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IL MESSAGGIO EVANGELICO, LA COSTITUZIONE, E IL PARADOSSO ISTITUZIONALE DEL MENTITORE, ATEO E DEVOTO. COME LA "SACRA FAMIGLIA" DIVENNE ZOPPA E CIECA E IL FIGLIO PRESE IL POSTO DEL PADRE DI GESU’ E DEL "PADRE NOSTRO" E DIVENNE IL SANTO "PADRINO".... CON E ACCANTO A "MAMMASANTISSIMA".

LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE. AL GOVERNO DELLA CHIESA UN PAPA CHE PREDICA CHE GESU’ E’ IL FIGLIO DEL DIO "MAMMONA" ("Deus caritas est") E AL GOVERNO DELL’ **ITALIA** UN PRESIDENTE DI UN PARTITO (che si camuffa da "Presidente della Repubblica"), che canta "Forza Italia" con il suo "Popolo della libertà" (1994-2012). Questo è il nodo da sciogliere. Materiali sul tema - di Federico La Sala

giovedì 14 giugno 2012 di Maria Paola Falchinelli
VIVA L’ITALIA. LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
PER L’ITALIA E PER LA COSTITUZIONE. CARO PRESIDENTE NAPOLITANO, CREDO CHE SIA ORA DI FARE CHIAREZZA. PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI ...
PER UNA NUOVA TEOLOGIA E PER UNA NUOVA CHIESA.
L’INDICAZIONE DI GIOVANNI XXIII E DI GIOVANNI PAOLO II: LA RESTITUZIONE DELL’ANELLO DEL PESCATORE A GIUSEPPE.
Il loro successore ha il cuore di (...)

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> LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE. --- LA LEZIONE DEL PERSONALISMO CRISTIANO E LA ... PREDICA "CATTOLICA" DI BRUNO FORTE SULLA LEGGE ELETTORALE ITALIANA (MA NON ANCHE VATICANA!).

domenica 23 settembre 2012

MEDICO, CURA TE STESSO! O, ALTRIMENTI, IL LUPO PERDE IL PELO, MA NON IL VIZIO. Note sul tema:


La riforma elettorale guardi all’uomo

di Bruno Forte * (Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2012)

Si parla molto di legge elettorale. Lo fa con autorevolezza il Capo dello Stato, pungolando parlamentari e partiti a procedere con sollecitudine alla riforma della legge che dalla fine del 2005 ha modificato il sistema elettorale italiano. L’accordo sulla necessità e l’urgenza di questa riforma è - a parole - quasi generale. Eppure, finora non si è ottenuto nulla.

L’impressione che molti hanno è che le forze politiche stiano considerando più i vantaggi e gli svantaggi che a esse verrebbero dalle possibili modifiche del l’attuale normativa che non l’interesse del Paese e quello della gente comune. Ecco perché, senza entrare in merito a proposte tecniche per le quali non ho competenza, vorrei provare a considerare la questione sotto il profilo etico, partendo da ciò che mi pare di cogliere fra la gente, accanto alla quale il mio impegno quotidiano di pastore continuamente mi pone.

Visto dal basso, il difetto principale che si avverte nel sistema in vigore è che l’elettore può votare solo per liste bloccate, senza possibilità di scegliere fra i candidati. L’elezione dei parlamentari dipende quindi completamente dalle decisioni e dalle graduatorie stabilite dai partiti, con il risultato che spesso gli eletti non hanno e non avranno alcun rapporto vero con il territorio di cui sarebbero espressione.

Con una certa durezza, qualcuno osserva che così la "casta" semplicemente clona se stessa. E poiché non è detto che i cloni siano migliori dell’originale, si profilerebbe lo scenario imbarazzante di un inevitabile, progressivo peggioramento della qualità della classe politica. C’è perfino chi osserva maliziosamente che, su questa strada, la sola speranza per il Paese potrebbe essere quella di arrivare a una qualità dei suoi rappresentanti talmente scadente, da impedire ad essi stessi di rendersi conto di un’eventuale miglioramento che li metterebbe da parte così da non saper attuare strategie per difendersi da esso!

