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FILOSOFIA E SCIENZE SOCIALI....

CHIARIMENTI SUL RELATIVISMO CULTURALE. NOTE PER UN’ANTROPOLOGIA SIMMETRICA E RIFLESSIVA. Un saggio di Annamaria Rivera - a cura di Federico La Sala

giovedì 6 novembre 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] In una frase folgorante, a conclusione del suo intervento su "Razzismo e cultura", pronunciato al primo Congresso degli scrittori e degli artisti neri (Parigi, 1956), Frantz Fanon indica una strada per la soluzione del dilemma universale/particolare: "Per concludere, l’universalita’ risiede in questa decisione di accettare la reciproca relativita’ di culture diverse, una volta abolito irreversibilmente lo statuto coloniale" (Fanon 2006, p.
55).
A giusta ragione, egli parla non di (...)

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> CHIARIMENTI SUL RELATIVISMO CULTURALE. NOTE PER UN’ANTROPOLOGIA SIMMETRICA E RIFLESSIVA. --- Il sacro, la morte e la storia: tra Eliade e de Martino (di Andreas Iacarella - "Pandora Rivista")

domenica 8 gennaio 2023

Il sacro, la morte e la storia: tra Eliade e de Martino

Scritto da Andreas Iacarella (Pandora Rivista, 03 Aprile 2021)

Sui rapporti e le distanze tra l’approccio storiografico dell’etnologo napoletano Ernesto de Martino (1908-1965) e dello storico delle religioni romeno Mircea Eliade (1907-1986) sono state spese molte e solidissime pagine[1]. La recente pubblicazione di due volumi spinge però a riproporre il discorso, provando ad offrire al lettore meno esperto alcuni spunti di riflessione, anche in una chiave di stretta attualità. Il demartiniano Morte e pianto rituale ha appena trovato una nuova veste editoriale, che in parte ne ha corretto il titolo[2]. Poco più di un anno fa è invece uscito, per Adelphi, il carteggio inedito tra Eliade ed Emil Cioran[3].

I due testi sono estremamente distanti per natura e composizione, ma la loro uscita quasi sincrona sembra suggerire un rinnovato, ma sarebbe meglio dire mai cessato, interesse per i temi trattati dai due autori. Nel dibattito accademico italiano, il confronto tra la concettualizzazione della storia delle religioni avanzata da de Martino e quella eliadiana si può dire un tema ormai classico. Siamo però convinti che di questo scontro culturale, portatore di due diverse e inconciliabili visioni della storia e dell’azione umana, poco o nulla sia giunto al lettore comune. È con questa convinzione che vorremmo riproporre alcuni termini della questione, con l’intento di mostrare come dietro quello che può apparire un dibattito squisitamente accademico, si celino in realtà le basi di uno scontro culturale dalle radici molto più profonde.

Due romeni della «giovane generazione», gettati dalla sorte in Occidente, elaborano simultaneamente, l’uno, la più precisa autopsia del cristianesimo, e l’altro, il tentativo più disperato di riattualizzarlo attraverso la «storia comparata delle religioni». Forse sarà così che entreremo tutt’e due nella Storia della Chiesa![4]

Con questa lettera, che Eliade scrive a Cioran il 19 maggio del 1969, possiamo cominciare a ragionare sul percorso intellettuale dello studioso romeno. In poche righe, egli dà il senso della sua intera opera intellettuale: la riattualizzazione della teologia cristiana, attraverso il recupero delle disperse e variegate «sopravvivenze di “religiosità cosmica”»[5] (in primis, lo yoga e lo sciamanesimo).

Quando scriveva questa lettera, lo studioso romeno conduceva da più di dieci anni una vita agiata negli Stati Uniti, lavorando come docente di storia delle religioni presso l’Università di Chicago e tenendo conferenze e convegni in giro per il mondo. Il momento più difficile della sua esistenza, quando era stato esule a Parigi dopo la Seconda guerra mondiale, era ormai alle spalle. A partire dagli anni Cinquanta, Eliade era andato conquistando un pubblico sempre più vasto, anche al di fuori degli ambienti universitari; le sue opere più importanti[6] erano tradotte e apprezzate in un numero crescente di paesi.

Stupisce, nello sfogliare le pagine dell’epistolario, l’esiguità dei riferimenti al movimento del ‘68 [7], sul quale pure Eliade doveva avere un punto di vista privilegiato. Stupisce in modo particolare se si considera che del ‘68 statunitense, o meglio delle controculture di cui questo si nutrì, Eliade era stato un fondamentale ispiratore. Ma procediamo con ordine.

Al centro, a fondamento, dell’intera riflessione eliadiana c’è lo sforzo inesausto di connotare l’essere umano non come homo faber, come aveva fatto il materialismo storico, ma come homo religiosus, affermando dunque il primato antropologico del sacro.

È difficile immaginare [...] come lo spirito umano potrebbe funzionare senza la convinzione che nel mondo vi sia qualcosa di irriducibilmente reale; ed è impossibile immaginare come la coscienza potrebbe manifestarsi senza conferire un significato agli impulsi e alle esperienze dell’uomo. La coscienza di un mondo reale e dotato di significato è legata intimamente alla scoperta del sacro. Mediante l’esperienza del sacro lo spirito umano ha colto la differenza tra ciò che si rivela reale, potente, ricco e dotato di significato, e ciò che è privo di queste qualità: il flusso caotico e pericoloso delle cose, le loro apparizioni e le loro scomparse fortuite e vuote di significato» [...] In altre parole, essere - o piuttosto divenire - un uomo significa essere “religioso”[8].

