Profezia è storia / 6.
Il Nome che si deve imparare
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 6 luglio 2019)
La tentazione di tutti i costruttori di templi è il desiderio di catturare Dio nella dimora che gli hanno edificato. Perché il rischio di ogni teoria e prassi del sacro è la trasformazione della divinità in un bene di consumo. La Bibbia ci ricorda che la presenza di Dio nei templi e sulla terra è una presenza assente, dentro la quale si può compiere l’umile esercizio della fede. Il sacro biblico è un sacro parziale, il tempio è luogo religioso imperfetto. Questa necessaria "castità religiosa", che lascia sempre indigenti e desiderosi del "Dio del non-ancora" mentre se ne sperimenta una certa presenza vera e imperfetta, è stata custodita e coltivata gelosamente dalla Bibbia; e un giorno ha consentito agli ebrei di continuare la loro esperienza di fede anche con il tempio distrutto. La povertà di dover stare in un tempio meno luminoso di quelli degli altri popoli, generò la ricchezza di una religione liberata dal luogo sacro e quindi possibile anche negli esili. Solo gli idoli sono abbastanza piccoli da essere contenuti dai loro santuari. Il Dio biblico è l’Altissimo perché infinitamente più alto di ogni tetto di tempio che gli possiamo costruire.
La dedicazione del tempio avviene durante una grande assemblea di tutto Israele. La liturgia inizia con il trasporto nel tempio dell’arca dell’alleanza, prelevandola dalla tenda dove l’aveva posta Davide: «Il re Salomone e tutta la comunità d’Israele, convenuta presso di lui, immolavano davanti all’arca pecore e giovenchi, che non si potevano contare né si potevano calcolare per la quantità» (1 Re 8,5). L’arca dell’alleanza (che, come ricorda il testo, conteneva "soltanto" le tavole della Legge di Mosè) è sacramento del tempo nomade dell’esodo e del Sinai, è il legame tra passato, presente e futuro. Un altro filo d’oro che unisce il nuovo tempio alla storia antica d’Israele è la presenza della nube: «Appena i sacerdoti furono usciti dal santuario, la nube riempì il tempio del Signore, e i sacerdoti non poterono rimanervi per compiere il servizio a causa della nube, perché la gloria del Signore riempiva il tempio» (8,10-11). La nube, infatti, aveva già riempito la "tenda del convegno" quando Mosè ne ebbe completato la costruzione: «Allora la nube coprì la tenda del convegno e la gloria del Signore riempì la Dimora»; neanche «Mosè poté entrare nella tenda del convegno, perché la nube sostava su di essa e la gloria del Signore riempiva la Dimora» (Esodo 40,34-35).
Il tempio inizia la sua vita pubblica sotto il segno di una radicale ambivalenza. Esso è la nuova tenda del convegno, la nuova dimora dell’Arca e delle tavole della Legge, la casa che custodisce le radici e il Patto. Al tempo stesso, la nube scura dice che il tempio ospita una presenza che pur essendo vera è meno vera dell’assenza del Dio, che è signore del tempio perché non è costretto ad abitarvi. La nube è simbolo della presenza della "gloria di YHWH" e dell’oscurità della nostra capacità di vederlo e di comprenderlo. E così Salomone, in quello che è forse il verso più bello e il senso profondo di tutto questo grande capitolo, può (e deve) esclamare: «Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra? Ecco, i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruito!» (8,27). E così Salomone, nel giorno stesso della dedicazione del tempio, il suo capolavoro religioso e politico, ripete più volte che la "dimora" vera di Dio non è il suo tempio meraviglioso. È questa capacità di continua auto-sovversione che rende la Bibbia viva e capace di sorprenderci sempre.
Un’altra strategia narrativo-teologica per esprimere l’assenza-presenza di Dio è la distinzione tra YHWH e il suo nome. Il nome nella Bibbia dice molte cose, e tutte importanti (la Bibbia è anche una storia di nomi dati e cambiati, detti e taciuti). YHWH, il nome che Dio rivela a Mosè sul Sinai, è rivelazione perché svela e subito ricopre (ri-velare). È un nome/non-nome ("Io sono colui che sono"), che non si lascia manipolare né pronunciare se non nel tempio in speciali occasioni. Il nome svolge allora la stessa funzione della nube: svela e rivela, dice e tace, illumina e abbuia. Ogni volta che un ebreo entrava nel tempio doveva rivivere qualcosa dell’incontro di Mosè con il roveto: un dialogo con qualcuno che arde senza consumarsi, che parla senza esserci: «Siano aperti i tuoi occhi notte e giorno verso questa casa, verso il luogo di cui hai detto: "Lì porrò il mio nome!"» (8,29). Nel tempio c’è il nome di Dio per ricordarci che il Dio del nome non è lì, perché se ci fosse non sarebbe Dio. E se il tempio non contiene Dio, ma solo il suo nome, è possibile pregare e incontrare YHWH ovunque.
