“Filosofia della violenza” di Lorenzo Magnani
Prof. Lorenzo Magnani, Lei è autore del libro Filosofia della violenza edito da Mimesis: la violenza può essere trasformata in un oggetto autonomo di riflessione filosofica?
Questa seconda edizione italiana, pubblicata da Mimesis, del libro intitolato Filosofia della violenza è la traduzione di Understanding Violence. The Intertwining of Morality, Religion, and Violence: A Philosophical Stance, pubblicato da Springer, Heidelberg/Berlin, 2011. La seconda edizione italiana è pubblicata nella collana “Centro Internazionale Insubrico ‘Carlo Cattaneo’ e ‘Giulio Preti’ per la Filosofia, l’Epistemologia, le Scienze Cognitive e la Storia della Scienza e delle Tecniche” dell’Università degli Studi dell’Insubria, direttore professor Fabio Minazzi
Una tipica tendenza della modernità conduce a evitare di analizzare la violenza (specie quella visibile, forte, sanguinaria), liquidandola attraverso una sorta di facile “psichiatrizzazione”: i violenti sono persone che “non stanno bene”, dei pazzi. Nella maggior parte dei casi però la psichiatria non c’entra nulla. Ricordo un episodio avvenuto nel 2013, poco dopo la pubblicazione della prima edizione italiana del libro. L’attentatore Luigi Preiti, che aveva sparato a due carabinieri, era stato subito classificato dai mass media e dall’opinione pubblica come uno squilibrato, un pazzo. Erano state così oscurate le cause nascoste di quell’accesso di tremenda violenza approfittando di una specie di medicalizzazione/psichiatrizzazione. Questo comune modo di reagire finisce per attenuare e mettere in secondo piano la violenza perpetrata, classificandola come il frutto di un qualcosa di “malato”. Si sfugge così al compito di dire di più intorno alle radici di gran parte della violenza. L’attentatore aveva però subito dichiarato che voleva “colpire” (e quindi “punire”) i politici, individuati come colpevoli della sua situazione disperata di disoccupato e di separato, vissuta come iniqua. Si può dunque dare una lettura del suo comportamento in termini morali: ogni regola morale che si adotta prevede la potenziale punizione dei trasgressori. -Trasformare la violenza in oggetto autonomo di riflessione significa evitare di parlare della violenza secondo scorciatoie come quella appena indicata della psichiatrizzazione e, adottando nel mio caso un approccio naturalistico, vederne le varie sfaccettature, tenendo presente i risultati di varie discipline, enucleando l’intreccio indissolubile tra moralità e violenza fra evoluzionismo, scienze cognitive, teoria matematica delle catastrofi, teoria delle nicchie cognitive, logica e logica informale, psicologia, psicoanalisi, semiofisica. Ogni cooperazione umana, fin dalla preistoria, è basata sulla condivisione di regole morali (o protomorali) (anche quelle incorporate nelle leggi a partire da un certo momento del processo di civilizzazione), ma l’infrangere le regole morali comporta possibili punizioni più o meno violente (o meglio che vengono vissute come tali dai soggetti colpiti). Non soltanto: il contatto con persone e collettività che condividono diversi orizzonti morali genera anch’esso conflitti che possono dar luogo a esiti anche molto violenti (si pensi alle guerre - o ai terrorismi - di religione, dove la conflittualità provocata dalle regole morali incorporate nei framework religiosi è potente).
Tutti assistono a violenze di ogni tipo quotidianamente e tutti ne parlano nei mass media e a casa loro, ma l’ignoranza sociale intorno a cosa sia la violenza è grande e anche presso gli studiosi e i filosofi le cose non vanno meglio. Come già osservavo, si sente infatti spesso porre l’accento sulla violenza fisica come unica violenza degna di nota, nel mentre viene passato sotto silenzio e non rubricato come violento, per esempio, certo “teppismo parlamentare”, quando c’è scambio di voti e favori. Siamo in una società che aspirava a diventare una “knowledge-society” e invece è diventata una “ignorance society”, dove tutti sono legittimati a dire la loro opinione, che troppo spesso è quella ignorante di narcisi individualistici che non “sanno” nulla o sanno pochissimo, sia che si tratti di ministri, giornalisti, casalinghe o scienziati. E infatti anche gli studiosi e gli intellettuali non brillano di “open-mindedness” perché di solito conoscono solo ambiti specialistici; se invece possiedono una cultura di più ampio respiro e si esprimono, allora vengono aggrediti con la violenza verbale che oramai da decenni li classifica come astratti e inutili in vari media e “social” ignoranti e beceri. Una “ignorance society” (troppo orgogliosa di essere tale) che a mio giudizio è il frutto amaro di un trentennio di violento e ottuso neoliberismo cocciuto, che sta intaccando alle basi la civiltà che per molti aspetti abbiamo ereditato dall’antica Grecia (sotto questo punto di vista avere visto la catastrofe economica greca è apparso come un simbolo nefasto). Per fortuna la filosofia da più di venti secoli ci aiuta a interpretare il mondo e oggi vuole capire anche la violenza: il mio volume, che appare unico anche nell’attuale panorama della ricerca “filosofica” internazionale, mira a questo, a produrre una intelligibilità della violenza che solo la filosofia può donare. Ho cercato dunque di intraprendere una seria indagine sulla violenza con coraggio e sincerità: come esseri umani qualsiasi possiamo ignorare la nostra propria violenza, grazie a quel “embubblement” che è illustrato nel libro (per così dire la violenza non è mai la mia ma è sempre quella degli altri perché io dissimulo la violenza che compio non ritenendola mai tale - più sotto introduco appunto il concetto collegato di “bolla morale”), ma come filosofo, sostengo, non posso ignorarla: passo dopo passo questo impegno intellettuale è diventato per me sempre più specifico e teoretico, tanto da rendere la violenza un soggetto autonomo di riflessione filosofica.