Come ha ben sintetizzato in una recente intervista Leonardo Ambasciano, la metodologia eliadiana è «epistemologicamente fondata su assunti extra-scientifici (e perciò di facile presa)» e si fonda su un «modus operandi teologico e finalistico», basato «sul collasso dell’approccio etico su quello emico». Eliade propone dunque una sostanziale indistinzione tra il punto di vista dello studioso e quello dei soggetti studiati, legittimando di fatto in ambito accademico «credenze fideistiche ed ideologiche»[9].

Qui si consuma il salto, che Eliade compie, dal prodotto scientifico a quello letterario a larga diffusione, che però sottende un preciso progetto teologico-politico. «Mi piacerebbe che questo libro fosse letto dai poeti, dai drammaturghi, dai critici letterari»[10], scriveva il pensatore romeno nel giugno del 1949 a proposito di Le chamanisme. Come ha osservato Sergio Botta, la concettualizzazione eliadiana, generalizzante e decontestualizzante, di nozioni come quella di sciamanesimo «emergeva dunque anche nella sua qualità di prodotto letterario», ambendo di fatto a «tracciare una via estetica capace di rinnovare la funzione arcaica e originaria della poesia per riconsegnarla all’uomo contemporaneo»[11]. Questa creatività sciamanica avrebbe permesso anche all’uomo delle società industriali di nutrire la propria “nostalgia delle origini”[12], accarezzando il sogno di un ritorno a un tempo paradisiaco ormai perduto. Per Eliade, «la nostalgia del Paradiso non era [...] appannaggio esclusivo dei mistici, ma dell’umanità intera»: la sua proposta, politica e di studioso a un tempo, si nutriva del desiderio di offrire una strada per l’abolizione della «condizione umana attuale - il Tempo e la Storia - per ritrovare una beatitudine primordiale»[13].

Nessuno stupore che questa mistica ad uso dell’uomo contemporaneo, che aveva però tutti i crismi dall’accademia, facesse presa sui movimenti controculturali giovanili, statunitensi in modo particolare. Lo yoga, lo sciamanesimo, la nostalgia delle origini: «Le lezioni americane di Eliade [...] suscitarono [...] grande entusiasmo giacché fornivano un linguaggio scientifico fondato su una condivisa proposta antimoderna» e irrazionalista[14]. La sua aspirazione di essere letto da poeti e artisti poteva dirsi raggiunta.

Sebbene la messa in relazione dell’elaborazione teorica di un pensatore con le sue esperienze politiche e di vita sia sempre una questione problematica[15], nel caso di Eliade questo nesso sembra irrinunciabile per comprendere a fondo le basi della sua prospettiva. Nella sua militanza giovanile nella natìa Romania, lo studioso aveva abbracciato pienamente la proposta politica di Codreanu e della Guardia di ferro, organizzazione fascista e antisemita. A sedurlo, secondo Alexandra Laignel-Lavastine, era stato «il fatto che il fascismo si presenta[va] come “rinascita spirituale” e rivoluzione cristiana, una rivoluzione “ascetica e virile” dirà nel 1937»[16]. La studiosa ha accuratamente ricostruito la parabola giovanile dello storico delle religioni attraverso l’analisi di articoli, lettere, discorsi: ne emerge quella che l’autrice definisce una figura di un «tipico rappresentante» del «fascismo spirituale»[17]. Giudeofobico, profondamente razzista e nazionalista, antiparlamentarista, Eliade vedeva nell’affermazione di un regime totalitario di stampo cristiano l’unica possibile salvezza, in senso politico ed escatologico, della nazione romena e del mondo tutto. Questi ideali lo studioso continuerà a perseguirli apertamente, prima attraverso l’appoggio al regime di Ion Antonescu, e poi nella celebrazione della dittatura salazarista in Portogallo (dove fu impiegato come consigliere culturale dell’ambasciata durante il conflitto mondiale)[18].

Dopo la fine della guerra, Eliade dovrà faticare non poco per far “dimenticare” questo passato ma, come visto, il suo seguito di studioso fu infine estremamente ampio. Quello che appare non questionabile è, però, che anche in questa seconda fase della sua vita Eliade resterà profondamente legato alle sue convinzioni giovanili. Le traslerà, certo, su un piano altro, in apparenza puramente accademico. Ma l’«avversione [...] per la storia, considerata come una dimensione inessenziale»[19], e il tentativo di porre il sacro come apriori umano resteranno delle costanti del suo pensiero. Il suo antistoricismo militante prende la forma di un pessimismo «“esistenziale”» che si «sostanzia nella “nostalgia” del tempo perduto delle origini, nel dolore del ritorno che non ritorna elevato a categoria dello spirito, nell’anelito verso una irraggiungibile condizione aurorale impregnata di quella sacralità» ormai irrintracciabile nel mondo moderno[20]. Non una semplice storia delle religioni in ottica comparativa, dunque, ma un preciso progetto culturale e politico. Come ebbe a dire Pettazzoni in un appunto: «Eliade è un cripto-teologo cristiano (ortodosso)», «le sue teofanie implicano un destino trascendente che si rivela»[21]. Non stupisce che, essendosi nutriti di un tale antistoricismo, veicolato anche da altri autori, i giovani hippyes americani abbiano rinunciato a qualsiasi ipotesi di un’azione realmente trasformativa sul reale, limitandosi all’adozione di nuovi vangeli antimoderni (vedi le prospettive sciamaniche di personaggi come Michael Harner e Carlos Castaneda)[22].

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