La fede biblica ha fatto di tutto per salvaguardare la co-essenzialità della presenza e assenza di Dio. Tutte le deviazioni idolatriche che ha conosciuto lungo la sua lunga storia sono state l’esito dell’uscita della nube dal tempio e dell’illusione che il nome di YHWH fosse YHWH stesso. Quando la nube del mistero si dirada e scompare riusciamo finalmente a vedere gli dèi in una luce chiarissima solo perché sono diventati idoli. Il prezzo del vedere senza la nube è vedere qualcosa di diverso - che ci piace tanto, ma che non è Dio. Finché riusciamo a restare indigenti di fronte a una nube che avvolge il mistero e ad un nome che svela e rivela, possiamo sperare in modo non vano che oltre quella nube e quel nome ci possa essere una presenza viva; quando invece, per vedere meglio, non accettiamo più questa povertà religiosa, quando scacciamo la nube e vogliamo vedere Dio faccia a faccia, quando pronunciando il nome di Dio pensiamo di conoscerlo perfettamente, lì finisce la fede biblica e inizia l’idolatria.
La fede vive nello spazio che si crea tra la nostra sincera esperienza soggettiva di Dio e la realtà di Dio in sé: quando questo spazio si riduce con esso si riduce la fede; quando si annulla, è la fede che si annulla. La pronuncia del nome di Dio ci salva finché teniamo viva la coscienza che tra quel nome e Dio c’è una nube di mistero che non riduce la fede ma la rende umanissima e vera. Sotto il sole l’unica esperienza di Dio che possiamo fare è dentro una nube densa, e il nome al quale Dio risponde è un non-nome che riesce a chiamarlo e svegliarlo finché sa di chiamarlo con un nome imperfetto e imparziale e quindi vero. E poi, se come dice l’Apocalisse, «porteranno il suo nome sulla fronte» (22,4), allora il nome di Dio ce lo rivela l’altro mentre ci guarda in volto - e noi lo riveliamo a lui.
Dentro questo orizzonte di luce e d’ombra, di vicinanza e di distanza, possiamo entrare nella grande preghiera di Salomone nel suo tempio. È una preghiera solenne, abbraccia l’intera storia della salvezza che dall’Egitto arriva fino alla distruzione del tempio di Gerusalemme e all’esilio, e forse oltre. È un canto individuale e collettivo; è ringraziamento, memoria e supplica, con incastonate alcune autentiche perle. Il suo centro è ancora l’esperienza dell’esilio: «Se nella terra in cui saranno deportati, rientrando in se stessi, torneranno a te supplicandoti nella terra della loro prigionia, dicendo: "Abbiamo peccato, siamo colpevoli, siamo stati malvagi", se torneranno a te con tutto il loro cuore e con tutta la loro anima nella terra dei nemici che li avranno deportati ... tu ascolta nel cielo, luogo della tua dimora, la loro preghiera e la loro supplica e rendi loro giustizia» (8,47-49).
È meravigliosa questa preghiera detta da Salomone e scritta da scribi deportati in Babilonia che stavano imparando una lezione essenziale: ci si salva nell’esilio "rientrando in se stessi" e "tornando a te [Dio]". Sono questi i due movimenti primi negli esili, che sono molto più radicali e decisivi del "ritornare a casa". Perché senza il "mi alzerò e andrò da mio padre" (Lc 15, 18), nessun ritorno è ritorno di salvezza - nella Bibbia e nella vita non è sufficiente tornare a casa perché terminino gli esili, come ci ha raccontato anche il Terzo Isaia.
L’esperienza dell’esilio ispira anche l’altra splendida preghiera di Salomone per lo straniero: «Anche lo straniero, che non è del tuo popolo Israele, se viene ... a pregare in questo tempio, tu ascolta nel cielo, luogo della tua dimora, e fa’ tutto quello per cui ti avrà invocato lo straniero» (8,41-43). Se la dimora di Dio è "il cielo" (ritornello costante) allora ogni uomo sotto il sole lo può pregare, perché questo Dio non è più imprigionato dai confini nazionali e il suo regno è la terra intera. Sono questi brani ispirati da una religiosità universalistica e inclusiva, scritti da un popolo che stava ricostruendo attorno al suo Dio diverso la sua identità nazionale ferita mortalmente, che fanno della Bibbia qualcosa a sua volta diverso da un libro che narra le vicende storiche e teologiche di un singolo popolo. Queste frasi, queste preghiere, potevano e dovevano non esserci in questi libri storici; e invece ci sono, come "fiori del male" generati lungo i fiumi di Babilonia. Solo un popolo che aveva conosciuto l’umiliazione di sentirsi straniero in un grande impero dai grandi dèi, poté capire che se c’è un Dio vero e se la terra non è solo popolata di idoli, allora questo deve ascoltare la preghiera di ogni persona; perché se il mio Dio non ascolta lo straniero allora non ha orecchie capaci di ascoltare neanche me, perché, semplicemente, è un banale idolo che sa operare solo dentro il suo finto recinto sacro. La fede biblica degli esiliati comprese che il suo Dio era diverso perché stava diventando il Dio di tutti.
L’umanesimo biblico e il cristianesimo ci hanno detto e ridetto che se c’è un Dio vero, deve essere il Dio di tutti. Lo sapevamo, ma lo abbiamo imparato veramente durante le guerre, le deportazioni, i campi di prigionia, nei soldati "nemici" nascosti dentro le nostre case, quando abbiamo saputo leggere, nel grande dolore, il "nome di Dio" sulla fronte di chi bussava alla nostra porta, di chi arrivava ai nostri confini e nei nostri porti. I nostri nonni e i nostri genitori lo avevano imparato, e su questa lezione della carne e del sangue hanno costruito e ricostruito l’Europa. Noi lo abbiamo dimenticato. Ma forse nel lungo esilio dell’umano che stiamo attraversando potremo ancora reimparare quel Nome.
Sul tma, nel sito, si cfr.:
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala