Quando la creatura si ribella al creatore
di Giuseppe Montesano (la Repubblica, 12.12.2010)
L’inizio della storia del golem, l’automa vivente creato dall’uomo, si trova forse in una delle leggende del Talmud, il libro rituale dell’ebraismo, e non è priva di sapiente ironia: «Rabbi Hanina e Rabbi Oshaya tutte le vigilie del sabato si occupavano del Libro della Creazione, creavano un vitello grande un terzo del naturale, e se lo mangiavano...». In un’altra leggenda Rabbi Rava crea un uomo e lo manda da Rabbi Zera che lo interroga, ma l’uomo artificiale non riesce a rispondere: evidentemente il prototipo di Golem di Rabbi Rava era difettoso. Ma l’idea che l’uomo potesse creare qualcosa di vivo adoperando una formula o delle parole era nata, la storia del robot fatto di terra e di parole magiche cominciò a diffondersi e uno dei fratelli Grimm la riassunse così: «Plasmano con argilla la figura di un uomo, e quando pronunciano il nome di Dio, l’argilla deve prendere vita. È vero che non può parlare, ma capisce ciò che gli si comanda. Lo chiamano Golem, e lo usano come domestico che sbriga tutte le faccende di casa...». Il problema è che il comodo e gratuito tuttofare domestico cresce e diventa sempre più potente e aggressivo, finché colui che lo ha creato non gli cancella dalla fronte le parole che lo animano, e il Golem crolla sul suo incauto fabbricatore uccidendolo.
Nel Romanticismo il mostro ebete che sfugge al controllo del suo maldestro creatore riappare, e il golem si traveste da automa in Hoffmann e da patchwork umano nel Frankenstein di Mary Shelley. Per rivivere un secolo dopo, nel buio della Grande Guerra, nel Golem di Gustav Meyrink, il romanzo che piacque a Kafka e da cui Wegener e Bose trassero un capolavoro del cinema espressionista. Ma nella modernità non ci sono più vitelli in miniatura fabbricati e cotti al momento da giocondi rabbini, ci sono solo terrificanti prodotti della demente logica umana, e il nome di Dio non serve più: basta la tecnica. In piena Guerra Fredda nascono gli androidi di Philip Dick, copie quasi perfette dell’uomo, simulacri che imitano anche le passioni e sono destinati a confondersi ai loro originali e a prenderne il posto: come accade in Blade Runner, il film che Ridley Scott trasse da un romanzo di Philip Dick intitolato Ma gli androidi sognano pecore elettriche?
Del resto, in anticipo su Philip Dick, i sinistri padri dei totalitarismi avevano scoperto come si trasforma un essere umano in un meschino Golem con la croce uncinata, in un cupo Frankenstein con falce e martello, in un ridicolo androide con fascio e moschetto: basta un po’ di propaganda e il gioco è fatto. E nonostante i risultati catastrofici, la smania di creare sosia e automi non sembra finita. Non si possono più ottenere gratis servi che spazzano per noi? La pecora elettrica giapponese che piange se la trascuri è solo una nuova fonte di depressione? La maggior parte degli umani si ostina a preferire ai robot sexy il sudore dei corpi mortali, sia pure imbottiti di silicone? Allora, pur di illudersi di creare qualcosa, si creano gli Avatar: presenze che esistono nella rete di Internet e vivono al nostro posto una vita che noi non sappiamo vivere. Vivono o simulano? Forse gli avatar sono il vero "me stesso" di chi li genera, e il presunto originale, l’essere seduto dietro il computer, è la copia, l’automa. il simulacro. E, perso nel suo sogno di fuga, l’essere che non distingue più tra la copia e il modello non si accorge dei frankenstein e dei golem volontari che sorgono e si moltiplicano al suono dei nuovi pifferai magici.