Ravasi e Dante, l’orizzonte teologico della Commedia
di Franca Giansoldati (Il Messaggero, 12 ottobre 2013)
Dante Alighieri? Il sommo, il vate, il cantore di Enea, il maestro, il padre della lingua italiana ma anche (perché no?) il geniale architetto che con le parole progettava e rendeva omaggio alla grandezza di Dio. «L’Amor che move il sole e l’altre stelle». Dante, a modo suo, sembra davvero farsi posto tra i grandi costruttori delle cattedrali medievali dove estetica ed etica hanno coabitato in modo indivisibile, promuovendosi a vicenda, riempiendo di significati e simboli le pagine della Commedia.
Gianfranco Ravasi, ministro della cultura di Papa Francesco ma soprattutto biblista di fama internazionale, ha passato a setaccio tutte le terzine del Vate, scoprendo che la base biblica e teologica della Commedia possiede una struttura profonda, intrisa di esegesi e di riflessioni spirituali. La poetica dantesca, insomma, va a braccetto con le Sacre Scritture, si confonde, si mescola, fino a fondere l’orizzonte con quello della spiritualità.
Tra i tre canti forse il Paradiso più di tutti rimane il luogo poetico e spirituale dove meglio risuona il canto salmico. Ravasi, come se fosse un detective, ricerca ogni indizio teologico ed elenca ben dieci citazioni, incluso un passaggio ispirato all’evangelista Matteo, per un totale di ben 8 salmi del Salterio, uno dei libri anticotestamentari capitali nella tradizione cristiana. Dante è letteralmente conquistato dalla salmodia. Il salmo 51 («Cantando miserere a verso a verso»), il salmo 114 («In exitu Israel de Aegypto»), il 32 («Beati quorum tecta sunt peccata»). Oppure, per esempio, quando dice “Miserere” nel canto I dell’Inferno.
Enrico Malato, il dantista numero uno in Italia, nella prefazione di I salmi nella Divina Commedia (Salerno Editrice, 90 pagine 7,90 euro) a sua volta ha fatto notare che «miserere» nel canto I dell’Inferno è la prima parola che Dante personaggio pronuncia nel poema e sarà anche l’ultima «prima della sua immersione nel tripudio della candida rosa, attraverso una allusione, nel discorso di San Bernardo: «Al cantor che per doglia; del fallo disse, miserere mei».
Ravasi, in questo libro, si spinge addirittura più in là facendo notare che c’è chi ha confrontato l’escatologia dantesca con quella sottesa a opere letterarie e teologiche arabe o addirittura ad un orizzonte ancora più lontano, collocando Dante tra induismo ed eresie medievali. In ogni caso il Vate dimostra di possedere la moneta della fede, «cioè il tesoro prezioso evocato prima da san Pietro», e di averla nella pienezza della sua brillantezza e perfezione («lucida e tonda»), così da non mettere in forse («s’inforsa») in nessun modo la sua piena e totale autenticità («conio»).
Ravasi annota: «Il suo sguardo è sempre stato fisso a quel cielo ove brilla la luce della trascendenza». Dante induce a contemplare l’infinito e l’eterno. Non per altro conclude che l’unicità e la trinità divina, le due Verità, sono simili a «una favilla», a una scintilla di luce «che si dilata in fiamma poi vivace», in un fiammeggiare che rischiara il firmamento dell’anima. Alighieri dimostra di avere una altissima conoscenza delle Sacre Scritture ovvero il suo retroterra culturale e spirituale. Basti solo pensare all’incipit della Commedia tratto da Isaia: «A metà dei miei giorni me ne vado alle porte degli inferi»