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COSTITUZIONE (ART. 87): IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA E’ IL CAPO DELLO STATO E RAPPRESENTA L’UNITA’ NAZIONALE... "FORZA ITALIA"!!!

ROMA: "DEMOLIZIONE IN CORSO" DEL QUIRINALE. IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA SI E’ GIA’ TRASFERITO AD ARCORE E GLI ITALIANI NON SE NE SONO ACCORTI. Un’analisi di Michele Ainis - a cura di Federico La Sala

EMERGENZA BALLISMO. UN CITTADINO, RUBATO IL NOME DI TUTTO UN POPOLO, NE HA FATTO LA BANDIERA DEL PROPRIO PARTITO PERSONALE E HA REALIZZATO LA PIU’ GRANDE BOLLA DELLA STORIA DELLA SPECULAZIONE ITALIANA...
martedì 14 ottobre 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] Napolitano ha già alzato la voce contro la pioggia di decreti, contro lo stallo alla vigilanza Rai, contro la rissa quotidiana fra i partiti. Semplicemente non gli danno retta. D’altronde sono caduti nel vuoto anche gli appelli su una riforma costituzionale condivisa. C’è forse chi abbia visto un testo, un’ipotesi, un progetto? L’aria che tira è questa: ossequio formale, irriverenza sostanziale. Il Quirinale resta l’istituzione più popolare fra la gente, ma nel Palazzo è come il (...)

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> ROMA: "DEMOLIZIONE IN CORSO" DEL QUIRINALE. ---- Io do soltanto buoni consigli (di FRANCESCO COSSIGA).

mercoledì 8 ottobre 2008

Io davo soltanto buoni consigli

di FRANCESCO COSSIGA ( La Stampa, 8/10/2008)

Caro direttore,

ho letto con grande attenzione, come qualsiasi cosa che pubblica il suo giornale, l’articolo di fondo di Michele Ainis dal titolo: «Chi scalpella il Quirinale».

Sia per i miei studi che per aver avuto una certa esperienza pratica delle nostre istituzioni repubblicane, penso di potere fare una chiosa a quanto scritto nel quotidiano da lei diretto, che mi è caro perché pubblicato nell’Antica Capitale del nostro regno: il Regno di Sardegna, cui sia lei che io apparteniamo anche se per non antiche annessioni per via diplomatica, ma pur sempre importanti dato che la Sardegna, Genova e il Genovesato, oltre che il Principato del Piemonte e il Ducato d’Aosta erano ben più grandi dello Stato originale, e cioè il Ducato di Savoia, che esse fecero regno. Dopo questa forse inutile digressione teorica, veniamo al dunque.

Passato il sessantennale dell’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica e terminate le celebrazioni, necessariamente encomiastiche, posso finalmente dire, augurandomi che in riferimento a detta Costituzione non sia stata adattata per il XX e il XXI secolo la dura condanna risorgimentale: «Ha parlato male di Garibaldi!», tramutata in: «Ha parlato male della Costituzione!». Anch’io, ahimè! Per quella patriottica bugia che ha dovere di dire chi come me abbia ricoperto quasi tutte le cariche dello Stato repubblicano, ho proclamato alto, non credendoci: «La Costituzione italiana del 1948 è la migliore costituzione del dopoguerra e forse di sempre!».

Non mi sento invero di sottoscrivere quanto anni fa detto da uno dei più illustri costituzionalisti inglesi: essere quella italiana la peggiore delle costituzioni adottate dopo il secondo conflitto mondiale dagli Stati europei occidentali e, dopo la scomparsa della Cortina di ferro, anche dell’Est europeo. E ciò anche se ricordo che partecipando da giovanissimo a un congresso internazionale di diritto pubblico e trovandomi insieme ad Antonino La Pergola accanto al grande giurista boemo-tedesco Hans Kelsen, quando un incauto professore definì l’Italia patria del diritto, lo sentii esclamare: «Delle leggi forse, malfatte e peggio applicate da giudici e governanti, ma patria del diritto: Roma sì, ma l’Italia giammai». E quando il professor Antonio Segni e il mio maestro Giuseppe Guarino mi mandarono dal sommo giurista e maestro di morale e di vita Giuseppe Capograssi, egli tentò inutilmente di dissuadermi dal coltivare il diritto costituzionale, affermando che in Italia un diritto costituzionale non sarebbe mai potuto esistere e meno che meno una scienza del diritto costituzionale, poiché nel nostro Paese l’unico criterio interpretativo del diritto costituzionale - e la scienza del diritto costituzionale è in fondo la scienza della interpretazione di esso e della sistemazione delle varie ipotesi interpretative - sarebbe potuto essere soltanto uno: avere la maggioranza nel Parlamento e nel Paese o non averla!

Ciò premesso, ho letto l’interessante articolo sull’erosione tentata dall’attuale maggioranza dei poteri del Presidente della Repubblica, articolo colto invero ma che, a parte i riferimenti politici, riguarda il presidente di un’altra repubblica, non di quella italiana.

