Lo Spirito delle Donne
Dalle Erodiadi di Testori agli studi di Simone Weil dalle poesie di Alda Merini alle lettere di Etty Hillesum
di Gianfranco Ravasi s. j. (Il Sole Domenica, 14.09.2014)
Li ho distesi a ventaglio sul mio scrittoio: è impressionante il numero di libri di e su donne che ho ricevuto in questi ultimi mesi. Da questa sorta di arcobaleno ho pensato di estrarre qualche colore, quasi a caso, nella consapevolezza di allestire non una recensione ma solo un bouquet variegato di pagine. Se dovessi escogitare una classificazione sintetica, opterei per il titolo di una bella antologia di passi testoriani, da poco edita, Voci femminili. Ebbi con Giovanni Testori un solo incontro personale nel 1992, un anno prima della sua morte, perché avevo elaborato un saggio da preporre a un suo testo sontuoso di critica d’arte dedicato proprio a una donna speciale, Maria Maddalena, la cui iconografia permetteva allo scrittore di sfoderare uno dei suoi registri tematici più accesi, l’intreccio tra spiritualità e carnalità.
Il femminino testoriano, come appare limpidamente in questa selezione, si àncora infatti alla prorompente corporeità di una Gilda del Mac Mahon, di Erodiade e Cleopatràs, insinuandosi nelle pieghe oscure di Eros ma anche di Thánatos con l’Arialda, ma veleggia anche verso le vette cristalline della madre di Gesù in Factum est o nella lacerata e possente Mater strangosciàs. Attraverso la persona femminile è l’essenza stessa dell’umanità e della vita che Testori vuole illuminare e perlustrare. È su questo terreno che s’incrocia anche una poetessa straordinaria la cui opera fu scritta e orale, quasi al modo degli antichi rapsodi o della Saffo frammentaria. Intendo riferirmi ad Alda Merini, a me legata da un’amicizia intensa e che ho spesso attestato con emozione e commozione.
Della sua poesia, striata da forti pulsioni teologiche insediate nel terreno della carne e del male da cui sbocciavano in modo epifanico ed etereo, scrive con molta finezza ed empatia un giovane studioso di letteratura e teologia, Claudio Cianfaglioni, disegnandone un affascinante ritratto spirituale e poetico. Esso è posto all’insegna di pochi versi prorompenti del Corpo d’amore di Alda: «Se tutto un infinito / ha potuto raccogliersi in un Corpo / come da un corpo / disprigionare non si può l’immenso?». Sul crinale semantico del vocabolo «pro-vocazione», che è chiamata trascendente e sfida immanente, si svolge la dialettica spirituale della Merini il cui linguaggio teologico è appunto sia invocazione sia provocazione, è luce e abisso, è per eccellenza ossimoro capace di stringere in un abbraccio adorazione e blasfemia, spirito e carne.
Un ossimoro che l’intelligenza tagliente e il cuore ardente di Etty Hillesum, l’ebrea olandese consumata dal gas nazista di Auschwitz a soli 29 anni, ha declinato nel suo impressionante diario e nell’epistolario, come accade nelle due lettere composte nella prima stazione di quella «Via crucis» che dal «campo di transito» di Westerbork giungerà al Golgota di Auschwitz. In quel primo girone dell’inferno hitleriano, ove facile è scivolare nella disperazione in mezzo a tanti orrori, Etty impugna invece il vessillo dell’amore e della bellezza. Certo, essa è consapevole dell’orrore: «Me lo sono detta una volta a voce alta in piena notte, costatandolo con una certa lucidità: Ecco ora sono all’inferno». Eppure, man mano che scrive e respira, la paura si dissolve e la fede apre uno squarcio di luce, perché - come attesta una compagna di lager - «noi donne siamo strane creature: basta una piccolezza a salvarci dalla follia. Persino all’inferno. Sì, persino all’inferno».
Alla Hillesum è spontaneo associare un’altra stupefacente figura femminile anch’essa ebrea, seppure pellegrina per alcuni tratti lungo le vie di Cristo, Simone Weil. Oltre alla coraggiosa iniziativa dell’Adelphi di raccogliere i suoi saggi, articoli, traduzioni, appunti relativi alla civiltà ellenica sotto il titolo La rivelazione greca, un vero e proprio giardino letterario, filosofico e spirituale ove intelligenza e passione s’incrociano, possiamo ricorrere per far conoscere Simone a un altro epistolario. È quello che s’intreccia tra la Weil e un poeta paralitico francese, Joë Bousquet, e un contadino anarchico aragonese, Antonio Atarés, mentre la donna soggiorna a Marsiglia tra il 1940 e il 1942, in attesa di imbarcarsi per gli Stati Uniti. Il filo d’oro che percorre e sorregge queste lettere è l’amicizia in tutte le sue iridescenze sentimentali, intellettuali e spirituali. Il sigillo di una simile relazione è nella libertà della donazione: «La necessità è principio di impurità e infanga l’amicizia», così come il desiderio di piacere, perché «i due amici accettano pienamente di essere due creature distinte. È con Dio soltanto che l’uomo ha il diritto di desiderare di essere direttamente unito».
Dopo le lettere di Etty Hillesum e di Simone Weil, un terzo curioso epistolario è quello che tra il 1924 e il 1940 un’altra donna dall’intuizione folgorante, l’argentina bonearense Victoria Ocampo, intesse con una sorta di monumento della cultura indiana, Rabindranath Tagore, Nobel 1913, poeta, artista, guru spirituale, pacifista. A differenza delle lettere di Simone Weil che talora sconfinano nel saggio in miniatura, questi scritti sono essenziali e riflettono una relazione di taglio paterno-filiale tra maestro e discepola, intrisa di quotidianità, segnata da slanci mistici con implicite pulsioni d’amore da parte di Victoria che si firma Vijava: «I giorni sono senza fine da quando ve ne siete andato. Sta venendo il nostro autunno e spero che passi presto. Ma temo che non imparerò mai a essere paziente».
Finora abbiamo visto donne che hanno incontrato uomini forti ma sensibili. E la tradizionale misoginia che ha pure scandito la storia anche cristiana dell’Occidente? In finale vogliamo offrirne uno specimen esemplare da parte di un acuto intellettuale cristiano cartaginese, Tertulliano. Appare, accompagnato da una solida guida di lettura e in una limpida versione del vivace originale latino, il suo pamphlet intitolato De cultu feminarum, «l’eleganza delle donne», una veemente staffilata sul lusso, la moda, la cosmesi che il gentil sesso imbraccia come arma di seduzione per trascinare al peccato il misero maschietto. Già in una deliziosa scenetta del libro biblico dei Proverbi si sceneggiava l’adescamento di un giovane da parte di una prostituta: «incauto la segue, come un bue condotto al macello, come un cervo adescato con un laccio» (si legga 7,6-27). Tertulliano non esita a raccogliere l’armamentario ideologico e moralistico, già allora ben diffuso, che vede la donna come strumento demoniaco per sviluppare un discorso più ampio ove si apre il sipario sull’escatologia considerata imminente.