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60° Anniversario della Costituzione - la Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti....

IL "PD" AL CIRCO MASSIMO, CON VELTRONI, PER UNA "OPPOSIZIONE SERENA". UNA MANIFESTAZIONE DI CITTADINI E DI CITTADINE DI UN PARTITO DEMOCRATICO PER L’ ITALIA INTERA - E NON PER UNA ITALIA RIDOTTA A "PARTITO" PERSONALE. Una nota di Giovanni Innamorati - a cura di Federico La Sala

venerdì 24 ottobre 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] Il premier, ha osservato Massimo D’Alema, "ha creato un clima che ha convinto anche gli indecisi" sulla necessità di scendere in piazza. A questo popolo fatto di "persone che sono stanche di essere prese in giro con promesse mai mantenute, come ad esempio l’abbassamento delle tasse", Veltroni parlerà con i toni che ricorderanno quelli della campagna elettorale. Dal palco verranno spiegate tutte le proposte politiche del Pd, "che sono alternative a quelle della destra", ha rimarcato (...)

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> IL "PD" AL CIRCO MASSIMO, CON VELTRONI, PER UNA "OPPOSIZIONE SERENA" .... RIAPRIRE IL FUTURO (di Barbara Spinelli).

domenica 26 ottobre 2008

Riaprire il futuro

di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 26/10/2008)

C’è qualcosa che stona, nello stupore contrariato con cui si reagisce alle occupazioni di scuole e università. Come se la mente non fosse più capace di cercare le cause, negli effetti che ci si accampano davanti. Come se la storia e la realtà si esaurissero interamente nella parte terminale, e alla sorgente non ci fosse nulla. Come se avessimo disimparato ad agire calcolando le conseguenze, presenti e passate. L’occupazione di un’università è una violenza, certo. Si impedisce a chi partecipa in modi diversi alla vita pubblica di farlo, perché gli spazi comuni non lo sono più. Ci si prende un diritto togliendolo a altri. Spetta tuttavia a chi pensa e governa capire perché questo accade. Se non lo fa, non sentirà attorno a sé che lo strepito degli Uccelli di Hitchcock, e non troverà né i mezzi né le parole dell’azione autorevole.

Ben più intelligibile apparirà la realtà, se non ci si ferma all’ultimo tratto della storia. La rabbia degli studenti non è senza rapporto con l’autunno delle finanze e con il crollo, brutale, di certezze ostentate per decenni sulle virtù autoregolatrici del mercato.

Negli interstizi delle rovine nascono fiori neri che riflettono drammi di ieri e di oggi: sono una nemesi, una sorta di giustizia che colpisce le ingiustizie dei progenitori. Ogni nemesi è poco sottile e corre il rischio di farsi usare da difensori di uno status quo che va comunque mutato; ma essa dice anche che non esiste impunità, né nel pensiero né nella prassi.

Non si può impunemente parlare per anni dell’enorme debito lasciato ai figli, e stupirsi che uno degli slogan studenteschi sia: «La vostra crisi non la pagheremo noi». Una classe politica non può impunemente infrangere la legalità, condonare falsi bilanci o conflitti d’interesse, screditare magistrati, e poi meravigliarsi che la cultura della legalità ovunque si sfibri. Non bastano i grembiuli e il 7 in condotta a restaurare la legge lungamente vilipesa. I manifestanti dell’opposizione, ieri, hanno citato le parole di un grande, Vittorio Foa: «Sono un po’ scettico sul linguaggio dei valori che sento in giro: vorrei vedere degli esempi perché è dagli esempi che può nascere qualcosa». La manifestazione è stata un successo imponente: anche questo non stupisce.

Più fondamentalmente: non si può per decenni ripetere il motto di Margaret Thatcher - There is no alternative, non c’è alternativa alle sregolatezze del mercato - e poi fare subitanei dietrofront senza mettere in questione un’ideologia sfociata in disastro: disastro per tanti, specie per gli studenti che il precariato sentono di doverlo proiettare in un avvenire più buio. Fino a oggi, solo l’ex governatore della Federal Reserve, Alan Greenspan, ha riconosciuto «errori nati da ideologie liberiste» durate quarant’anni.

Il ministro Gelmini ha ragione quando dice agli studenti: «Non bisogna creare illusioni che producono poi cocenti disillusioni»; «Non vogliamo vendere promesse che non possiamo mantenere». Non ci sono soldi nelle casse statali per i sogni: né quelli degli studenti né quelli venduti in campagna elettorale, ed è vero che gli studenti vivono in una bolla. Ma cos’è stata la vita delle generazioni dei padri, se non un succedersi prodigioso di bolle e dottrine indifferenti ai fatti? Perché questo sguardo feroce sull’ultima bolla, senza ricordare le rovinose penultime? È qui che salta il nesso tra causa ed effetto, tra chi ha il futuro alle spalle e chi ce l’ha davanti, ma chiuso.

