Milano
A Palazzo Reale i dipinti sono accompagnati da frasi che ne sottolineano il surrealismo.
-È una pittura che parla di se stessa: per lui tutto si risolve nell’enigma, in timore metafisico
Magritte, «La ricerca della verità», 1963 (Un’immagine ignota dell’ombra è evocata da un’immagine nota della luce, 1955)
Magritte, paradosso logico
DA MILANO MAURIZIO CECCHETTI *
« Ceci n’est pas une pipe», il celebre quadro di René Magritte, è emblema di un’antinomia logica. Dire che la pipa raffigurata su un quadro non è una pipa, è un gioco linguistico che mette in scena un dispositivo antinomico come quello del mentitore cretese (il cretese Epimenide dice: «tutti i cretesi mentono»), oppure, e forse è ancora più vicino, come nel «paradosso del barbiere» formulato da Bertrand Russell. Un giovane barbiere di un piccolo villaggio decide di aprire la sua bottega. È l’unico barbiere del paese e sull’insegna del locale mette questa scritta: «Barbiere. Faccio la barba a tutti gli uomini, solo a quelli che non si radono da sé». Il giovane barbiere si mette in attesa del primo cliente, ma dopo un po’ che aspetta invano decide di occupare il tempo facendosi la barba... Mentre è intento all’opera su se stesso, passa il filosofo e gli fa notare che la situazione è ambigua. Può certo sbarbarsi da solo, ma allora (in quanto barbiere) sta facendo la barba a chi si rade da sé, dunque secondo la sua insegna non può farlo.
D’altra parte, se il barbiere non rade se stesso allora, sempre secondo la propria insegna, egli a rigor di logica rade se stesso. Questa antinomia occupò le menti di alcuni grandi matematici, e fu utile a Gödel quando definì il «teorema dell’incompletezza sintattica», dove si prende atto che nella matematica vi sarà sempre qualcosa di non dimostrabile. Il matematico, insomma, per essere tale deve anche accettare l’incompletezza. E l’arte? Magritte è il pittore che forse si è spinto più avanti su questa strada facendo dell’incompletezza e del paradosso la via stessa del ’vedere’. La sua celebre pipa dipinta in realtà è una pipa e non lo è.
Lo è sotto il profilo semantico (quell’immagine significa la pipa), ma non lo è sotto il profilo sintattico (quell’immagine non sarà mai una pipa da fumare). Quell’antinomia è però reale soltanto se si pretende di collegare la frasetta alla funzione di ciò che viene rappresentato.
Se, dunque, si pretende che l’immagine perda la propria natura di simulacro e diventi un assoluto concreto, l’idea realizzata (su questo, in effetti, si fonda la filosofia dell’icona, cui la teologia offre poi lo sfondo mistico nel quale naturale e soprannaturale si comunicano nell’immagine). Nel- la mostra che Palazzo Reale dedica ora al pittore belga, i dipinti sono ritmati sulle pareti da frasi dell’artista che confermano questo sfondo ’surreale’. «Qualunque sia il suo carattere manifesto, ogni cosa mantiene il suo mistero»; «Il rapporto tra il titolo e il quadro è poetico, vale a dire che questo rapporto conserva, degli oggetti, solo le caratteristiche abitualmente ignorate dalla coscienza ma talvolta presentite in occasione di avvenimenti straordinari che la ragione non è ancora riuscita a chiarire»; «Le parole che il sangue ci detta sembrano talvolta estranee.
Qui, sembra che ci voglia intimare di dischiudere magiche nicchie negli alberi». Mentre visitavo la mostra, un signore, con voce stentorea e sovreccitata, esclamava a ritmo incalzante: «Ecco, qui c’è De Chirico, qui Sironi... e qui? qui che cosa c’è?
Ah, sì, Max Ernst. Vedi (dice al compagno) molti guardano, passano di gran fretta, magari vengono per accattarsi il catalogo (era il giorno dell’inaugurazione), ma non capiscono niente dell’arte». Mi sono detto: con Magritte si può giocare a scoprire chi è stato vittima dei suoi furti d’arte, oppure tentare di immedesimarsi col dispositivo paradossale che sta all’origine del suo modo di pensare l’immagine. La seconda ipotesi mi pare l’unica produttiva (l’altra è, invece, il classico vizio ’professionale’ della critica dalle idee vuote).
