La crudeltà del lager
di MARCO BELPOLITI (LA Stampa, 19.12.200)
Tra i vari modi con cui i nazisti intendevano dileggiare i prigionieri dei Lager, racconta Primo Levi, c’era l’orchestrina che suonava le marce all’entrata e all’uscita dei deportati dal campo, per recarsi al lavoro forzato e le scritte che campeggiavano sui cancelli, spesso ricavate da proverbi o frasi della Bibbia.
La più sarcastica e provocatoria è quella issata, o almeno lo era fino a poco fa, all’ingresso di Auschwitz: Arbeit Macht Frei, il lavoro rende liberi. Due parole, ricordava ancora l’autore di Se questo è un uomo - lavoro e libertà -, che per lui sono sempre state collegate, e che lì, nel campo, diventavano invece un’irrisione terribile della condizione di migliaia e migliaia di uomini e donne costretti a una attività fisica, il lavoro coatto, che li avrebbe ben presto portati alla morte. Tutto questo fa parte di quella che Levi ha definito la «violenza inutile», quella forma d’ulteriore degradazione, avvilimento, che si perpetuava non solo attraverso punizioni fisiche, sofferenze protratte, ma mediante una sottile strategia fatta di regolamenti assurdi, leggi paradossali, espressioni linguistiche rovesciate.
Il Lager è il ribaltamento della logica normale, quella che vige nel mondo là fuori, per cui agli intellettuali, a tutti coloro che praticavano mestieri di concetto, era data una pala per scavare, e ai lavoratori manuali affidato invece il compito di comandare il gruppo dei professori, avvocati, notai. Un rovesciamento che fa parte della logica ferrea del Campo: niente somiglia a ciò che usuale nella vita civile.
Eppure nel suo ribaltamento, nella sua irragionevolezza, il Lager possedeva una sua razionalità, folle e assurda, ma pur sempre una logica. La scritta rubata ad Auschwitz appartiene a questa. E pensare che anche nel Lager, lo ha notato molte volte Levi, dove il lavoro forzato somiglia a quello delle bestie, c’era chi amava il lavoro ben fatto, come Lorenzo il muratore, che tirava su muri a regola d’arte. Per Levi il lavoro è una delle approssimazioni possibili alla felicità in terra. Il suo ideale è quello dell’homo faber, che riesce a rovesciare la condanna biblica del lavoro come fatica, e ne fa una possibilità di riscatto; anche lo sbaglio, come spiega Faussone nella Chiave a stella, è parte del mestiere. La libertà è questa: il lavoro come sfida, avventura, prova. Ogni tipo di lavoro, anche quello più umile, compiuto con cura e attenzione, è per il piemontese Primo Levi, una via per costruire se stessi e il mondo, per essere, nonostante tutto, davvero liberi.