Al di là di questi scenari preoccupanti, non mi pare difficile constatare che l’attuale rappresentanza politica non gode di quella rappresentatività dei problemi reali della gente e del territorio, che aveva caratterizzato la grande stagione della nascita della Repubblica e l’esercizio ritrovato della democrazia parlamentare nel dopo guerra. Il Paese ufficiale sembra essersi insomma scollato dal Paese reale. Se prima l’uomo della strada generalmente sapeva più o meno chi fosse il referente politico da cui sentirsi rappresentato e a cui rivolgersi per avere attenzione, direttamente o attraverso i canali dei partiti e delle organizzazioni socio-politiche, oggi la gente si sente priva di riferimenti affidabili, come se non ci fosse a livello politico chi possa dar voce a quanti non hanno voce.

I più deboli sono ovviamente i più svantaggiati da una tale situazione: chi potrà rappresentare i loro interessi? Chi potrà provvedere ai loro bisogni? Chi sarà in grado di dare loro speranza e di lavorare al loro fianco perché questa speranza prenda corpo nella vita reale? Il parlamentare imposto dai partiti, spesso scelto in base a meriti che non paiono andare oltre a quello dell’ossequio ai capi, potrà mai essere voce dei poveri e operatore di giustizia per essi?

Se si considera poi il processo di personalizzazione della politica, che ha portato sempre più a sostituire i bagagli ideali delle forze politiche con la figura del leader di turno, fino a legare il nome stesso delle parti in gioco a quello del personaggio carismatico più o meno forte, si comprende fino a che punto sia giunta la spoliazione di reale rappresentatività dei rappresentanti del popolo.

L’"eletto" carismatico prende voti da tutte le parti del Paese per la sua sola faccia o per il fascino del suo nome, senza di fatto rappresentare i mondi reali da cui gli sono stati espressi i consensi. In termini morali, questo processo rischia di essere una sorta di furto perpetrato ai danni della democrazia reale, con il conseguente drammatico slittamento del compito del politico dal rappresentare i bisogni della gente al tutelare e promuovere interessi personali o di gruppo più o meno influenti.

Che cosa allora chiedere ai nostri parlamentari impegnati a riformare la legge elettorale? Alcuni punti mi sembrano chiari: che si faccia di tutto perché i poveri abbiano voce. Che l’eletto sia uno vicino alla gente, in ascolto della vita reale, delle sofferenze e delle inadeguatezze del mondo del lavoro e della scuola, della vita familiare e delle forme di servizio proprie dello stato sociale. Che come fu per molti dei rappresentanti dell’Italia del dopoguerra e del boom economico, il parlamentare si getti in politica per servire il popolo e non per servirsi del potere acquisito a vantaggio proprio o della casta.

Tutto questo richiede che agli elettori venga restituita la possibilità di scegliere non solo fra bandiere diverse, ma anche fra donne e uomini differenti, fra programmi legati a impegni personali e di gruppo che siano affidabili e verificabili attraverso il rapporto costante e diretto fra la base e gli eletti. Se da una parte ciò esige la presenza di candidati competenti, generosi, onesti, animati da forti tensioni ideali e da virtù non comuni, dall’altra domanda che il legislatore dia fiducia alla maturità del nostro popolo di saper discernere fra possibilità diverse e di sapersi affidare a chi è sentito più vicino alla gente per storia, passione, vocazione e missione.

Andrebbe poi garantito un effettivo e costante rapporto fra il parlamentare e il territorio di cui è espressione. Solo così la politica, restituita al Paese reale, potrà assumere connotati nuovi: certamente non quelli di un affare su cui investire, quanto piuttosto quelli di una vocazione cui rispondere e di una missione da svolgere.

