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TEORIA E PRATICA DEL BAAL-LISMO. COME UN CITTADINO RUBA IL NOME DI TUTTO UN POPOLO, NE FA LA BANDIERA DEL PROPRIO PARTITO PERSONALE, E GETTA LE BASI DELLA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA D’ITALIA...

POLITICA, FILOSOFIA, E MERAVIGLIA. Materiali sul tema - a cura di Federico La Sala

L’Italia come volontà e come rappresentazione di un solo Partito. Il "popolo della libertà" è nato: "Forza Italia"!!! Materiali per un convegno prossimo futuro
venerdì 28 gennaio 2011 di Maria Paola Falchinelli
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?!
POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!!
UN GRANDE "VIAGGIO A SIRACUSA"!!! LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA POLITICA ITALIANA. COME UN CITTADINO RUBA IL NOME DI TUTTO UN POPOLO E SE NE FA LA BANDIERA DEL PROPRIO PERSONALE PARTITO... (...)

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> POLITICA, FILOSOFIA, E MERAVIGLIA. --- NORBERTO BOBBIO. Il filosofo e il dovere della verità (di Marcello Sorgi)

venerdì 10 gennaio 2014


Il filosofo e il dovere della verità

di Marcello Sorgi (La Stampa, 8 gennaio 2014)

Aveva l’espressione austera e corrucciata del filosofo e la severità del professore stampata in viso, Norberto Bobbio. Nella casa di via Sacchi, accolti dalla signora Valeria, e dal suo modo speciale di far reagire il marito all’umor nero del tramonto, si entrava col timore di rompere il silenzio della meditazione. Bobbio passava il suo tempo nello studio, curvo su un tavolino traballante carico di libri e illuminato da una lampada fioca.

«La morte si è dimenticata di me!», esordiva, sollevando il capo nella penombra. Ma era un vezzo. Subito dopo, la stanchezza, il peso della vecchiaia, la sensazione di sentirsi fuori posto, in un mondo che non gli apparteneva più, lasciavano spazio alla curiosità, al gusto della conversazione, ai lampi di intelligenza e a un sorriso avaro, concesso con parsimonia da uno consapevole di non aver più ragioni per gioire.

Era uscito da questa sofferenza uno dei suoi ultimi libri, il De senectute che gli era valso la strana amicizia tardiva con Gianni Agnelli. Anche l’Avvocato, di tanto in tanto, andava a trovarlo: cosa potesse unire due uomini così diversi, a cui era toccata in sorte la nomina a senatori a vita, nessuno lo ha mai saputo. Forse, appunto, era la torinesità e il sentirsi parte di un’epoca che stava scomparendo.

Quanto a me, prima di frequentarlo a Torino, da editorialista e nume tutelare di questo giornale, lo avevo conosciuto a Roma nel ’92, nei giorni in cui, a dispetto di se stesso, era diventato il candidato alla Presidenza della Repubblica dell’«altra» Italia. Lui ovviamente non voleva crederci, resisteva, anche quando, camminando a piccoli passi con me che lo accompagnavo dal suo albergo al Pantheon verso Montecitorio, la gente lo fermava per stringergli la mano, o tifava per lui - Forza professore! -, manifestandogli così, alla romana, una simpatia spontanea.

Alla vigilia della caduta della Prima Repubblica, mentre i partiti morenti non riuscivano a trovare un nome per il Quirinale, Bobbio, a sorpresa, si era trasformato nel candidato della società civile, che solo un anno prima, con il referendum elettorale, aveva dato una forte spallata al sistema. La sinistra spingeva a suo favore, cresceva a sorpresa, per lui, il consenso, anche tra i deputati e i senatori chiusi nel Palazzo e costretti a due votazioni al giorno, in odio ad altri candidati di peso da trombare, come Andreotti e Forlani, o nel vano tentativo di ricostruire credibilità di fronte all’elettorato preso, già allora, da un’ondata di antipolitica. Dopo nove giorni (le Camere erano riunite in permanenza dal 13 maggio), una mattina Bobbio, prendendo una camicia da un cassetto nella sua stanza d’albergo, sbattè la testa su un soffitto spiovente e si ferì. Fine della corsa e sollievo del candidato riluttante, che poteva tornarsene a casa e ai suoi studi.

