Inviare un messaggio

In risposta a:
ARTE E FILOSOFIA. PER LA CRITICA DEL PLATONISMO E DEL CATTO-HEGELISMO DI MASSA - IL BERLUSCONISMO ....

AL DI LA’ DEL NARCISISMO E DELLA FASCINAZIONE MORTALE DELLO SPECCHIO. A MILANO, LA GRANDE LEZIONE DI RENE’ MAGRITTE. Una riflessione di Francesca Bonazzoli e altre note e informazioni - a cura di Federico La Sala

«Io voglio con la pittura ricostruire un mondo felice», aveva scritto nel 1943, nel suo diario.
domenica 30 novembre 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] René Magritte nacque a Lessines (Belgio) nel 1898. Dopo gli studi all’Accademia di Bruxelles, s’interessò alle ricerche d’avanguardia (Futurismo, Cubismo). Si convertì al Surrealismo dopo aver scoperto la pittura di Giorgio De Chirico. Era il 1925
quando aderì al gruppo surrealista di Bruxelles, l’anno dopo entrò in contatto con André Breton, leader del movimento. Morì nel 1967 [...]
[...] La vicenda di Magritte si muove così dai bellissimi e quasi sconosciuti dipinti futuristi per (...)

In risposta a:

> AL DI LA’ DEL NARCISISMO E DELLA FASCINAZIONE MORTALE DELLO SPECCHIO. A MILANO, LA GRANDE LEZIONE DI RENE’ MAGRITTE. ---- Magritte, paradosso logico (di Maurizio Cecchetti).

venerdì 28 novembre 2008


-   Milano

-   A Palazzo Reale i dipinti sono accompagnati da frasi che ne sottolineano il surrealismo. -È una pittura che parla di se stessa: per lui tutto si risolve nell’enigma, in timore metafisico

Magritte, «La ricerca della verità», 1963 (Un’immagine ignota dell’ombra è evocata da un’immagine nota della luce, 1955)

Magritte, paradosso logico

DA MILANO MAURIZIO CECCHETTI *

« Ceci n’est pas une pipe», il celebre quadro di René Magritte, è em­blema di un’antinomia logica. Dire che la pipa raffigurata su un quadro non è una pipa, è un gioco linguisti­co che mette in scena un dispositivo antinomico come quello del menti­tore cretese (il cretese Epimenide di­ce: «tutti i cretesi mentono»), oppu­re, e forse è ancora più vicino, come nel «paradosso del barbiere» formu­lato da Bertrand Russell. Un giovane barbiere di un piccolo villaggio deci­de di aprire la sua bottega. È l’unico barbiere del paese e sull’insegna del locale mette questa scritta: «Barbie­re. Faccio la barba a tutti gli uomini, solo a quelli che non si radono da sé». Il giovane barbiere si mette in attesa del primo cliente, ma dopo un po’ che aspetta invano decide di occupare il tempo facendosi la bar­ba... Mentre è intento all’opera su se stesso, passa il filosofo e gli fa notare che la situazione è ambigua. Può certo sbarbarsi da solo, ma allora (in quanto barbiere) sta facendo la bar­ba a chi si rade da sé, dunque se­condo la sua insegna non può farlo.

D’altra parte, se il barbiere non rade se stesso allora, sempre secondo la propria insegna, egli a rigor di logica rade se stesso. Questa antinomia occupò le menti di alcuni grandi matematici, e fu utile a Gödel quan­do definì il «teorema dell’incomple­tezza sintattica», dove si prende atto che nella matematica vi sarà sem­pre qualcosa di non dimostrabile. Il matematico, insomma, per essere tale deve anche accettare l’incom­pletezza. E l’arte? Magritte è il pitto­re che forse si è spinto più avanti su questa strada facendo dell’incom­pletezza e del paradosso la via stessa del ’vedere’. La sua celebre pipa di­pinta in realtà è una pipa e non lo è.

Lo è sotto il profilo semantico (quel­l’immagine significa la pipa), ma non lo è sotto il profilo sintattico (quell’immagine non sarà mai una pipa da fumare). Quell’antinomia è però reale soltanto se si pretende di collegare la frasetta alla funzione di ciò che viene rappresentato.

Se, dunque, si pretende che l’immagine perda la propria natura di simulacro e diventi un assoluto concreto, l’i­dea realizzata (su questo, in effetti, si fonda la filosofia dell’icona, cui la teologia offre poi lo sfondo mistico nel quale naturale e soprannaturale si comunicano nell’immagine). Nel- la mostra che Palazzo Reale dedica ora al pittore belga, i dipinti sono ritmati sulle pareti da frasi dell’arti­sta che confermano questo sfondo ’surreale’. «Qualunque sia il suo ca­rattere manifesto, ogni cosa mantie­ne il suo mistero»; «Il rapporto tra il titolo e il quadro è poetico, vale a di­re che questo rapporto conserva, degli oggetti, solo le caratteristiche abitualmente ignorate dalla co­scienza ma talvolta presentite in oc­casione di avvenimenti straordinari che la ragione non è ancora riuscita a chiarire»; «Le parole che il sangue ci detta sembrano talvolta estranee.

Qui, sembra che ci voglia intimare di dischiudere magiche nicchie ne­gli alberi». Mentre visitavo la mo­stra, un signore, con voce stentorea e sovreccitata, esclamava a ritmo in­calzante: «Ecco, qui c’è De Chirico, qui Sironi... e qui? qui che cosa c’è?

