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IN PRINCIPIO ERA IL BEL CANTO...

MUSICA E POESIA. LA NASCITA DEL LINGUAGGIO E LE STRUTTURE BASILARI DELLA METRICA DI OGNI LINGUA. Un intervento di Robert C. Berwick e una nota di Massimo Piattelli Palmarini sul lavoro di Morris Halle - a cura di Federico La Sala

domenica 19 ottobre 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...]
basti pensare alla cantilena che accompagna una strofa poetica come: «Non mi dire, in tristi cifre, che la vita è un sogno vuoto» (Longfellow) o dai toni più familiari: «Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono/di quei sospiri ond’io nutriva ‘l core/in sul mio primo giovenile errore». Se analizziamo la purezza ritmica del testo poetico ecco che udiremo una serie di «accenti ritmici», uno per ciascuna sillaba. Analogamente, la parola «rima» è composta da due sillabe: ri-ma. Come si (...)

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> MUSICA E POESIA. LA NASCITA DEL LINGUAGGIO ---- Michael C. Corballis e Philip Lieberman ribaltano molti dati e inquadrano il linguaggio al termine di un processo evolutivo a lungo dominato dai gesti (di Sandro Modeo).

lunedì 23 marzo 2009

Michael C. Corballis e Philip Lieberman ribaltano molti dati e inquadrano il linguaggio al termine di un processo evolutivo a lungo dominato dai gesti

E l’uomo un giorno incominciò a parlare

Così gli organi della respirazione e deglutizione sono stati «riconvertiti»

di Sandro Modeo (Corriere della Sera, 23.03.2009)

Le muraglie più resistenti, a livello di pregiudizio culturale, sono spesso le più eteree e impalpabili. Così per il linguaggio umano, unicum dell’universo che Cartesio riteneva spiegabile solo come «dono divino»; e che i «neocartesiani» - costellazione vasta e composita, comprensiva di filosofi, linguisti e psicanalisti - continua a inquadrare più o meno come un’entità platonica e astratta, irriducibile alla matassa prosaica del nostro cervello.

Un libro dello psicologo australiano Michael C. Corballis, uscito nel 2002 e appena tradotto da Raffaello Cortina, intitolato Dalla mano alla bocca, può servire non solo a rovesciare la prospettiva, inquadrando nel linguaggio umano uno degli esiti più complessi dell’evoluzione, ma rilancia anche un’ipotesi audace (abbozzata già da Étienne Bonnot de Condillac) che vedrebbe nella parola l’approdo conclusivo di un percorso a lungo dominato dalla gestualità, e per un tratto connotato dal condominio delle due modalità comunicative, come mostrerebbe la nostra abitudine «residuale» di gesticolare conversando, anche al telefono.

Corballis articola la sua tesi per sequenze incalzanti. Vede nell’acquisizione della postura bipede, intorno a 5 o 6 milioni di anni fa (non si sa se in un habitat di savana crescente, con nuove pressioni di fuga e predazione, o in siti semiacquatici, con la camminata conseguente al nuoto) la possibilità di «liberare» gli arti superiori incanalandoli verso la prensione e il lancio, premesse per un salto di manualità tecnologica.

Quindi, individua nella «lateralizzazione» emisferica cerebrale a sinistra - specie nella famosa «area di Broca» - la svolta neuroanatomica decisiva nella scrematura delle funzioni comunicative, in quanto responsabile sia delle «vocalizzazioni» di tante specie animali (da quelle delle scimmie a quelle vertiginose degli uccelli), sia, appunto, del linguaggio gestuale umano, sviluppato a partire da schemi basici quali «l’additare» (per esempio un nemico, una belva, un compagno).

E infine, delinea la genesi della parola (anticipata da ansiti e grugniti) e la sua emancipazione dal gesto dopo dettagliati mutamenti anatomici e neurofisiologici, in un processo graduale giunto a compimento circa 175 mila anni fa: l’abbassamento della laringe, l’allungamento del tratto sopralaringeo e le modificazioni cerebrali (non solo quantitative) legate alla necessità di leggere e decifrare un ambiente carico di nuove e diverse pressioni selettive.

Secondo Corballis, insomma, a un certo punto la matrice «iconica» del linguaggio gestuale (che pure può coprire molte sfumature espressive, come mostrano i 4.500 segni impiegati dai sordi) ha dovuto lasciare il passo a quella «simbolica » della parola, coi suoi molteplici vantaggi adattativi: l’arbitrarietà (e quindi la maggior precisione, per esempio nel nominare frutti e animali), l’impiego al buio e a distanza (capitale nel comunicare stati di allarme) e, viceversa, la graduazione fonetica (il sussurro per non farsi udire).

Ma - ecco il punto - l’incontestabilità di questa successione filogenetica gesto-parola, per Corballis, sarebbe dimostrata dalla controprova ontogenetica del linguaggio infantile: i bambini, infatti - nella loro poderosa scrematura costruttiva, con 10-15 mila vocaboli acquisiti tra l’anno e mezzo e i cinque anni, cioè uno per ogni ora di veglia - impiegano i gesti due o tre mesi prima delle parole.

Per quanto corretto (e seducente) nel dimostrare la sua tesi, Corballis è però parziale nel rendere le origini del linguaggio nell’insieme. Un’utile integrazione viene così da un libro (2006) di Philip Lieberman, docente di scienze cognitive alla Brown University: Toward an Evolutionary Biology of Language («Verso una biologia evoluzionistica del linguaggio», da tradurre al più presto).

Infoltendo e affinando i risultati dei lavori precedenti, Lieberman condivide con Corballis la svolta «cronologica» del linguaggio umano (intorno a 150 mila anni fa), valutandola però più come un’accelerazione in cui diverse strutture fisiologiche preesistenti (cerebrali in particolare) si «riconfigurano» interagendo tra loro in rapporto ai nuovi stimoli, ed esaltando così la facoltà ricombinatoria di quello che François Jacob chiamava il «bricolage» evolutivo. Lo mostra bene - motivo accennato anche da Corballis - la conversione di organi deputati a funzioni primarie quali la deglutizione o la respirazione (dalla lingua alla laringe stessa) in strumenti di emissione e articolazione della parola.

Sono due, per Lieberman, i passaggi decisivi. Il primo è l’incidenza linguistica del cervello antico o «rettiliano», coi «gangli basali» deputati a molte funzioni motorie umane (camminare, correre, danzare, ma anche alla coordinazione delle zampe negli insetti o al trotto-galoppo nei cavalli), dalle quali si sarebbe sviluppata una «sintassi di base», ovviamente in interazione con aree sensoriali-cognitive della corteccia (Broca e Wernicke incluse) e con la memoria (nell’ippocampo). Prova di tale incidenza sono i malati di Parkinson, il cui deficit di dopamina nei gangli basali comporta disturbi cinetici, sintattico- verbali e cognitivi (pensiero rallentato).

Il secondo passaggio è l’azione del gene regolatore FOXP2, a partire, forse, da 100 mila anni fa: gene non specifico dell’uomo (si trova in topi e scimpanzé) né del cervello (viene espresso anche nei polmoni), ma decisivo nel coordinare una dinamica, fondata proprio sui gangli basali, alla base dell’elaborazione del linguaggio. Tutti e due i casi confermano nell’evoluzione (nella selezione) un processo ad altissima flessibilità, in cui ogni struttura - insieme generale e specifica - è coinvolta in più funzioni con ruoli variabili (ora prevalente, ora gregaria, ora addirittura inibita e silente), così come uno strumento, in un’orchestrazione, può essere voce solista, parte della polifonia o «in pausa».

Correggendo e integrando Corballis (vedi la notevole analisi su come il cervello discrimini suono e senso di una voce dall’intricato spettro di segnali acustici del mondo esterno), Lieberman ne rinsalda alla fine le acquisizioni polemiche: sull’inesistenza, per esempio, di una «grammatica universale», smentita sia a livello di linguaggi «segnati» (spesso molto diversi tra loro) sia a livello di lingua parlata (ci sono lingue, come il dialetto indonesiano Riau, che non distinguono nomi, verbi, aggettivi). E più estesamente, i due libri vedono nel linguaggio - sottratto a ogni dimensione trascendente - una lenta, laboriosa conquista del sapiens per riuscire a comunicare, anche a se stesso, i paesaggi emotivi e cognitivi, consci e inconsci, estesi nel rapporto tra il cervello e il mondo.


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