Non sono i tagli alle spese che colpiscono, nella legge Gelmini. È chiaro che urge spender meglio, creare università d’eccellenza, premiare il merito: molti soldi inutili son stati sperperati. Quel che colpisce è il vuoto di pensiero, su quel che significano per il domani italiano e occidentale l’istruzione come la ricerca. Quel che scandalizza è il parlare dell’istruzione più come spesa che come investimento nelle generazioni nuove. Manca un discorso riformatore che annunci: ho questo futuro da edificare per voi, oltre a tagli alla cieca, grembiulini e 7 in condotta.

Manca poi l’uso appropriato delle parole. Guardando agli atenei occupati, il presidente del Consiglio non vede che facinorosi, e con volto torvo (perché così torvo?) prima comunica l’invio della polizia, poi ritratta. Nel frattempo il governo parla di terroristi e fa salire le angosce, prepara al peggio, resuscita l’incubo di Bolzaneto (secondo governo Berlusconi). Il modello non è Greenspan ma i vocaboli eversivi di Cossiga, un ex capo di Stato, sul Quotidiano Nazionale: «Bisogna infiltrare gli studenti con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine, mettano a ferro e fuoco le città (...) Dopodiché, forti del consenso popolare, (...) le forze dell’ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano» (il corsivo è mio).

La strategia non è nuova: far montare la tensione, creare un’ennesima paura che gonfia i sondaggi di popolarità. È da anni che governanti senza bussola usano la paura come dottrina e come prassi. Non si è sentito mai, ultimamente, un politico che magari rimprovera le occupazioni ma dica: il futuro comunque è nella scuola, nei professori. Non s’è sentito perché tempi lunghi e futuro non sono nel suo dizionario. Anche qui, dopo un dominio sì assoluto del presente, non può che esserci nemesi. Frank Furedi, che studia da anni la paura, sostiene che questa volta la sua natura cambia. Dopo l’11 settembre ci fu paura, ma essa restò in fondo personale, solitaria. Oggi è panico da orda in Borsa, ed è «la prima vera paura collettiva, globale». Gli individui hanno più che mai bisogno di comunità, di non esser soli. Il crollo finanziario sfregia fondamenti esistenziali come la fiducia, il debito, la speranza. Il paradosso è che quando crolli non hai molto da perdere, e smetti la paura. I contestatori italiani sentono questo.

Da due secoli, gli studenti in tumulto sono una premonizione e un cimento per tutti. Confermano contraddizioni spaesanti: tutto è al tempo stesso più connesso e più sconnesso di quanto immaginavamo. Che lo vogliano o no, essi sono la futura classe dirigente, l’avvenire che s’impersona. Hanno la speranza, dunque non considerano la società come statica, fatale. Dicono no pregiudizialmente, ma intanto s’allenano a intervenire sulla realtà. Così nasce l’educazione civica, sostiene Michael Walzer. Così ci si abitua a «pensare alla cittadinanza come a un incarico politico»: a pensare se stessi «come futuri partecipanti nell’attività politica, non meramente come spettatori bene informati» (La Stampa 23-10). Nelle aule occupate è stato visto lo slogan di Obama: yes we can. Obama ha successo perché spezza i recinti della paura e ristabilisce il nesso tra cause e effetti, ieri e oggi, padri e figli. Al famoso Joe, l’idraulico arricchito ostile alle tasse, ha detto: «Tu una volta eri tra i meno ricchi, bisognoso della solidarietà dei più abbienti. Prova a pensare al Joe che sei stato».

La novità è qui, nell’invito a vedere nel futuro il nostro ieri. Obama dice alla società civile: sei una risorsa politica solo se scopri quel che in te è statico, immemore, non responsabile; quel che non funziona in te, oltre che nei governi. Gian Enrico Rusconi dice cose simili, su La Stampa del 24 ottobre, quando rammenta che la società civile, sempre e disordinatamente invocata, contiene il meglio e più spesso il peggio. Gli studenti italiani sono attratti dai giovani americani che dopo anni d’apatia si iscrivono in massa a votare. Pare che quel che piace loro in Obama sia il ragionamento difficile, non la semplificazione. È una novità su cui vale la pena riflettere.


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