Ah, sì, Max Ernst. Vedi (dice al com­pagno) molti guardano, passano di gran fretta, magari vengono per ac­cattarsi il catalogo (era il giorno del­l’inaugurazione), ma non capiscono niente dell’arte». Mi sono detto: con Magritte si può giocare a scoprire chi è stato vittima dei suoi furti d’ar­te, oppure tentare di immedesimar­si col dispositivo paradossale che sta all’origine del suo modo di pen­sare l’immagine. La seconda ipotesi mi pare l’unica produttiva (l’altra è, invece, il classico vizio ’professiona­le’ della critica dalle idee vuote).

In Magritte non esiste un problema di qualità pittorica. Ogni quadro, in un certo senso, vale l’altro: quello meglio dipinto non è meno esem­plare della tela visibilmente più sciatta: nella mostra milanese, ad e­sempio, quello che mi è sembrato più intrigante è un quadretto di po­ca qualità pittorica che raffigura una rosa chiusa fra tre parole che, insie­me, formano la frase «Una rosa nel­l’universo » (il titolo dell’opera è «La voce dell’assoluto»). È intrigante perché è tra i meno ’connotativi’ ri­spetto al sistema di rappresentazio­ne paradossale di Magritte, sfioran­do quasi la decorazione pura (l’ ’in­segna’, ecco). E segue il filone allu­sivo dove le parole dipinte, pur rie­cheggiando una tipologia del passa­to che ha avuto funzioni illustrative ovvero spirituali e mistiche (padre Giovanni Pozzi vi dedicò alcuni sag­gi poi raccolti in libro), svelano la funzione ’autoreferenziale’ del quadro. La pittura parla di se stessa e della propria capacità illusionisti­ca usando la parola come segno che ha funzione iconica e verbale al tempo stesso. Non è, questa tipolo­gia, quella più ricorrente nell’opera di Magritte, ma la sua ’eccezione’ spiega appunto la regola.

I dipinti di Magritte sono teoremi ’iconologici’ dove la componente pittorica è quasi accidentale. Non è certamen­te un pittore grandissimo, ma fu ca­pace di elaborare una iconografia ricca di secondi sensi, dunque una iconologia, per quanto il rappresen­tato non sia mai né il tema figurati­vo, né un contenuto preciso. L’im­magine, per Magritte, ha sempre più dimensioni; un al di là (un oltre) e un al di qua (un prima); è un pia­no inclinato, ma non ha niente a che fare con la grammatica prospet­tica; unisce sincronia e diatopia (luoghi diversi entrano nel medesi­mo tempo pittorico: ma le diverse dimensioni spaziali non si concilia­no nell’istante eterno del quadro).

Ciò che raffigura è il paradosso in quanto tale. Se i greci formularono antinomie come quella del mentito­re cretese, che diedero lo spunto a Russell per escogitarne di nuove, potremmo anche dire che Magritte non sente il bisogno di spiegare i suoi paradossi, gli basta ’formular­li’, cioè dipingerli, con quei colori da tappezzeria che non denoteran­no mai, nemmeno nei quadri più riusciti, un genio pittorico, ma sol­tanto una psiche che riesce a porta­re in immagine gli oggetti che l’in­conscio libera nel sonno. Si potreb­be altresì dire che in Magritte la ’surrealtà’ resta sempre al di qua della - per usare un termine caro al discorso estetico di Maritain - ’sur­naturalité’. Magritte è come un gio­coliere che volteggiando nell’aria i birilli non li eleva mai sopra la pro­pria testa, perché se questo acca­desse correrebbe il rischio, alzando gli occhi al cielo, di perdere la sin­cronia col proprio inconscio e gli oggetti onirici fuggirebbero dal re­cinto dove la mente li tiene segrega­ti. Per Magritte tutto si riassume nel­l’enigma, il mistero sarà sempre e invariabilmente psichico: «È un atto di magia nera trasformare la carne della donna in cielo». Questa frase cela il timore metafisico che tutti i surrealisti hanno provato di fronte all’essenza primigenia del femmini­no, facendo della donna, del suo corpo, un idolo e, al tempo stesso, un oggetto sacrificale. Di fronte ai quadri di Magritte si viene attratti da un’energia accattivante, e biso­gna sforzarsi di non battere le pal­pebre perché in un microsecondo si rischia di essere trasformati in auto­mi servili di un paesaggio lunare, come i celebri omini con bombetta che si ripetono identici e si moltipli­cano mentre sul mondo illuminato da luci per niente solari regna, avida e insaziabile, Circe-Natura.

-   Milano, Palazzo Reale -MAGRITTE -Il mistero della natura -Fino al 29 marzo 2009

* Avvenire, 25.11.2008. - senza foto


Questo forum è moderato a priori: il tuo contributo apparirà solo dopo essere stato approvato da un amministratore del sito.

Titolo:

Testo del messaggio:
(Per creare dei paragrafi separati, lascia semplicemente delle linee vuote)

Link ipertestuale (opzionale)
(Se il tuo messaggio si riferisce ad un articolo pubblicato sul Web o ad una pagina contenente maggiori informazioni, indica di seguito il titolo della pagina ed il suo indirizzo URL.)
Titolo:

URL:

Chi sei? (opzionale)
Nome (o pseudonimo):

Indirizzo email: