo devono così essere calati «nel contesto storico specifico dell’umanità occidentale». Si potrà vedere come essi siano figli di una prassi dello sterminio che si è più volte manifestata nel corso della storia. Kant mette in relazione il male con la dimensione animale dell’umano: il male nasce quando l’uomo si allontana dalla legge morale, rinunciando alla sua stessa umanità. Pertanto il male compiuto dal nazismo è un ritorno allo stato animale e non dipende, come pure è stato sostenuto, dalla mera dimensione calcolistica della ragione, né da una civiltà soggiogata alla tecnica e alla scienza e priva di ascolto del sacro. Una lettura, per Minazzi, che si colloca in una dimensione metastorica e presenta subdolamente i lager nazisti come estrema conseguenza della scienza e della tecnica occidentali.

La semantica dello sterminio è la chiave di volta di questa ermeneutica laica e materialista di Auschwitz. L’adozione del termine «olocausto», quale traduzione di Shoah, infatti, connota in senso religioso la lettura dell’esperienza storica dei lager. Con «olocausto» si colloca l’«assassinio di massa» (termine preferito da Minazzi) su un piano sacrificale, in cui l’ucciso si trasforma in vittima che deve, appunto, essere sacrificata, e, ancor più paradossalmente, gli stessi nazisti (i carnefici) possono essere visti come sacerdoti che celebrano un loro rito religioso. Ma si introduce surrettiziamente anche l’idea che le vittime con il loro stesso olocausto dovevano espiare una colpa, che nel caso degli ebrei era quella di deicidio. «Olocausto» risulta mistificante poiché trasforma un assassinio di massa, maturato in precise condizioni ideologiche e storiche, in un momento di un più ampio progetto divino. Questa lettura mitologica della Shoah è parziale e unilaterale perché dimentica lo sterminio degli slavi, dei comunisti, degli omosessuali dei minorati fisici, degli oppositori politici, sottrae lo sterminio al piano storico e ne fa un evento unico. La storia dell’occidente, da cui pure emergono preziosi antidoti intellettuali e morali, è invece segnata da tanti altri stermini, dall’American Holocaust dei pellerossa e degli indios al Black Holocaust compiuto in Africa. Lo scandalo dello sterminio nazista agli occhi degli stessi occidentali sta nel fatto - dice Minazzi - che essi «hanno fatto in Europa e contro gli europei ciò che gli europei hanno sempre fatto ai danni delle popolazioni non europee».

La lettura mitologica dei lager nazisti è diventata ed è troppo succube di esigenze geopolitiche contingenti nel momento in cui si connette a questi fatti la nascita dello Stato di Israele e soprattutto quando si vogliono giustificare, di conseguenza, talune scelte politiche e militari di questo Stato le quali, per la verità, non si iscrivono affatto nella storia delle azioni delle vittime. Israele perde così quella santità dell’Altro che è più santa di ogni Terra Santa che «di fronte a una persona offesa ... è solo nudità e deserto», come dice l’ebreo Emmanuel Lévinas, il quale non a caso dedica una sua opera, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, «alla memoria degli esseri più vicini tra i sei milioni di assassinati dai nazional-socialisti, accanto ai milioni e milioni di uomini di ogni confessione e di ogni nazione, vittime dello stesso odio dell’altro uomo, dello stesso antisemitismo».


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