L’Italia frantumata
di MICHELE SERRA *
Esiste una bandiera marchigiana? Qualcuno di voi conosce il vessillo della Calabria? E come sarà l’inno regionale del Lazio? E l’inno del Trentino? Avete mai sventolato il drappo della Liguria? Da qualche parte esisteranno già.
Magari a cura di qualche eccentrico di paese, o di qualche maestro di banda. Ma se anche non esistessero, la bandiera e l’inno di tutte e venti le Regioni italiane, non ha importanza. Li si inventa. La storia italiana recente lo ha dimostrato in modo lampante: la tradizione è una contraffazione di successo.
La Lega ha proposto, con tanto di riforma della Costituzione (articolo 12), di introdurre ufficialmente, accanto al Tricolore e all’inno di Mameli, la bandiera e l’inno di ciascuna regione. La mossa fa parte, insieme a infinite altre, di quella laboriosa costruzione mitica, oramai ventennale, di un’Italia Federale destinata a fare le scarpe all’odiata Repubblica centralista, e a Roma ladrona e padrona. Trasformando confini puramente amministrativi in Patrie e in altrettante Identità Popolari, spremendo e centrifugando ben bene il vecchio localismo italiano, laddove ha ragioni storiche (Veneto, Sicilia) ma anche laddove non è mai esistito: proprio la Lombardia è un caso clamoroso di autonomismo artificiale, inventato di sana pianta, e nella costruzione nazionale fu la regione più vicina, non solo geograficamente, al disegno annessionista dei Savoia.
Di tutto questo, come già detto, alla Lega importa nulla. Per sperimentare quanto fragile sia l’identità nazionale, ha potuto saggiare il grado zero, o quasi, di reattività istituzionale e politica alle sue continue sortite anti-italiane. Dal Parlamento padano alle sparate sediziose di Bossi, dal tasso di xenofobia altamente anticostituzionale (e ciò che è anticostituzionale è anche anti-italiano) alla rimasticazione insieme ottusa e aggressiva dei dialetti come "lingue locali", il partito di Bossi ha messo l’Italia (compresa la maggioranza di italiani che non la sopportano) di fronte a un fatto compiuto. Vent’anni fa, la proposta di bandiere e inni regionali che "correggessero" la presenza dell’odiato Tricolore avrebbe fatto ridere, tal quale gli esami di "cultura locale" ai professori extra-regionali e dunque stranieri.
Oggi queste vere e proprie truffe identitarie sono nell’agenda politica, e come vedete siamo qui a parlarne tutti quanti insieme, gli umbri a domandarsi come diavolo sia l’inno umbro, i campani in cerca sul web dei loro colori regionali, i sardi (i soli ad avercela davvero, una bandiera nazionale, i Quattro mori) a meditare sulla fine ingloriosa del loro autonomismo, grazie alla furba Lega ormai confuso nel corteo posticcio degli autonomismi inventati. Già: perché il risultato di tutto questo agitare bandierine, canzoncine, dialetti, "tradizioni" sortite da bauli fortunatamente dimenticati oppure inventate ex novo, è alla fine la cancellazione delle differenze vere, delle radici autentiche. La minoranza tedesca di Alto Adige (vera) tal quale i finti celti di Calderoli, la complicata ricerca di un’identità sarda (vera) tal quale la fandonia del Dio Eridanio. Frantumi di Italia, briciole di identità, schegge di storia da spargere, come sale, sulle rovine di Roma. Balle locali, balle regionali, balle spaziali.
L’obiettivo (dichiarato) della Lega era puntare a un secessione impossibile, quella della piccola borghesia benestante e riottosa del Nord (ribattezzata da Bossi "popolo padano", non si sa a quale titolo,) per poi ripiegare su una separazione strisciante, senza professori terrori e senza immigrati tra le scatole, camuffata da "federalismo". Tirare in ballo un inno marchigiano o una bandiera molisana, dei quali nessun marchigiano o molisano ha mai avvertito l’esigenza, serve solo a creare quella confusione simbolica e quel caos identitario che stanno avvelenando la Repubblica e ingrassando la Lega e, attraverso di lei, il governo più anti-repubblicano della nostra storia. I professori e i sapienti che stanno lavorando al Centocinquantenario dell’Unità d’Italia sono avvertiti: la Lega è al governo di questo paese. Loro no.
* la Repubblica, 6 agosto 2009