Di quest’avventura in cui si era trovato quasi senza rendersene conto, il professore aveva conservato un ricordo indelebile: nel settembre del ’98, appena arrivato a Torino come direttore della Stampa, ricevetti una sua lettera nella quale, anche a distanza di tempo, ripercorreva quelle giornate trascorse insieme e tratteggiava tutte le sensazioni contrastanti che aveva provato, insieme con gli interrogativi che l’esperienza gli aveva lasciato, ai quali invano aveva cercato di dare risposta.

Di lì in poi i nostri appuntamenti divennero settimanali: si andava in delegazione, con Alberto Papuzzi, che aveva da poco ultimato la sua biografia, e con Cesare Martinetti, che dirigeva le pagine culturali della Stampa . Qualche volta sì, qualche altra no, non c’era una regola, si tornava con l’abbozzo di un articolo, che Bobbio ci avrebbe mandato il giorno dopo, con piccole, preziose, correzioni a mano, di cui si preoccupava al telefono: «Era tutto chiaro? Occorre rileggerlo?».

Fu in una di questa circostanze, divenute abbastanza rituali nella vita del giornale, che ci trovammo a gestire un’altra emergenza, assai lontana da quella del Quirinale. Benché dissuaso dal giro più stretto dei suoi amici e della sua accademia, Bobbio, il 12 novembre ’99, aveva accettato di rilasciare un’intervista a Pietrangelo Buttafuoco del Foglio . Era un pezzo esplosivo, in cui per la prima volta parlava di quella parte del suo passato, legata agli inizi della carriera universitaria.

Come se volesse liberarsi di un segreto imbarazzante custodito con vergogna troppo a lungo, Bobbio ricostruiva i tempi della «doppiezza», in cui era stato «fascista con i fascisti e antifascista con gli antifascisti». Si rifiutava di accettare la lettura storica del suo intervistatore, secondo il quale tutti o quasi gli intellettuali italiani avevano condiviso un percorso del genere, ma per citare ad esempio il suo maestro, Gioele Solari, o il suo amico Leo Valiani, e per far risaltare il coraggio di chi non si era arreso, finiva col ribadire le proprie responsabilità.

Dopo la pubblicazione dell’intervista si scatenò un putiferio. Bobbio essendo il maggiore intellettuale azionista, e uno dei più rispettati maître-à-penser della sinistra, lo sconcerto, nel suo campo, era evidente. Su Repubblica Gad Lerner scrisse che era stato attirato in una «trappola». Nel giro più stretto degli amici torinesi, qualcuno gli suggeriva di smentire il testo di Buttafuoco, che invece aveva riletto e approvato parola per parola.

Anche per noi della Stampa il momento era complicato. C’era da capire perché il nostro più importante collaboratore, il custode delle radici culturali del giornale, avesse scelto un altro quotidiano per fare le sue rivelazioni. E soprattutto c’era da trovare la forza di chiamarlo, proprio mentre l’ondata di reazioni mediatiche e politiche rompeva la quiete di via Sacchi. Toccò a me il compito. Gli telefonai per informarlo che avremmo pubblicato un’intervista di Alessandro Galante Garrone, l’altro grande azionista di Torino e come lui editorialista della Stampa , che, contrariamente a chi ne aveva criticato l’imprudenza, gli offriva solidarietà. Inoltre, da storico, rilevava il fatto che la tessera fascista fosse obbligatoria per i professori universitari, e solo quattordici, in tutto il corpo docente nazionale, si fossero rifiutati di prenderla. Gli domandai perché avesse scelto Il Foglio , e non La Stampa , per fare la sua confessione; mi rispose candidamente che noi non gliel’avevamo chiesta. Insistetti, per sapere se intendesse dare un seguito alle polemiche. Ci pensò su, ma replicò soltanto: «Mi lasci riflettere». La mattina dopo, senza preavviso, mandò un articolo limpido, in cui spiegava di non essere stato vittima di alcun tranello e di aver avvertito un autentico desiderio di liberarsi del peso che lo aveva oppresso per tanti anni. Concordammo il titolo: «Io e il fascismo, lasciatemi dire».

Dieci anni dopo la sua scomparsa, ci sarebbero tanti altri episodi da narrare, di un uomo straordinario come Bobbio. Ma questi due racchiudono le principali caratteristiche del personaggio: la schiettezza tutta torinese, la sincerità, il distacco tipico di una grande cultura, e soprattutto il gusto della verità: anche quella, scomoda, che volle rivelare di sé.


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