La Chiesa oggi dialogo possibile tra fede e modernità
di Eugenio Scalfari (la Repubblica, 25 ottobre 2012)
È stato molto importante il Sinodo che ha radunato duecentocinquanta Vescovi venuti dai cinque continenti insieme a numerosi teologi e collaboratori. Importante per il tema che dovrà avere concreti seguiti da parte di tutte le Diocesi cattoliche e riguarda una nuova evangelizzazione della fede di cui la Chiesa sente estremo bisogno; ma è importante anche perché ha coinciso con il cinquantenario del Concilio Vaticano II.
I Vescovi riuniti nel Sinodo hanno rievocato il Concilio, ma il Papa stesso lo ha ricordato e insieme a lui i relatori del Sinodo. Sono state formulate molte domande e date molte risposte; domande in alcuni casi volutamente provocatorie e risposte in larga misura discordanti tra loro così come discordanti sono state le interpretazioni sull’essenza del Vaticano II. Alcuni interventi sono stati fatti non solo dai Vescovi e dai teologi del Sinodo ma anche da teologi e Vescovi che ne hanno scritto su giornali cattolici e sulla stampa di informazione e da laici interessati ai temi in discussione.
Insomma sull’attuale stato della Chiesa cattolica l’attenzione del “popolo di Dio”, della gerarchia
che lo guida o pretende di guidarlo e di quanti - credenti o non credenti o credenti in altre religioni
sono interessati al dibattito sui valori della religione, è stata intensa. Vogliamo anche noi cogliere
l’occasione che l’attualità ci offre ed esprimere una nostra valutazione.
Benedetto XVI diffonderà prossimamente un suo nuovo libro sulla figura di Gesù e si è pubblicamente già posto due domande: «Chi siamo noi? Che cos’è la Chiesa?». Nell’attuale crisi di valori queste domande interessano tutti molto al di là dei recinti delle Chiese cristiane che del resto rappresentano la religione storicamente più radicata nel nostro continente, anche se è proprio in Occidente che la sua crisi imperversa ed è l’Occidente l’obiettivo territoriale e culturale della nuova evangelizzazione che il Sinodo ha lanciato. Ce n’è dunque abbastanza per risvegliare il nostro interesse.
* * *
Il Vaticano II durò tre anni. Il Concilio precedente si era svolto novant’anni prima e aveva avuto come risultato più visibile la proclamazione dell’infallibilità del Papa nonché il recepimento delle indicazioni fornite pochi anni prima dal “Sillabo”. L’essenza di quell’imponente raduno di Vescovi e di teologi fu il rafforzamento del centralismo curiale e cioè d’una gerarchia verticistica, depositaria della politica della Santa Sede, e dell’insegnamento cattolico, dell’interpretazione delle Scritture, della formazione del clero e del suo reclutamento, dei tribunali ecclesiastici. Tutto ciò avveniva mentre i Bersaglieri di La Marmora entravano nella città del Papa dalla breccia di Porta Pia abbattendo definitivamente il potere temporale della Chiesa.
Novant’anni dopo il nuovo Concilio indetto da Giovanni XXIII con un obiettivo che non è eccessivo definire opposto al precedente: rilanciare il tema della pastoralità e insieme ad esso quello del confronto e del dialogo con il pensiero moderno: un capovolgimento spettacolare arricchito da molti altri temi affidati allo studio di altrettante commissioni di Vescovi, di teologi, di storici del pensiero religioso. Riguardavano il contributo del laicato cattolico, la posizione della donna nella Chiesa, il celibato dei sacerdoti, la modifica della liturgia, lo sfoltimento e il risanamento della Curia, la diffusione delle Scritture tra i fedeli e quindi il rapporto diretto dei fedeli con Dio senza più il monopolio dell’interpretazione sacerdotale.
Insomma una spinta al rinnovamento che suscitò fughe in avanti e fughe all’indietro dentro il Concilio e fuori di esso. Nel frattempo Papa Roncalli era morto. Paolo VI che gli succedette cercò di impedire e comunque di gestire sia il radicalismo degli innovatori sia quello dei tradizionalisti ad oltranza. In parte ci riuscì anche se si verificò nel frattempo il piccolo scisma dei lefebvriani concentrato sulla liturgia, sulla messa celebrata non più in latino ma nelle lingue parlate nei vari paesi e sul celebrante rivolto verso la platea dei fedeli e non più verso il tabernacolo con i fedeli alle sue spalle.