Scriveva una delle voci più autorevoli del personalismo d’ispirazione cristiana, Emmanuel Mounier: «L’essere personale è generosità; per questo esso fonda un ordine che è opposto a quello dell’adattamento e della sicurezza... La persona rischia e si prodiga senza badare al prezzo... Tutto ciò assomiglia piuttosto a un richiamo silenzioso, in una lingua che richiederebbe tutta la nostra vita per essere tradotta: per questo il termine di vocazione gli conviene meglio di qualunque altro» (Il personalismo, 97 e 68).

Politici per vocazione, non per affari, per missione, non per guadagno: riusciremo a trovare una legge elettorale che dia spazio a persone del genere, vicine alla gente, capaci di farsi voce dei più deboli e dei più poveri e di servire la causa del bene comune al di sopra di tutto?

*Arcivescovo di Chieti-Vasto


PER LA RIFORMA DELLA CHIESA, NEL SITO, SI CFR.:

RINUNCIARE AI FASTI, RICOMINCIARE A PARLARE AL TEMPO PRESENTE. MONS. CASALE DÀ LA SCOSSA AL SINODO

36838. ROMA-ADISTA. La sonnacchiosa vigilia che precede la celebrazione, in Vaticano, dal 7 al 28 ottobre prossimi, della XIII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi è rotta dalla accorata lettera aperta che un anziano vescovo, mons. Giuseppe Casale, ha voluto indirizzare ai padri sinodali per esortarli a mettere mano ad alcune urgenti questioni che premono alle porte di una Chiesa ancora ciecamente arroccata a difesa della propria gerarchia e di assetti legati ad un anacronistico passato. Si tratta, scrive Casale, di riforme ancora inevase, appuntamenti mancati con i bisogni spirituali profondi di questo tempo: povertà, collegialità, ministero ordinato, parrocchie, nuova evangelizzazione, comunità di base. Ma Casale, arcivescovo emerito di Foggia, tra i pochi esponenti dell’episcopato italiano ancora saldamente legati alla Chiesa conciliare, richiama anche alla sempre più urgente necessità di dare testimonianza al popolo di Dio della propria radicale sequela del Vangelo: «Dobbiamo cominciare noi vescovi insieme al papa a dare l’esempio. Al termine del Concilio, molti vescovi chiesero che la Chiesa riscoprisse la gioia della povertà evangelica. La rinuncia al fasto esteriore e ai titoli onorifici, la scelta della vita semplice e senza lusso, la condivisione della povertà di tanta gente sono ancora un traguardo lontano».

Dei temi di questa lettera, appena pubblicata dalla casa editrice la Meridiana con il titolo Guai a me se non annuncio il Vangelo. Riformare la Chiesa. Lettera aperta al Sinodo dei Vescovi (euro 12: il libro può essere richiesto ad Adista, tel. 06/68801924, e-mail: abbonamenti@adista.it, oppure acquistato online sul sito www.adista.it), abbiamo parlato con l’autore, il vescovo Casale. (valerio gigante)

La collegialità fu uno degli argomenti più dibattuti al Concilio. Alla fine della Lumen Gentium, la Costituzione che trattava della funzione e dell’organizzazione della Chiesa, il papa decise di inserire la celebre “nota esplicativa previa” che riduceva di molto la portata della deliberazioni dell’assemblea in tema di collegialità. Poi venne il Sinodo, che per molti costituisce una risposta non adeguata alle richieste che venivano dall’assemblea conciliare. Lei ai partecipanti al prossimo Sinodo scrive oggi una lettera aperta: crede che il Sinodo possa ancora rispondere all’esigenza di una maggiore partecipazione dell’episcopato al governo della Chiesa?

Il limite fondamentale dell’istituto del Sinodo è il suo valore esclusivamente consultivo. Le sue conclusioni sono infatti sottoposte all’approvazione del papa, che arriva di solito parecchi mesi dopo la conclusione del Sinodo, quando ormai i temi portati alla sua attenzione dall’episcopato hanno perso gran parte della loro “urgenza” pastorale.

Grazie anche alla sua composizione, il Sinodo, che vede la presenza di delegati scelti direttamente dal papa oppure di delegati episcopali, che sono però spesso espressione del ceto dominante all’interno delle conferenze episcopali, non sempre esprime esigenze realmente avvertite dal popolo di Dio. Non riesce così, al di là delle sue intenzioni, a fotografare la vera realtà delle Chiese locali, le istanze che da esse vengono, le difficoltà pastorali che esse vivono. L’assemblea sinodale finisce quindi per ridursi ad una lunga maratona oratoria che tiene i delegati impegnati per giorni, dalla mattina alla sera, in discussioni articolate e complesse, con interventi che si susseguono in modo praticamente ininterrotto, nella lingua ufficiale della Chiesa, cioè il latino. Dibattiti che alla fine si stemperano nel riesame che viene fatto a livello di Curia di ciò che è emerso dal confronto tra i padri sinodali e che rende ancora più inefficaci i tentativi di sintesi fatti in assemblea. Per questo, anche se di Sinodi se ne sono tenuti tanti, generali e continentali, non si sono mai visti risultati apprezzabili. Del resto, se non è possibile una risposta immediata ad un problema teologico o pastorale urgente, i documenti prodotti, che dovrebbero incarnarsi nelle realtà diocesane, in realtà restano quasi sempre nient’altro che sulla carta.

La sua, quindi, più che una lettera al Sinodo, per i problemi scottanti che tocca, è piuttosto una lettera ad gentes...

È una lettera aperta al papa, ai partecipanti al Sinodo e, certo, soprattutto al popolo di Dio, perché si risvegli tra i credenti la coscienza della necessità di una partecipazione corale alla vita della Chiesa, attraverso i rappresentanti delle comunità ecclesiali locali, che vivono giorno per giorno i problemi che riguardano i fedeli. Per questo pongo sul tavolo, sin dall’apertura della mia lettera, le questioni cui mi sembra più urgente dare risposta oggi nella Chiesa. Anzitutto il tema della Chiesa povera, cioè come effettivamente rinunciare ai fasti, ai titoli ed ai privilegi che caratterizzano tanti uomini e strutture della Chiesa ed interrompere relazioni, talvolta anche discutibili, con potenze economiche che gravitano attorno alla Chiesa e che riescono talvolta a condizionarne l’azione ed il governo. Poi chiedo una effettiva collegialità: il papa deve esercitare il suo primato in maniera sinodale. Ritengo che con un coinvolgimento maggiore delle Chiese locali il primato del papa non venga intaccato; semmai arricchito. Oggi invece il papa condivide le sue scelte con i soli membri della Curia romana, composta da persone magari ottime, ma oggettivamente lontane dalla concreta realtà delle comunità locali, dalle ansie e dalle attese del popolo di Dio. C’è poi la questione della ricerca della “verità” che la Chiesa deve pensare in una prospettiva storica, non in quella di cui spesso parla e discetta, che è astratta, metafisica. La verità per la Chiesa deve diventare sempre più quella dei popoli sofferenti che attendono da lei risposte concrete ed immediate. Ancora, nella mia lettera chiedo di dare un assetto nuovo alle parrocchie: piccole chiese “di condominio”, costituite da gruppi di famiglie, strettamente legate al territorio in cui sono inserite, in maniera da divenire segni effettivi ed efficaci strumenti di azione pastorale. Infine, chiedo con urgenza la riapertura del dialogo con le comunità ecclesiali di base. Mi stupisce tanta premura nei confronti dei seguaci di Lefebvre e tanta disattenzionese, quando non rifiuto e diniego, per chi vive un impegno quotidiano ed incarnato nelle contraddizioni della Chiesa e della società come fanno le comunità di base, pur tra alcune esagerazioni e posizioni radicali che vanno attentamente vagliate.

Una parte importante della sua lettera è dedicata ai viri probati...