Il costituente italiano, respinta ogni ipotesi di repubblica presidenziale o semipresidenziale, ancorché sostenuta nell’assemblea da giuristi quali Calamandrei e Tosato, ma duramente avversata dai comunisti che volevano un tipo di regime ciellenistico - e in parte lo ottennero: e così il presidente del Consiglio italiano, unico caso credo al mondo, può nominare i ministri ma non revocarli! -, adattò alla nuova forma di Stato, quella repubblicana, il modello di Capo dello Stato adottato dallo Statuto Albertino tuttavia, mantenendo nei termini la configurazione che fu sostanziale per un brevissimo tempo, quella di un capo dello Stato che era anche capo dell’esecutivo, fu in breve tempo solo formale, divenendo capo dell’esecutivo il solo presidente del Consiglio dal momento nel quale, credo si trattasse del cattolico liberale Cesare Balbo, egli si dimise per essere stato sfiduciato dalla Camera dei deputati subalpina.

Introducendo così nell’ordinamento statutario, prima per prassi e poi per consuetudine - innovativa o interpretativa lasciamola stabilire ai giuristi! - il principio della responsabilità parlamentare in sostituzione di quello della responsabilità verso il Capo dello Stato e trasformando il regime del Regno di Sardegna da regime «costituzionale puro», come fu poi quello del Regno di Prussia e del II Reich germanico, in un regime parlamentare quale era già quello del Regno Unito, del Regno dei Belgi, del Regno del Württemberg e così via.

E così il costituente, pur volendo chiaramente adottare il regime parlamentare, usò la terminologia dello Statuto Albertino nella sua originaria applicazione di istituente un regime costituzionale puro, o come si direbbe oggi con terminologia «repubblicana»: presidenziale o anche semipresidenziale. E così la Costituzione imputa al Presidente della Repubblica poteri di nomina e altro con l’uso del termine «decreta» e simili. In realtà l’interpretazione dei poteri del Presidente della Repubblica varia secondo i rapporti di forza politici: l’opposizione o anche la maggioranza di sinistra è sempre a favore di un’espansione dei poteri del Capo dello Stato per limitare i poteri del governo.

Quando io, per sfortuna del Paese e mia, ero al Quirinale, l’opposizione di sinistra, che mi era non solo avversa ma nemica!, e la stessa maggioranza di governo che aveva come asse portante la Democrazia Cristiana, partito cui io appartenevo, ma cui divenni rapidamente inviso, erano per l’interpretazione la più restrittiva possibile dei poteri del Capo dello Stato. Faccio degli esempi: i nomi dei comandanti generali dell’arma dei Carabinieri o della Guardia di Finanza o di quelli dei capi di Stato maggiore della Difesa o di forza armata non erano oggetto di una preventiva concertazione o tanto meno dell’ottenimento di un consenso, ma mi erano semplicemente comunicati, quasi sempre oralmente e per telefono, prima dell’inizio del Consiglio dei ministri che avrebbe dovuto nominarli o al massimo la sera prima. Il mio consigliere per gli affari interni, e soltanto perché era un prefetto e solo dopo un’accanita controversia, ottenne che io apprendessi i nomi dei prefetti che dovevano essere destinati alle sedi più importanti non dal comunicato del Consiglio dei ministri, ma da una nota scritta, ma per lo più verbale, indirizzatami poco prima dell’inizio della seduta.

Quando io volli inviare alle Camere un messaggio, il presidente del Consiglio rifiutò di controfirmarlo. E io non mi sono mai neanche lontanamente immaginato di poter concedere una grazia o di poter sciogliere il Parlamento senza la previa proposta del governo! E così mai io nominai un senatore a vita o un giudice costituzionale senza il previo consenso del governo. Mai alcuno pensò che il Presidente della Repubblica potesse giudicare dei presupposti di necessità e urgenza dei decreti-legge e che egli potesse rifiutarne l’emanazione. Quando il governo nominò una commissione ad altissimo livello scientifico, presieduta da Livio Paladin, per chiarire chi in situazioni di emergenza avesse il comando politico effettivo delle forze armate e che portata avesse la disposizione costituzionale che ne attribuiva il comando al Presidente della Repubblica, la commissione concluse i lavori con una dotta relazione nella quale si affermava che il comando attribuito al Capo dello Stato consisteva nel... non avere alcun potere di comando!

Non riesco a capire quindi in che cosa consista: «scalpellare il Quirinale», salvo che si tratti di scalpellare il granito che orna alcune parti del palazzo da macchie di umido o di cacca di uccelli. Certo con Oscar Luigi Scalfaro e poi con Carlo Azeglio Ciampi si ebbe una forte sterzata in senso, per così dire, almeno semipresidenzialista. Sempre però io ho ritenuto, con il grande costituzionalista inglese Walter Bagehot, che le prerogative del Capo dello Stato siano esclusivamente quelle di essere informato su tutto dal governo, dare a questo dei consigli in via riservata e sempre in via riservata metterlo in guardia da iniziative o comportamenti inopportuni; e che dell’esercizio di esse un Capo dello Stato si dovrebbe accontentare.


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