ARTURO SCHWARZ
Una giornata con René Magritte *
Ho incontrato René Magritte nel 1961. Era uno di quei giorni di maggio assolati e tersi che sono così rari a Bruxelles, e ci vedemmo in un appartamento accogliente, dì media grandezza, in rue des Mìmosas, dove l’artista si era trasferito nel 1957. Non aveva uno studio, e dipingeva in un angolo della sala da pranzo, dove aveva disposto il suo cavalletto. Di tutti gli atelier che ho visitato, nessuno era altrettanto pulito e ordinato. La sala da pranzo, come il resto della casa, era immacolata. La moglie Georgette, una persona bella e sottile, che aveva incontrato nel 1913, quando ella aveva solo 12 anni, e che aveva sposato dieci anni più tardi, ci offrì un cafè e discretamente si ritirò.
Conoscevo l’opera di Magritte, da tempo. Quando ero ancora un giovane studente di medicina ad Alessandria d’Egitto, mi ero innamorato del mondo sorprendentemente nuovo che egli aveva creato. Avevo sognato di possedere un giorno un suo quadro, e a stento avrei potuto immaginare allora che avrei finito per spostarmi dallo studio della psichiatria al mondo dell’arte e che, un giorno, avrei organizzato la prima retrospettiva italiana di Magritte. Questa venne inaugurata nella mia galleria di Milano il 6 dicembre del 1962, con alcuni dei capolavori più noti: Les Droits de l’Homme (1945), L’Evidence Eternelle (1946, ill. 6, p. 207), Journal Intime (1951), Les Promenades d’Euclide (1955), Le Territoire (1956), Fortune faite (1957), La Fontaine de jouvence (1958), L’Art de la Conversation (1961) Le Rossignol (1962) ecc.
Il desiderio di discutere la scelta dei quadri e di sistemare alcuni dettagli pratici fu solo un pretesto per il mio viaggio a Bruxelles; tutto avrebbe potuto infatti essere trattato con non minore efficacia per posta o per telefono. La verità è che desideravo incontrare la persona che ammiravo da così lungo tempo, e le cui opinioni estetiche e politiche erano così prossime alle mie. Non fui deluso. L’esperienza mi ha insegnato che più grande è l’uomo, più grande è la sua modestia e la sua mancanza di vanità. Magritte era una persona generosa, appartata, con una totale mancanza di interesse per le questioni finanziarie, e una fede incrollabile nell’umanità. Condivideva l’ottica lucidamente critica con cui i surrealisti guardavano il mondo. Come questi, era angosciato dalla condizione di una società governata dalla competizione, dall’avidità e dal selvaggio sfruttamento dell’uomo e della natura. La mente piena di speranze in un futuro di libertà, altruismo e fratellanza, Mageritte condivise le lotte di questi giovani arrabbiati ed era partecipe delle attese e delle illusioni suscitate da quella Rivoluzione d’ottobre che all’epoca era ancora poco nota e che così miseramente tradisse le speranze che aveva nutrito.
"Mistero" è la parola chiave per la poetica di Magritte. Durante la conversazione che avemmo, e che durò un’intera giornata, interrotta soltanto da una deliziosa colazione e da una breve sosta pomeridiana, ricordo che le parole con cui egli più spesso spiegava i suoi intenti e le sue vedute sull’arte erano "mistero". Per Magritte il mistero era lo strumento più idoneo per distruggere le abitudini visive e la logica dei luoghi comuni. Ricordò alcuni dei metodi preferiti per conseguire questo fine. Essi comportavano la trasformazione di un oggetto, o di una situazione, ad un livello sia fisico che semantico. Il primo caso implicava la creazione di nuovi oggetti, il loro spostamento in un contesto nuovo insolito o una modifica della loro naturalità (un cielo di legno per esempio). Un cielo notturno illuminato dal sole rappresentava, per lui, la tipica permutazione di una tale situazione e un altro modo di creare un’immagine misteriosa e perciò poetica. Il livello verbale implicava associare parole a oggetti che con esse non avessero alcun riferimento, definire un oggetto in modo deviante o sconcertante ("Questa non è una pipa"). Infine un’aura misteriosa poteva essere evocata traducendo figurativamente un’idea, un sogno, o una situazione immaginaria. "E’ importante, per me - Magritte aggiunse - evocare il più fedelmente possibile la misteriosa dimensione che risulta dall’unione o dalla trasformazione di oggetti familiari in modo tale che la nuova immagine contraddica completamente la nostra idea ingenua o erudita del mondo. L’arte è per me un modo meraviglioso per evocare il mistero, per nobilitare l’oggetto più comune e renderlo meritevole di essere rappresentato".
Sconcertava sentirlo sostenere che la conoscenza può dissipare l’ignoranza, ma non può chiarire un mistero. Al contrario, è il mistero che nutre la consapevolezza. Il compito dell’artista, secondo Magritte, doveva essere quello di creare apparizioni che rivelino il mistero assoluto. Senza mistero, nulla davvero esiste. Il mistero è ciò che deve esistere affinché la realtà sia possibile. È il mistero che ci consente di partecipare alla vita dello spirito. Le nostre sensazioni, noi stessi e la pittura, dovrebbero tutti e tre assieme divenire una cosa sola col mistero che ci appartiene. D’altro canto, fedele alla sua formazione marxista, Magritte non poteva ammettere che il mondo o l’universo potesse essere assurdo o incoerente. Egli sosteneva che questa nozione derivava da una logica egocentrica in contrasto con la logica della natura. Ciò che a noi può apparire assurdo o incoerente non lo è affatto nella realtà. Arp aveva ipotizzato che il caso non fosse altro che un ordine del quale ignoriamo le leggi, e la fisica moderna rivela un mondo di gran lunga più fantastico di qualsiasi cosa mai immaginata. Non era stato Petronius a dire che "il caso ha le sue ragioni"?
Milano, 21 novembre 2008