di Gianfranco Ravasi (Il Sole 24 Ore - Domenica, 20 maggio 2012)
La critica a un’informazione spesso approssimativa, superficiale, prevenuta e fin ostile per ragioni di principio, non deve quindi esimere la comunità ecclesiale da una ferma autocritica nei confronti dei propri limiti. Le evidenti incomprensioni che allignano nella società non devono produrre un rassegnato vittimismo e neppure un’altezzosa noncuranza del fenomeno. Anche se l’odierna esasperazione della comunicazione, la sua accelerazione ed estensione costituiscono una novità, nella sua sostanza, un fenomeno costante che risale alle origini stesse della cristianità. Quella che appare ai nostri occhi come la primavera della Chiesa (e che per molti versi lo era) fu una stagione tutt’altro che idilliaca, sottoposta a gelate, a tempeste, a devastazioni. E questo non solo a livello di vita ecclesiale: emblematiche sono le divisioni accese che frantumavano la Chiesa di Corinto, fieramente denunciate da san Paolo (1 Corinzi 1, 10-16).
La crisi si manifestava anche a livello di comunicazione, e l’apostolo lo conferma a più riprese
puntando l’indice contro una serie di deviazioni dottrinali e morali che si ramificavano attraverso
l’oralità, il medium allora dominante, «turbando e sovvertendo» (Galati 1, 7), «provocando divisioni
e ostacoli contro l’insegnamento appreso» (Romani 16, 17), «incantando gli stolti» cristiani della
Galazia (Galati 3, 1). Il fascino della stravaganza e dell’eccesso attirava già allora, al punto che san
Paolo polemizza con alcune comunità cristiane nelle quali «ci si circonda di maestri secondo i
propri capricci, rifiutando di dare ascolto alla verità per perdersi dietro alle favole» (2 Timoteo 4, 3-
4). Anzi, la forza «performativa», cioè efficacemente incisiva, della comunicazione - soprattutto nei
confronti delle persone più indifese - è rappresentata senza reticenze nel suo versante negativo al
l’interno della stessa lettera indirizzata da san Paolo al collaboratore Timoteo: «Vi sono alcuni che
entrano nelle case e circuiscono certe donnette cariche di peccati e in balia di passioni di ogni
genere, sempre pronte a imparare, ma che non riescono mai a giungere alla conoscenza della verità»
(3, 6-7). In quel contesto di comunicazione viziata, già allora non si esitava ad adottare la pura e
semplice falsificazione a livello di massa: nella comunità cristiana di Tessalonica circolano persino
dice l’apostolo - «alcune lettere fatte passare come nostre», tali da «confondere la mente e
allarmare» (2 Tessalonicesi 2, 2), tanto è vero che san Paolo si vede costretto ad apporre ai suoi
scritti - dettati, com’era prassi, a uno scriba - una specie di autenticazione: «Il saluto è di mia mano,
di Paolo. Questo è il segno autografo di ogni mia lettera; io scrivo così» (2 Tessalonicesi 3, 17);
«vedete con che grossi caratteri vi scrivo di mia mano» (Galati 6, 11). L’«adulterazione» del
messaggio secondo forme ingannevoli era una vera e propria piaga che attecchiva in varie Chiese
delle origini (2 Corinzi 4, 2). Il monito è, perciò, costante: «Fate attenzione che nessuno faccia di
voi sua preda con la filosofia e con vuoti raggiri... Nessuno vi inganni con parole vuote» (Colossesi
2, 8; Efesini 5, 6).
La comunicazione malata, le incomprensioni e le degenerazioni sono quindi un dato permanente e forse scontato non solo nel confronto con l’esterno, ma anche all’interno stesso della Chiesa. A questo punto vorrei apporre al nostro itinerario molto variegato, e forse anche un po’ disperso e dispersivo, una nota conclusiva, che vuole avere un sapore «controcorrente». Dopo aver trattato tanto di parole, di informazione, di comunicazione, vorrei infatti far entrare in scena l’antipodo, ossia il silenzio.
In uno dei suoi Shorts il poeta inglese Wystan H. Auden confessava: «Bisognosi anzitutto / di silenzio e di calore, / produciamo / freddo e chiasso brutali». Il filosofo Friedrich W. Nietzsche osservava che «è difficile vivere con gli uomini perché è assai difficile farli stare in silenzio». Il vaniloquio filtrato dai cellulari, il flusso incessante delle notizie, il chattare senza tregua e senza contenuti veri, ma spesso solo in una marea di fatuità e vacuità, il fiume limaccioso delle volgarità o quello fangoso delle falsità fanno venire talvolta il desiderio che, per questa società della comunicazione di massa superinflazionata, si compia quanto si annuncia nel libro dell’Apocalisse: «Si fece silenzio nel cielo per circa mezz’ora» (Apocalisse 8, 1).
È come se nell’etere risuonasse un poderoso: «Zitti!», così da bloccare ogni sproloquio per almeno mezz’ora. La parola autentica e incisiva, in verità, nasce dal silenzio, ossia dalla riflessione e dal l’interiorità, e per il fedele dalla preghiera e dalla meditazione. In mezzo al brusio incessante della comunicazione informatica, alla chiacchiera e all’immaginario televisivo e giornalistico, al rumore assordante della pubblicità, il cristiano (ma non solo) deve sempre saper ritagliare uno spazio di silenzio «bianco», che sia - come accade a questo colore che è la sintesi dello spettro cromatico - la somma di parole profonde, e che non è il mero silenzio «nero», cioè l’assenza di suono.
Il Dio dell’Oreb si svela a Elia non nelle folgori, nel vento tempestoso e nel terremoto bensì in una qôl demamah daqqah, in «una voce di silenzio sottile» (1 Re 19, 12). Anche la sapienza greca pitagorica ammoniva che «il sapiente non rompe il silenzio se non per dire qualcosa di più importante del silenzio». È solo per questa via che sboccia la parola assennata e sensata. Solo così si compie la scelta di campo sottesa a un famoso detto rabbinico: «Lo stupido dice quello che sa; il sapiente sa quello che dice».