Io credo che sia maturo il tempo di introdurre questa novità nella Chiesa, e che ne sia forte l’esigenza; ma nella gerarchia resta la paura che i viri probati portino con sé la fine del celibato. Non è così! Il celibato rimane come dono, come carisma. Quella dei viri probati è invece una risposta alle attuali contraddizioni delle unità pastorali, che sono solo un espediente amministrativo per far fronte alla carenza di preti, ma che non assicurano una reale ed assidua cura pastorale delle comunità, specie di quelle più piccole, con le loro ricchezze e tradizioni. A loro serve una guida che non sia un prete di passaggio, un “pendolare” dei sacramenti, talmente impegnato nella cura di tante parrocchie e di tante anime da riuscire solo a consacrare o a confessare, a celebrare funerali o matrimoni. Serve qualcuno che venga dall’interno delle comunità di fede, uomini sposati che per autorevolezza umana e spirituale siano ritenuti idonei ad assumere il compito di “anziano” e che alimentino la vitalità spirituale dei loro fratelli e delle loro sorelle.

I diversi temi che abbiamo toccato richiamano alla mente le parole dell’ultima intervista del card. Martini sulla povertà nella Chiesa e sulla Chiesa povera, come anche quelle sulla Chiesa in ritardo di 200 anni. La sua visione sembra però più fiduciosa rispetto a quella dell’ex arcivescovo di Milano...

Ho voluto molto bene a Martini, mi sono ritrovato con lui su tante delle posizioni che ha espresso durante gli anni del suo ministero episcopale. Lui ha concluso la sua esperienza terrena con molta sofferenza e con un po’ di pessimismo nei confronti della Chiesa. Nel suo libro Colloqui notturni a Gerusalemme diceva di aver fatto molti sogni di una Chiesa che «procede per la sua strada in povertà e umiltà», «che non dipende dai poteri di questo mondo», «che dà spazio alle persone capaci di pensare in modo più aperto», «che infonde coraggio, soprattutto a coloro che si sentono piccoli o peccatori». «Sognavo una Chiesa giovane. Oggi non ho più di questi sogni», concludeva. E anche la sua ultima intervista è piena di una amarezza che ci deve profondamente interrogare. Ma io, nonostante tutto, resto fiducioso: credo che lo Spirito irromperà in questa nostra Chiesa e ci mostrerà una realtà diversa. Certo, ci vorrà tempo. E pazienza. E in questa attesa succederà che qualcuno sarà forse costretto a pagare per il coraggio delle sue posizioni. È successo a Martini, capiterà ad altri vescovi. Bisogna essere pronti. Io lo sono e ho cercato - vendendo quel poco che avevo e tornando a vivere nella mia prima diocesi, a Vallo della Lucania - di dare attuazione alla testimonianza di una Chiesa che riscopre Gesù povero tra i poveri e i semplici.

A cinquanta anni di distanza dalla sua indizione, quale delle istanze conciliari le pare più disattesa, se non tradita?

La povertà è senz’altro l’aspetto più disatteso. Oggi, invece che di una Chiesa povera tra i poveri facciamo piuttosto quotidianamente esperienza di una Chiesa che ha bisogno dei paramenti di Armani per celebrare le proprie pompose liturgie. Stiamo tornando indietro, altro che riscoprire la semplicità evangelica! Ma se non facciamo presto a liberarci dalla schiavitù del denaro e dalla collusione con il capitalismo finanziario globalizzato, il demonio, invece che limitarsi a diffondere il suo fumo, darà zampate laceranti sul tessuto “griffato” di questa Chiesa. Noi vescovi denunciamo spesso gli assalti che giungerebbero da fuori della Chiesa, dal laicismo e dalla secolarizzazione. Ma i pericoli veri vengono dall’interno, da una Chiesa che continua a perdere la lucentezza e la genuinità del messaggio evangelico. (v. g.)

* FONTE: Adista Notizie, n. 33, 22/09/2012


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