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EV-ANGELO = BUONA NOVELLA. DIO È AMORE (Charitas) non MAMMONA (Benedetto XVI, "Deus CARITAS est", 2006) ED "EU-*CARESTIA*"!!!

MONSIGNOR RAVASI, MA NON È POSSIBILE FARE CHIAREZZA? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA!!! DIO È AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?! - Una nota di Federico La Sala

Ha dimenticato l’esortazione di Papa Wojtyla ("Se mi sbalio, mi corigerete")?!
mercoledì 5 novembre 2008 di Maria Paola Falchinelli
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").


CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE (...)
DEUS CHARITAS EST
(1Gv 4. 1-8). (...)

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>CARDINAL RAVASI --- Papa Francesco preferisce pastori di strada. Come se arcivescovo di Milano fosse stato nominato don Bepo.

giovedì 29 ottobre 2015

Come se arcivescovo di Milano fosse stato nominato don Bepo

di Redazione (Bergamopost, 28 ottobre 2015)

Richiesto di un parere sul nuovo papa dopo uno dei tanti bagni di folla di Francesco appena eletto, il cardinal Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra e del Consiglio di Coordinamento fra Accademie Pontificie aveva detto che il successo di pubblico non consentiva ancora di capire dove sarebbe andato a parare il cardinal Bergoglio. Si dovevano attendere gli atti di governo. E quello di questi giorni - doppio, con la nomina degli arcivescovi di Bologna e Palermo - è un atto di governo che non lascia dubbi: il papa venuto dalla fine del mondo preferisce pastori di strada.

Lo si poteva intuire già da uno dei primi Angelus, in cui richiamandosi al libro di un suo amico teologo aveva aggiunto: “ma un buon teologo”, per indicare che il titolo accademico in sé non faceva testo. Anzi: poteva addirittura giocare a sfavore del titolato. Nel Discorso ai Partecipanti alle Giornate Dedicate ai Rappresentanti Pontifici (Sala Clementina, 21 giugno 2013) aveva poi detto: «Nel delicato compito di realizzare l’indagine per le nomine episcopali siate attenti che i candidati siano Pastori vicini alla gente: questo è il primo criterio. Pastori vicini alla gente. È un gran teologo, una grande testa: che vada all’Università, dove farà tanto bene! Pastori! Ne abbiamo bisogno! Che siano, padri e fratelli, siano miti, pazienti e misericordiosi; che amino la povertà, interiore come libertà per il Signore e anche esteriore come semplicità e austerità di vita».

Poi c’erano stati altri pronunciamenti terremotanti, come quello - ormai famosissimo - sui pastori che devono avere addosso l’odore delle pecore, o il messaggio alla 68ª Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana, nel maggio di quest’anno, nel quale si legge la devastante frase: «In realtà, i laici che hanno una formazione cristiana autentica, non dovrebbero aver bisogno del Vescovo-pilota, o del monsignore-pilota o di un input clericale per assumersi le proprie responsabilità a tutti i livelli, da quello politico a quello sociale, da quello economico a quello legislativo! Hanno invece tutti la necessità del Vescovo Pastore!». Una costruzione linguistica da prendi due paghi uno nella quale vengono passati a fil di spada - e in un solo colpo - sia i laici (che se sentono bisogno dell’input di un vescovo-pilota significa che non sono cristiani maturi) sia i vescovi e monsignori che non li hanno ben formati perché (se non compiamo un’induzione errata) un po’ troppo clericali.

A rileggere a partire da oggi la lettera del cardinal Caffarra pubblicata da Avvenire Bologna Sette nel gennaio 2013, quella che parlava della bambina trovata nel cassonetto e che iniziava «Cara Maria Grazia, sei stata buttata nei rifiuti sotto la mia finestra, vicino alla mia casa...» la distanza fra due stili di discorso e di governo non potrebbe apparire più abissale, al limite del galattico.

Il papa, allora, non ama i teologi? No, non è così: tanto è vero che cita spesso il padre De Lubac, gesuita come lui e cardinale. Solo che vuole che la teologia nasca dalla vita della comunità cristiana, dall’esperienza pastorale e non viceversa. Ha detto alla Riunione della Congregazione per i Vescovi il 27 febbraio 2014: «La Chiesa non ha bisogno di apologeti delle proprie cause né di crociati delle proprie battaglie, ma di seminatori umili e fiduciosi della verità, che sanno che essa è sempre loro di nuovo consegnata e si fidano della sua potenza. Vescovi consapevoli che anche quando sarà notte e la fatica del giorno li troverà stanchi, nel campo le sementi staranno germinando». Vuole, il papa, che i discorsi su Dio (questo significa “teologia”) vengano su come la bruma dai letamai (non dimentichiamo che laetamen - letame - è all’origine di laetitia, gioia. E che i pabula laeta, i pascoli con l’erba bella grassoccia, sono quelli bel concimati. Quelli le cui sementi stanno germinando bene).

Don Corrado Lorefice - che reggerà la diocesi di Palermo - è di Modica, che vuol dire il paesaggio umano del Commissario Montalbano. Famoso per aver scritto un libro su Dossetti e Lercaro: la Chiesa povera e dei poveri. Se fosse stato mandato a Bologna (la città che fu di Dossetti e Lercaro) sarebbe stato uno schiaffo troppo palese per il cardinal Caffarra, che viene sostituito. Meno palese, non meno forte, perché senza bisogno di scriverlo in chiaro il messaggio è comunque chiarissimo.

Nella città emiliana andrà invece monsignor Matteo Maria Zuppi, romano, 60 anni, per anni parroco, assistente spirituale della Comunità di Sant’Egidio oltre che vescovo ausiliare per Roma centro, che viaggia in utilitaria. Chi mai avrebbe immaginato che il parco macchine delle curie arcivescovili avrebbe subito un così radicale rinnovamento in questi anni. Che la FCA l’avrebbe vinta sulla Mercedes. Ma la Chiesa deve cambiare. Deve cambiare sempre, ci è stato ricordato pochi giorni fa.

Cosa possono dunque significare per Bergamo queste nomine? Che se fosse vivo don Bepo ce lo saremmo trovato vescovo. O meglio, secondo lo stile bergogliano: che lui lo avremmo visto insediato a Milano, mentre in Città Alta sarebbe stato mandato un pretino ancora ignoto, le cui virtù sarebbero emerse d’improvviso splendenti al pari di stelle, come si dice dei giusti. E ce ne sono, di questi preti, in giro. Tutto ciò per dire che lo stile di governo bergogliano, in fondo, è semplice. Deriva tutto da un capitolo di Marco che recita:

«In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche».

Oggi avrebbe raccomandato loro di spostarsi in Cinquecento se proprio non potevano usare la moto. Bagagliaio vuoto. Neanche un cambio per spostamenti entro le quarantotto ore. E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro».

Perfetto. Come urlavamo da bambini alla fine della conta: «Chi c’è c’è; chi non c’è non c’è». Perché solo quelli che ci sono sono capaci di andare a scovare gli altri, quelli che vorrebbero da tempo unirsi alla compagnia, ma si sono sentiti drammaticamente stupidi a fronte di tanta sapienza e impresentabili a fronte di tanto oro e tante auto. Adesso è il loro turno.


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