Non era soltanto una questione di forma, ma di sostanza: la liturgia aveva rappresentato infatti per molti secoli la custodia ben sigillata della ritualità tradizionale. La sua innovazione aveva aperto quella custodia e liberato una creatività che in qualche modo riscopriva il ruolo essenziale del “popolo di Dio” rispetto ai sacerdoti e alla gerarchia. La pastoralità diventava l’elemento essenziale e dunque la predicazione del Cristo e degli apostoli così come le Scritture l’avevano trasmesse, nelle diverse letture che di esse potevano farsi.
Per gli innovatori più radicali quest’apertura della liturgia alla creatività significava qualche cosa di più: il rito diventava subordinato alla pastoralità, cioè al dialogo tra le anime. E Dio perdeva alcuni dei suoi connotati acquistandone altri. Dio perdeva i connotati della nazionalità, perdeva soprattutto l’appartenenza a questa o a quella Chiesa cristiana e perfino a questa o quella religione monoteista.
Il Dio trascendente non poteva esser rivendicato come cattolico o luterano o mormone o battista, ma neppure come ebreo, neppure come musulmano. Dio era ecumenico, il Vaticano II aveva proclamato l’ecumenismo e il dialogo tra le diverse religioni come un obiettivo fondamentale; aveva anche aperto al dialogo con i non credenti. Da un lato con finalità di proselitismo, dall’altro come confronto di anime nel rispetto delle loro credenze o non credenze.
Restava ferma la fede nel Cristo incarnato in Gesù di Nazareth, nel suo sacrificio e nella sua resurrezione. Restava il mistero trinitario, sconosciuto alle altre due religioni monoteiste. Ma attorno a questo pilastro c’era e c’è un amplissimo spazio per il dialogo, il confronto e l’incontro.
* * *
La rievocazione del Vaticano II ha reso attuale un altro tema tutt’altro che secondario: l’apostolicità della Chiesa cattolica. Se quella parola ha un senso - e certamente ce l’ha - significa che la parola dei Vescovi riuniti in apposite sedi è sicuramente consultiva ma può dar luogo anche a deliberazioni che la gerarchia dovrà rendere operative.
Papa Ratzinger che all’epoca del Vaticano II fu uno dei più fervidi sostenitori dei suoi contenuti innovativi, ha colto l’occasione del Sinodo degli scorsi giorni per sottolineare che quella cattolica non è e non dev’essere una Chiesa conciliare; i Concili nella visione del Papa, sono soltanto organi consultivi e così pure i Sinodi e i singoli Vescovi titolari di Diocesi. Il Papa sarà sempre molto sensibile ai loro suggerimenti, ma non si tratta in nessun modo di organi “costituenti”. Quand’anche proclamassero nuovi dogmi, quei dogmi saranno già stati deliberati dal Vicario di Cristo e il Concilio funzionerà soltanto come “amplificatore” di quanto è già stato elaborato e deliberato da chi siede sul trono di Pietro.
Su questo punto tuttavia il dibattito è aperto e chi lo ha posto al centro delle sue riflessioni è stato Carlo Maria Martini, da poco scomparso.
Martini partiva da un dato sorprendente: in duemila anni di storia del Cristianesimo cattolico i Concili sono stati 21, con una media di uno ogni cento anni. Ma la media, come sempre avviene nella statistica, nasconde una realtà storica abbastanza sorprendente: i 21 Concili si sono addensati in certi periodi e in altri non si sono tenuti affatto. Se ne tennero tre o quattro a cavallo del terzo e quarto secolo; altri a cavallo del decimo e undicesimo, altri ancora due secoli dopo. Infine ci fu il Concilio di Trento e poi un salto di quasi trecent’anni, fino al Vaticano I con in mezzo un Conciliofarsa voluto da Napoleone.
Una Chiesa così organizzata si può definire apostolica? I Vescovi sono i discendenti degli apostoli allo stesso titolo per cui il successore di Pietro è il vicario di Cristo in terra. Senza entrare nel controverso tema se si tratti di organi consultivi o deliberanti, resta il fatto che andrebbero convocati (ma possono anche autoconvocarsi) con maggiore frequenza e regolarità. Una delle proposte martiniane fu un Concilio in occasione d’ogni Giubileo e nell’intervallo molteplici Sinodi.
Una Chiesa del genere avrebbe capacità di ecumenismo molto maggiore di quella attuale e vedrebbe aumentare il peso del laicato cattolico, degli oratori rispetto alle parrocchie, della libertà religiosa resa più fertile dalla ravvicinata convivenza tra le varie Chiese cristiane nonché con le altre due religioni monoteistiche. Se il Papa, in quanto Vescovo di Roma, ricevesse la sua preminenza da questo titolo e non soltanto dal Conclave cardinalizio e se anche i Concistori assumessero un più ampio spazio consultivo, ecco che la Curia verrebbe a configurarsi come una sorta d’Intendenza e non come la sede effettiva del potere cattolico.
Sono questioni molto delicate. Non c’è dubbio alcuno che la Chiesa non sarebbe durata duemila anni senza un’architettura centralistica, ma non c’è egualmente dubbio che quell’architettura l’ha coinvolta in un “temporalismo” che spesso ne ha distorto le funzioni ed ha tradito proprio quella predicazione evangelica e quella pastoralità che avrebbero dovuto rappresentare la sostanza del Cristianesimo. La Chiesa delle Crociate, la Chiesa corrotta e simoniaca che dette indegno spettacolo tra il Quattrocento e il Seicento, la Chiesa-Stato che ha rappresentato l’ostacolo principale alla mancata nascita della nazione italiana, la sua partecipazione alle guerre in Europa in subordine a volte alla Spagna a volte alla Francia e infine i roghi dell’Inquisizione e delle streghe, non sono brevi episodi dei quali pentirsi. L’istituzione-Chiesa ha preservato la predicazione e la pastoralità per duemila anni, l’abbiamo già detto, ma il suo costo è stato altissimo e continua in forme per fortuna molto più attenuate ma comunque responsabili della secolarizzazione e dell’allontanamento dell’Europa dall’icona del Cristo crocifisso e poi risorto.
Se proprio l’Europa è diventata terra di missione e di nuova evangelizzazione, un motivo ci sarà. L’architettura distorta della religione non ne è il solo ma certamente ne è uno dei principali.
* * *
Infine il dialogo con la modernità. Non è e non sarà un dialogo facile. La modernità è un’epoca che ha combattuto l’assoluto mettendo al suo posto il relativismo. Ha detronizzato la metafisica, ha sottolineato l’autonomia della coscienza e il desiderio della conoscenza. Ha affidato l’etica all’autonoma responsabilità dell’individuo.
Un dialogo è auspicabile ma difficilmente potrà portare ad esiti positivi se la Chiesa terrà ferma i paletti dei principi non negoziabili.
Il solo principio non negoziabile dal punto di vista della Chiesa è il Cristo figlio di Dio. A me è accaduto da vecchio laico non credente d’incontrare un sacerdote come Carlo Maria Martini con la sua incrollabile fede in un Cristo risorto, da lui definito “sempre risorgente”, quindi non un’icona immobile ma una presenza dinamica da riconquistare quotidianamente.
A quel Cristo sempre risorgente non ho contrapposto ma ho affiancato Gesù di Nazareth, figlio di Maria e di Giuseppe, predicatore e profeta dei deboli, degli oppressi e degli esclusi, figlio dell’uomo.
Questo e non altro è il dialogo possibile tra la modernità e la Chiesa. Il tempo delle evangelizzazioni è finito ed è cominciato invece il tempo delle fertili contaminazioni tra diversi, animati da sentimenti di carità. La carità come la intendeva Gesù quando esortava ad amare il prossimo come si ama se stessi. Per lui quello era il solo modo di adorare il Dio di tutti e di ciascuno. Per noi è la visione del mondo dei giusti, un’utopia che può realizzarsi se ciascuno di noi lo vorrà.