LA CONTEMPLAZIONE DEI NOMI DI DIO
Dio è impronunciabile.
Dal Cantico di Frate Sole al trattato, ora riscoperto, di Jean-Jacques Olier sugli attributi divini: l’umile risposta cristiana all’ardire cabalistico
di Carlo Ossola (Avvenire, 26.10.2008).
Quand’egli si pronuncia, è la Creazione; o l’irripetibile, l’intraducibile: «Ego sum qui sum» (Esodo, III, 14): «Io sono l’Iosono », «Io sono l’Essente», «Io sono nel mio Essere», tutte lezioni insufficienti. Ed Egli comanda a Mosè: «Sic dices filiis Israel: QUI EST misit me ad vos»: «’Colui che è’, ’l’Essente’, ’il semprePresente’ mi ha mandato a voi».
Al più si può accedere - nelle religioni di ceppo semitico - ai Nomi di Dio, cioè agli appellativi con i quali nelle nostre lingue mortali possiamo evocarne la figura, i meriti, i doni: l’Altissimo, il Misericorde, l’Onnipotente, il Signore. Non è un caso che il primo testo della letteratura volgare italiana, Il cantico di frate Sole, di San Francesco, inizi proprio con la lode dei nomi di Dio e con il riconoscimento della sua impronunciabilità: «Altissimo, onnipotente, bon Signore, / tue so le laude, la gloria e l’onore e onne benedizione. // A te solo, Altissimo, se confàno / e nullo omo è digno te mentovare».
Chi invece ha cercato di permutare - nella tradizione ebraica - con silente calcolo, i segni che compongono il ’tetragrammaton’ (le quattro lettere ebraiche che noi traslitteriamo come ’Iahvé’) per creare dalla lettera sacra il vivente, scienza della Qabbalah, intreccio di numeri e sapienza, ha spesso trovato faustianamente il contrappaso di tale ardire, come ricorda, tra gli altri, Il Golem di Borges: «Il rabbino contemplava la sua opera con tenerezza, / Ma non senza orrore. Fui saggio, / davvero, pensava, nel fabbricare questo sgorbio / e nel lasciare l’Astenersi, sola saggezza?!» (Il Golem).
Si è così sviluppata, sul versante cristiano, una tradizione più umile di ’contemplazione’ degli ’attributi divini’, dei nomi di Dio. In età moderna, Luis de León (1527 o 1528 - 1591) ci ha lasciato un mirabile trattato sui Nomi di Cristo (Torino, Einaudi, 1997), il principale dei quali è di essere il ’volto di Dio’, lettera e figura dunque, ’carattere’ e ’icona’ del divino. Nella stessa tradizione appare ora, al Seuil (Parigi 2008), una mistica contemplazione di Jean-Jacques Olier, la Méthode pour faire l’oraison sur Dieu et sur les Attributs Divins, un inedito che risale al 1656. Olier, nato il 20 settembre 1608, è il fondatore della Compagnia di Saint-Sulpice e l’inedito trattato viene pubblicato per cura di una giovane studiosa italiana, Mariel Mazzocco.
L’orazione segue lo schema canonico di molti cammini di contemplazione del secolo XVII (svuotamento di sé, abbandono, introduzione nel mistero dell’Unità, della Verità, della Perfezione, dell’Infinità, della Semplicità, della Santità, dell’Immensità, dell’Eternità, dell’Amore, della Bontà, della Giustizia, di Dio). Ciò che è nuovo, nella dispositio degli attributi divini, è la conclusione affidata alla Forza di Dio: «Dio facendosi presente in noi è la forza stessa. Egli è l’onnipotente; Egli è l’irremovibile, l’invariabile e l’inflessibile. Di modo che, come l’Inferno nulla può contro di Lui, così nulla può contro una creatura che dimori in Dio. Egli è la sua forza e la sua virtù. Dio mia forza [Ps. 17, 2]».
Lungi dal divenire una corazza di superbia, questa forza divina rende consci della miseria della nostra vana iattanza e introduce meglio al nostro nulla: «Il secondo modo per avere questa forza di Dio in noi è quello di temer molto: è vivere al cospetto della nostra impotenza e del nostro nulla, rimettendoci a Dio e credendo in Lui che tutto può in noi». Pascaliana «grandezza e miseria» dell’uomo davanti a Dio.