Il sacro, la morte e la storia: tra Eliade e de Martino
Scritto da Andreas Iacarella (Pandora Rivista, 03 Aprile 2021)
Credo sia opportuno a questo punto introdurre il secondo protagonista della nostra trattazione, Ernesto de Martino, chiarendo le ragioni di questa opposizione tra le due figure. Come ha notato lo psichiatra Nicola Lalli, il sacro, che abbiamo visto essere la dimensione essenziale dell’essere umano per Eliade, è un meccanismo che «si è sviluppato nel corso dell’evoluzione dell’uomo come difesa contro l’angoscia dell’evento morte»[23]. Si tratterebbe però, per l’appunto, di un «meccanismo difensivo». In Morte e pianto rituale, de Martino sottopone ad analisi i processi culturalmente definiti di elaborazione del lutto, in particolare l’istituto del cosiddetto pianto rituale, ricollegando le forme residuali da lui studiate in Basilicata con il lamento funebre praticato nelle società agricole del Mediterraneo antico.
L’etnologo pone così come centrale non una dimensione del sacro aprioristica, connotata come negazione della morte, bensì l’esigenza umana di elaborazione del lutto, evidenziando le diverse declinazioni culturali che questa assume. Nella prospettiva demartiniana la dimensione essenziale e universale può essere allora indicata proprio nello sforzo di superamento del momento critico della morte attraverso l’attribuzione al defunto di una “seconda morte”, culturalmente connotata, che permetta al singolo di portare a compimento un processo di separazione.
Nella morte della persona cara siamo perentoriamente chiamati a farci procuratori di morte di quella stessa morte, sia destinando ad una nuova riplasmazione formale la somma di affetti, di comportamenti, di gratitudini, di speranze e di certezze che l’estinto mobilitò in noi finché fu in vita, sia facendo nostra e continuando ad accrescere nell’opera nostra la tradizione di valori che l’estinto rappresenta. Indipendentemente dalla situazione luttuosa come tale, è appunto questa la varia fatica che ci spetta in ogni momento critico dell’esistenza, che è sempre un attivo far passare nel valore, e quindi un rinunziare e un perdere, un distacco e una morte, e al tempo stesso una opzione per la vita[24].
Credo sia già evidente la distanza che intercorre tra la proposta demartiniana e quella eliadiana. La morte, come dato biologico inevitabile e ateisticamente riconosciuto, che esige però una risposta vitale umana, è al centro del pensiero dell’etnologo. Il sacro eliadiano opera invece una vera e propria rimozione del concetto.
Questa diversa prospettiva porta ovviamente i due autori all’edificazione di un’antropologia, e dunque a una concettualizzazione della storia, radicalmente opposta. Parlare di morte ha, seguendo la ricerca di de Martino, un senso più ampio: ha il valore di considerare a fondamento dell’esperienza umana lo sforzo di oltrepassamento di ogni momento critico, che impone all’uomo una separazione da quanto si è stato e una necessaria riproposizione in termini nuovi del proprio esserci. La presenza nel mondo come essere umano dotato di senso non è dunque un dato acquisito una volta per tutte, ma una sfida trasformativa continua.
Il rischio di non esserci è studiato da de Martino inizialmente nelle culture tradizionali, in cui erano operanti istituti magici, ma è da subito presentato in una dimensione più universale. La crisi della presenza si verifica in tutti quei «momenti critici» dell’esistenza in cui si manifesta il divenire: da quelli più legati al rapporto uomo-natura (le difficoltà incontrate dall’agricoltore o dal cacciatore), a quelli più squisitamente esistenziali, i «rapporti sessuali» e la «crisi della pubertà», il «rapporto con lo straniero», la «guerra alla malattia e alla morte»[25]. In tutti questi momenti, scrive l’etnologo, «la storicità sporge [...], il compito umano di “esserci” è direttamente e irrevocabilmente chiamato in causa, qualche cosa di decisivo accade o sta per accadere, costringendo la stessa presenza ad accadere, a sporgere a se stessa, a impegnarsi e a scegliere»[26].
La storia umana è dunque, per de Martino, storia di evoluzione e trasformazione. Non è e non può essere pensata come ritorno indietro, ciclico ripresentarsi di situazioni già date, né a livello collettivo, né tanto meno a livello individuale. Questo è invece quanto, di fondo, proponevano coloro che erano da lui criticati come irrazionalisti, da van der Leeuw a Eliade stesso. Essi erano definiti dall’etnologo come fautori della ripetizione e portatori di una «fobia della prima volta» e del nuovo[27]. Il pensiero demartiniano, fondendo altezze teoriche e consapevolezza politica, afferma che la storia è tale solo in quanto storia umana, incarnata e trasformativa. E l’uomo non è riproposizione di categorie spirituali o proiezioni extramondane, la lotta per la presenza lo qualifica interamente.
Di fronte ai canti popolari sulle nascite e infanzie miserande, de Martino avverte che sarebbe sbagliato ricollegarle al Geworfenheit heideggeriano, alla deiezione. Il problema non è quello esistenzialista, «di cercare dei complementi teologici al non starci nel mondo, ma - semplicemente - di trasformare il mondo per starci tutti da uomini»[28]. L’esserci nel mondo dunque non è puro negativo, come voleva Heidegger, ma non è neppure datità indiscutibile[29]: è una lotta continua di affermazione di sé. Nel fare questa scoperta, de Martino pone due principi alla base dell’umano: crisi della presenza come momento negativo, di labilità, del quale analizza la risoluzione che storicamente se ne è data in chiave mitico-rituale; ed ethos del trascendimento, come proposta di una prassi trasformativa e valorizzante connaturata all’uomo nel suo agire nel mondo e nei rapporti. Risulta quindi chiaro quando scrive che il «fondamento dell’umana esistenza non è l’essere ma il dover essere, cioè quello slancio valorizzatore intersoggettivo della vita»[30].
La riflessione ultima di de Martino, ha scritto Carla Pasquinelli, «segna la morte del sacro»: l’«ethos del trascendimento diventa la forma attraverso cui l’uomo accetta di stare nella storia in una maniera che non sia pura ripetizione e imitazione del passato»[31]. All’ethos spetta il compito di fondare la presenza, ma al tempo stesso di plasmare un mondo in cui essa possa darsi[32].
Com’è noto, de Martino provò a mettere a frutto questa sua concezione progressiva dell’essere umano e della società in una concreta azione politica: dopo la giovanile infatuazione per la “religione civile” fascista, si avvicinò al Partito d’azione e partecipò attivamente alla Resistenza, con il Partito italiano del lavoro, fu poi segretario di federazione, in Puglia, per il Psi e infine aderì al Pci[33]. Da queste esperienze politiche uscì sempre deluso, vivendo una profonda solitudine umana e di pensiero. Come ha scritto ancora Pasquinelli: «De Martino è solo, perché non c’è nessuno che capisca quello che dice, nessuno che riesca a interpretare il suo linguaggio cifrato, nessuno in grado di fargli da sponda e rimandargli un’immagine minimamente corrispondente allo stato della sua riflessione»[34].
La ripubblicazione, oggi, di Morte e pianto rituale può essere però occasione di un proficuo ripensamento. «È l’elaborazione del lutto [...] che permette, separandosi dal passato, di vivere il presente. È l’elaborazione del lutto che permette di vivere il presente come attimo vitale», di vivere il «tempo dell’uomo (come vissuto e come storia)»[35]. Quella che l’antropologia demartiniana propone è una storia in cui esserci tutti da uomini, una storia da plasmare e riplasmare attraverso l’ethos del trascendimento. La proposta eliadiana, al contrario, sembra riproporre la staticità di un tempo circolare al quale fare ritorno, l’impossibilità di un movimento di liberazione umana. Le due diverse prospettive sono fautrici, in chiave politica, di un opposto sguardo sull’uomo e sul mondo: il tempo sospeso del sacro, con le sue fantasticherie immortaliste, promuove un’abolizione della nozione di storia e, di conseguenza, invalida in partenza ogni opzione trasformativa sul reale. Che questa prospettiva, debitamente camuffata e riadattata, sia stata quella maggiormente adottata dalle controculture giovanili degli anni Sessanta può forse aiutare a comprendere le ragioni di un’azione che non ha saputo farsi concretamente politica, ma anzi ha consumato la sua parabola passando dalla contestazione dell’istituzione al farsi istituzione essa stessa. Ma se la battaglia culturale è stata vinta, nei decenni scorsi, dal pensiero di Eliade, forse oggi i tempi sono maturi per una riscoperta di quello di de Martino. Una nuova antropologia in cui la crisi e il suo creativo superamento siano posti come fondamento dell’umano agire nel mondo. Della riscoperta di un tale pensiero progressivo si sente, oggi, sempre più l’esigenza.
[1] Si vedano, tra gli altri: P. Angelini, L’uomo sul tetto. Mircea Eliade e la «storia delle religioni», Bollati Boringhieri, Torino 2001, pp. 77-139; A. Testa, “Le destin tylorien. Considérations inactuelles sur la realité de la magie”, Etnographiques.org Revue en ligne de sciences humaines et sociales, 21 (2010).
[2] E. de Martino (1958), Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, a cura di M. Massenzio, Einaudi, Torino 2021.
[3] E. Cioran, M. Eliade, Una segreta complicità. Lettere 1933-1983, Adelphi, Milano 2019.
[4] Ivi, p. 131.
[5] P. Angelini, L’uomo sul tetto, cit., p. 102.
[6] Tra i suoi filoni di ricerca principali quello sullo yoga, che lo impegnò sin dalla tesi dottorale, e sullo sciamanesimo. Si vedano in particolare: M. Eliade, Technique du Yoga, Gallimard, Parigi 1948; Id., Le chamanisme et les techniques archaïques de l’extase, Payot, Parigi 1950 (2° ed. 1968); Id., Le Yoga. Immortalité et liberté, Payot, Parigi 1954 (2° ed. 1968)
[7] E. Cioran, M. Eliade, Una segreta complicità, cit., pp. 117-120, 122-123, 127.
[8] M. Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, vol. 1, Dall’età della pietra ai Misteri Eleusini, Sansoni, Firenze 1979, p.7.
[9] E. Manera, “L’eredità di Eliade. Intervista a Leonardo Ambasciano”, Doppiozero, 12 aprile 2017. Si veda, inoltre: L. Ambasciano, Sciamanesimo senza sciamanesimo. Le radici intellettuali del modello sciamanico di Mircea Eliade: evoluzionismo, psicoanalisi, te(le)ologia, Nuova cultura, Roma 2014.
[10] M. Eliade, Giornale, Bollati Boringhieri, Torino 1976, p. 78.
[11] S. Botta, Dagli sciamani allo sciamanesimo. Discorsi, credenze, pratiche, Carocci, Roma 2018, p. 112.
[12] Vedi: M. Eliade, La nostalgia delle origini. Storia e significato nella religione, Morcelliana, Brescia 2000.
[13] S. Botta, Dagli sciamani allo sciamanesimo, cit., p. 112.
[14] Ivi, p. 118.
[15] Su questo, si vedano gli spunti in: P. Gramigni, “Prefazione”, in A. F. Iannaco, Hegel in viaggio da Atene a Berlino. La crisi di ipocondria e la sua soluzione, L’asino d’oro edizioni, Roma 2021, pp. XVII-XVIII.
[16] A. Laignel-Lavastine, Il fascismo rimosso: Cioran, Eliade, Ionesco. Tre intellettuali rumeni nella bufera del secolo, Utet, Torino 2008, p. 150.
[17] Ivi, p. 178.
[18] Vedi: M. Eliade, Diario portoghese, Jaca Book, Milano 2009.
[19] M. Carloni, “L’archivista del sacro”, in E. Cioran, M. Eliade, Una segreta complicità, cit., p. 289
[20] A. Testa “Estasi e crisi. Note su sciamanesimo e pessimismo storico in Eliade, de Martino e Lévi-Strauss”, in L. Arcari, A. Saggioro, Sciamanesimo e sciamanesimi. Un problema storiografico, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2015, p. 109.
[21] Cit. in: L. Arcari, “Chamanisme di Mircea Eliade alla prova della comparazione. L’assenza del profetismo ebraico antico”, in L. Arcari, A. Saggioro, Sciamanesimo e sciamanesimi, cit., p. 81.
[22] Vedi, ancora: S. Botta, Dagli sciamani allo sciamanesimo, cit., pp. 119-135.
[23] N. Lalli, “Il sacro, l’homo religiosus e la morte”, Il sogno della farfalla, 2 (1993), p. 43
[24] E. de Martino, Morte e pianto rituale, cit., pp. 8-9 (corsivo mio).
[25] E. de Martino, “Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto”, Studi e materiali di storia delle religioni, 24-25 (1953-1954), pp. 18-19.
[26] Ivi, p. 19.
[27] Id., “Etnologia e cultura nazionale negli ultimi dieci anni”, Società, n. 3 (1953), pp. 17-18.
[28] Ivi, p. 14.
[29] Id. (1977), La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di Clara Gallini, Einaudi, Torino 2002, pp. 639-640.
[30] Id., La fine del mondo, cit., p. 668.
[31] C. Pasquinelli, “Trascendenza ed ethos del lavoro. Note su La fine del mondo di Ernesto de Martino”, La ricerca folklorica, n. 9 (1984), p. 34.
[32] Ivi, p. 33.
[33] Su questi temi, vedi in particolare: E. Andri, Il giovane Ernesto de Martino. Storia di un dramma dimenticato, Transeuropa, Massa 2014; R. Ciavolella, L’etnologo e il popolo di questo mondo. Ernesto de Martino e la Resistenza in Romagna (1943-1945), Meltemi, Milano 2018; V. S. Severino, “Ernesto de Martino nel Pci degli anni Cinquanta tra religione e politica culturale”, Studi Storici, n. 2 (2003), pp. 527-553.
[34] C. Pasquinelli, “Solitudine e inattualità di Ernesto de Martino”, in C. Gallini, M. Massenzio (a cura di), Ernesto de Martino nella cultura europea, Liguori, Napoli 1997, p. 295.
[35] N. Lalli, “Il sacro, l’homo religiosus e la morte”, cit, p. 59.
NOTA (al testo su Fbook):
#QUESTIONEANTROPOLOGICA (#KANT, 1800) E #DISAGIODELLACIVILTA’ (#FREUD, 1929). Brillante accostamento di due linee di ricerca (finite in un vicolo cieco). La "nostalgia delle origini (l’amore per il remoto") e "l’ethos del trascendimento" (l’amore per il futuro) possono superare il loro scacco solo dando vita a "una nuova antropologia", come sollecitava già Kant e ha tentato #Nietzsche, #oltre la "umana, troppo umana"#cosmoteandria platonico-hegeliana!