In Magritte non esiste un problema di qualità pittorica. Ogni quadro, in un certo senso, vale l’altro: quello meglio dipinto non è meno esemplare della tela visibilmente più sciatta: nella mostra milanese, ad esempio, quello che mi è sembrato più intrigante è un quadretto di poca qualità pittorica che raffigura una rosa chiusa fra tre parole che, insieme, formano la frase «Una rosa nell’universo » (il titolo dell’opera è «La voce dell’assoluto»). È intrigante perché è tra i meno ’connotativi’ rispetto al sistema di rappresentazione paradossale di Magritte, sfiorando quasi la decorazione pura (l’ ’insegna’, ecco). E segue il filone allusivo dove le parole dipinte, pur riecheggiando una tipologia del passato che ha avuto funzioni illustrative ovvero spirituali e mistiche (padre Giovanni Pozzi vi dedicò alcuni saggi poi raccolti in libro), svelano la funzione ’autoreferenziale’ del quadro. La pittura parla di se stessa e della propria capacità illusionistica usando la parola come segno che ha funzione iconica e verbale al tempo stesso. Non è, questa tipologia, quella più ricorrente nell’opera di Magritte, ma la sua ’eccezione’ spiega appunto la regola.
I dipinti di Magritte sono teoremi ’iconologici’ dove la componente pittorica è quasi accidentale. Non è certamente un pittore grandissimo, ma fu capace di elaborare una iconografia ricca di secondi sensi, dunque una iconologia, per quanto il rappresentato non sia mai né il tema figurativo, né un contenuto preciso. L’immagine, per Magritte, ha sempre più dimensioni; un al di là (un oltre) e un al di qua (un prima); è un piano inclinato, ma non ha niente a che fare con la grammatica prospettica; unisce sincronia e diatopia (luoghi diversi entrano nel medesimo tempo pittorico: ma le diverse dimensioni spaziali non si conciliano nell’istante eterno del quadro).
Ciò che raffigura è il paradosso in quanto tale. Se i greci formularono antinomie come quella del mentitore cretese, che diedero lo spunto a Russell per escogitarne di nuove, potremmo anche dire che Magritte non sente il bisogno di spiegare i suoi paradossi, gli basta ’formularli’, cioè dipingerli, con quei colori da tappezzeria che non denoteranno mai, nemmeno nei quadri più riusciti, un genio pittorico, ma soltanto una psiche che riesce a portare in immagine gli oggetti che l’inconscio libera nel sonno. Si potrebbe altresì dire che in Magritte la ’surrealtà’ resta sempre al di qua della - per usare un termine caro al discorso estetico di Maritain - ’surnaturalité’. Magritte è come un giocoliere che volteggiando nell’aria i birilli non li eleva mai sopra la propria testa, perché se questo accadesse correrebbe il rischio, alzando gli occhi al cielo, di perdere la sincronia col proprio inconscio e gli oggetti onirici fuggirebbero dal recinto dove la mente li tiene segregati. Per Magritte tutto si riassume nell’enigma, il mistero sarà sempre e invariabilmente psichico: «È un atto di magia nera trasformare la carne della donna in cielo». Questa frase cela il timore metafisico che tutti i surrealisti hanno provato di fronte all’essenza primigenia del femminino, facendo della donna, del suo corpo, un idolo e, al tempo stesso, un oggetto sacrificale. Di fronte ai quadri di Magritte si viene attratti da un’energia accattivante, e bisogna sforzarsi di non battere le palpebre perché in un microsecondo si rischia di essere trasformati in automi servili di un paesaggio lunare, come i celebri omini con bombetta che si ripetono identici e si moltiplicano mentre sul mondo illuminato da luci per niente solari regna, avida e insaziabile, Circe-Natura.
Milano, Palazzo Reale
-MAGRITTE
-Il mistero della natura
-Fino al 29 marzo 2009
* Avvenire, 25.11.2008. - senza foto