Per anni mi sono dedicato allo studio della violenza e ho osservato, nel comportamento degli esseri umani violenti, come già accennavo sopra, che la violenza è fondamentalmente perpetrata sulla base di convinzioni morali, in modi più o meno coscienti e come effetto multiforme di ragioni, emozioni e azioni di vario tipo. La moralità, e quindi anche la religione - che, prima fra tutte le creazioni culturali dell’umanità, ha svolto il ruolo di “veicolo di moralità”- e la violenza sono fortemente intrecciate. Sembrerebbe un paradosso, visto che gli esseri umani si sono dotati della moralità proprio per difendersi dal male e dalla violenza e per favorire la cooperazione. Ma paradosso non è: 1) ogni moralità confligge potenzialmente in modo violento con altre moralità; 2) ogni moralità comporta la punizione più o meno violenta dei trasgressori.
Credo che occorre prima di tutto avere “rispetto” della violenza e attribuirle una volta per tutte la “dignità morale” di diventare un argomento filosofico/conoscitivo, estraendola dal circuito ristretto delle futili chiacchiere quotidiane, delle statistiche fornite dalle scienze umane e da una facile psichiatrizzazione. I filosofi hanno sempre affrontato temi importanti come la razionalità, la scienza, la conoscenza, l’etica e così via, che sono pensati un po’ da tutti come dotati di una dignità intellettuale in sé. Hanno invece sempre pensato che la violenza, proprio perché è tale, si mostra come qualcosa di banale, cattivo, intollerabile, confuso, ineluttabile e marginale, non sufficientemente interessante per loro. La violenza è stata dunque considerata più adatta ad essere studiata come dato di fatto: storia, sociologia, psicologia, criminologia, antropologia, solo per citare alcune discipline, sono sempre sembrate più appropriate per analizzarla e per fornire dati, spiegazioni e cause.
Il libro Filosofia della violenza muove dunque dalla convinzione che, almeno nel nostro tempo, proprio la filosofia possiede lo stile di intelligenza e di intelligibilità adatto per una nuova, impertinente e profonda comprensione di un tema così intellettualmente trascurato e mal rispettato. Quando si tratta di violenza, la filosofia, pur rimanendo ancora una disciplina astratta come la conosciamo, paradossalmente acquisisce il marchio di una sorta di “scienza applicata” indispensabile e insostituibile. Il libro vuole attribuire più dignità filosofica alla violenza, perché essa è estremamente importante nella vita degli esseri umani, lo si voglia accettare o meno. Ci sono una filosofia della scienza e una filosofia della moralità, una filosofia della biologia, una filosofia delle arti e così via: ora dobbiamo cercare di elaborare una filosofia della violenza come campo autonomo di speculazione, che può estrarre la violenza dalla prigione di modesti, frammentari e spesso esoterici pensieri filosofici o di freddi risultati scientifici.
Il libro aiuta a riconoscere che siamo tutti intrinsecamente “esseri violenti”: tale consapevolezza, anche se non terapeutica, potrebbe migliorare la nostra possibilità di essere almeno dei “violenti responsabili”, cioè capaci di riconoscere la violenza che deriva proprio da noi e dalle nostre azioni, direttamente o indirettamente, e non solo quella degli altri. Con questo intendo dire che avere più conoscenza della violenza potrebbe forse suggerirci inaspettati metodi di monitoraggio delle nostre reazioni emotive e razionali, al fine di ridurre la possibilità (inevitabile) di errori e accrescere invece la nostra aspirazione a un maggior “possesso” del nostro destino, sia per quanto riguarda la vita quotidiana sia per quanto riguarda quella degli stati nel nostro mondo globalizzato. Riconoscere la nostra condizione di “creature violente” e aumentare la conoscenza circa la nostra capacità di nuocere, vuol dire accettare la nostra responsabilità e sperare di individuare quei “firewall” cognitivi che possono aiutarci a prevenire la violenza. Considerare la violenza dal punto di vista della “moralità” dei colpevoli - dove la violenza appare chiaramente come giustificata da “valori” - può aiutare a coglierla e capirla come un evento quasi ineluttabile e comune, che non può essere ignorato.
La violenza è dunque di solito generata da ragioni morali: il conflitto morale è alla base del conflitto violento. Persone a prima vista del tutto decenti (come già osservava Hannah Arendt a proposito dei buoni padri di famiglia che erano nel contempo anche criminali nazisti), sono capaci di atti violenti anche sanguinari in nome della loro morale, da essi considerata come sicura e certa. Se si agisce con violenza per ragioni morali, per difendere sé stessi e preservare il proprio punto di vista morale o per punire chi ha infranto le regoli morali del gruppo a cui si aderisce, come è possibile pensare di essere stati violenti? Ci si dice per esempio: “Sono un seguace della legge dell’onore, che considero giusta e morale, quindi la vendetta è ‘giustizia’ anche quando ha come conseguenza la violenza estrema dell’omicidio”. Ho chiamato questo tipo di impossibilità di riconoscere la violenza possibile derivante da nostre convinzioni morali “bolla morale”.